Ricordo dei fratelli Cervi. La Resistenza
dimenticata. Storia di "sette emiliani dei campi".
Ma io scrivo ancora parole d'amore,
e anche questa terra è una lettera d'amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,
non alle sette stelle dell'Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d'amore nel silenzio.
Non sapevano saldali, filosofi, poeti,
di questo umanesimo di razza contadina.
L'amore, la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore
Non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.
Salvatore Quasimodo da Ai fratelli Cervi, alla loro Italia
La lirica di Quasimodo del 1955 ben s'addice all'epoca in
cui noi viviamo: davvero i nostri giorni sono tardi storia.
Per restituire la dignità che meritano ai più umili protagonisti
della storia, in particolare di quella storia della Resistenza
che si cerca spesso di screditare, scrivo dei fratelli Cervi.
Gelindo, Ferdinando, Antenore, Aldo, Agostino, Ovidio ed
Ettore Cervi sono sette fratelli che vivono con i genitori,
le mogli e i figli in una cascina fra Campegine e Gattatico,
nella Provincia di Reggio Emilia. Sono bravi agricoltori
e sono istruiti, nella loro piccola libreria ci sono libri
di Dostoevskij, manuali di agricoltura, le raccolte delle "Relazioni
Internazionali" e della "Riforma sociale"di Einaudi.
I fratelli Cervi sono antifascisti.
"Cosa vuole" dice il padre Alcide "noi siamo fatti così, siamo per la libertà." L'8
settembre i Cervi passano alla resistenza: non la resistenza armata della montagna,
ma quella legata alla famiglia e al lavoro che carica di ribellione la quotidianità.
La casa dei Cervi accoglie i prigionieri di guerra fuggiti dai campi: ne passano
ottanta tra il settembre al novembre nella loro cascina. Scriveva il commediografo
latino Terenzio: "Sono un uomo e tutto ciò che riguarda l'uomo riguarda me",
nella cascina dei contadini emiliani tali parole si fanno quotidiana realtà.
È una mattina di nebbia quando i fascisti, cui è giunta notizia dell'attività dei
Cervi, circondano il cascinale. All'ordine di arrendersi i sette rispondono sparando
ma presto sono costretti a cedere: gli assalitori hanno dato fuoco al fienile
e se la casa bruciasse l'intera famiglia morirebbe. I fratelli escono con le
mani alzate seguiti dai prigionieri di guerra, mentre i fascisti saccheggiano
la loro cascina. Nella caserma dei Servi, a Reggio Emilia, l'interrogatorio e
l'invito a passare alla repubblica fascista. "Crederemmo di sporcarci" dice Aldo
ad un poliziotto che insiste.
Quando il 27 settembre il GAP (Gruppo Armato Partigiano)
uccide Vincenzo Onfiano, segretario del Fascio, il Tribunale
speciale giudica i Cervi senza farli comparire, li condanna
a morte con una sentenza per cui non è occorsa la camera
del consiglio.
Giustizia fascista.
Verranno uccisi in un campo, Antenore non credeva si potesse
morire con il bel cappotto nuovo che s'era fatto. La terra
riaccoglie i suoi ligli, si riprende la loro giovinezza,
il loro amore. Il padre Alcide saprà della loro morte solo
l'8 gennaio e si aggrapperà, nel dolore, alla sapienza contadina
che gli insegna che sempre "dopo un raccolto ne viene un
altro".
E il nostro raccolto, quali frutti produce?
La domanda è tutt'altro che retorica alla luce dei ripetuti
tentativi di derubarci della Storia e della Memoria che sono
stati compiuti. Non esistono dittature "buone". Non esistono
dittature che non esigano tributi di sangue. Sempre una voce
si alza per rivendicare quella dignità che rende l'uomo degno
del suo nome. Forse potremmo trarre queste semplici verità dalle
vite dei fratelli Cervi e un ringraziamento per il nostro
passato contadino assetato di libertà e di fratellanza. Non
temete di non avere spazio per loro nella vostra memoria:
essa, come la poesia, è una creatura che si nutre di se stessa
e d'infinito.
Alice Patrioli
da
REDS
6.01.2004
Collettivo Bellaciao