Il caso Parmalat e il crepuscolo dell'Italia

Speculazioni, bilanci falsi, bugie: il crollo del gigante
industriale italiano è solo la punta dell’iceberg.
Un articolo di Beppe Grillo
Da anni, molti segni indicavano che non conveniva investire
in Parmalat. Se a me che faccio il comico questi segni sembrano
così evidenti, come mai non erano evidenti alle banche internazionali,
alle società di revisione, agli investitori e ai risparmiatori?
Standard & Poor dava un buon rating di Parmalat fino a due
settimane prima del crollo. Negli ultimi sei mesi il valore
delle azioni Parmalat era raddoppiato. Deutsche Bank aveva
comprato il 5 per cento di Parmalat e l’ha venduto appena
prima del crollo. Davvero nessuno sapeva? Dal 2002 ho raccontato
nei miei spettacoli i debiti e i bilanci falsi di Parmalat
a più di centomila spettatori. Sono figlio di un imprenditore.
La mia prima perplessità su Parmalat è sulla strategia industriale
più che su quella finanziaria: mi colpisce la sproporzione
tra la povertà del prodotto di base – il latte – e la megalomania
del progetto e delle spese pubblicitarie di Calisto Tanzi.
Una media azienda regionale che si propone, come diceva Tanzi,
di diventare “la Coca-Cola del latte” mostra di non conoscere
né il prodotto né i mercati. È come se un fabbricante di
meridiane dicesse: “Voglio diventare la Rolex delle meridiane”.
Come si fa a dargli i propri soldi?
Le caratteristiche del latte fanno a pugni con quelle della
Coca-Cola, che è una miscela chimica e vegetale inventata
da un farmacista, standardizzata mondialmente, prodotta in
pochi enormi impianti centralizzati; la Coca-Cola ha bassi
costi di produzione e alti costi di vendita perché gran parte
della sua attrattiva è fondata sulla pubblicità e sulle emozioni.
Il latte è il contrario della Coca-Cola: è un prodotto naturale,
deperibile, locale, proviene da migliaia di produttori, ha
alti costi di produzione, bassi costi di vendita, molti concorrenti.
Il latte è un alimento affermato e insostituibile, è l’unica
cosa che la natura produce con il solo scopo di essere un
alimento per i mammiferi. I ricavi della Coca-Cola si basano
su ciò che è stato creato intorno alla sua bottiglia, quelli
del latte su ciò che c’è dentro la bottiglia. E questo è già perfetto, è stato
ottimizzato in milioni di anni di evoluzione. Modificare
una cosa perfetta vuol dire peggiorarla, oppure farla diventare
una cosa molto diversa, come il formaggio o lo yogurt.
Formula uno, calcio e latterie
Con il latte ci sono due strade: cercare di modificarlo il
meno possibile e di conservarne il massimo di proprietà per
qualche giorno, oppure trasformarlo in qualcosa di diverso,
che si venda per altri motivi nutrizionali – come il formaggio
o lo yogurt – o emozionali, come i “novel food” inventati
dal marketing. Nel primo caso riescono meglio le piccole
latterie locali, spesso cooperative o comunali, di cui ci
sono buoni esempi in Italia e in Svizzera. Nel secondo caso,
il maggior successo lo hanno poche grandi aziende che investono
molto in ricerca e marketing. In entrambi i casi i margini
di guadagno sono modesti e non giustificano spese enormi
di propaganda.
Marlboro o Benetton possono sponsorizzare la Formula uno
perché vendono prodotti con alto valore aggiunto e alto contenuto
emozionale, hanno una distribuzione capillare e prodotti
identici in più di cento nazioni. Ma un consorzio di latterie
no, non può sponsorizzare la Formula uno come ha fatto Parmalat
per anni: sono soldi sprecati. Lo stesso vale per le sponsorizzazioni
di decine di squadre sportive nel mondo, tra cui quella molto
costosa del Parma calcio in Italia. Questo vale anche per
il jet privato intercontinentale di Parmalat, che secondo
diversi giornali veniva prestato da Tanzi a vescovi, cardinali
e a un ambasciatore degli Stati Uniti. Insomma c’era una
grande discrepanza tra il tipo di impresa industriale e la
stravagante grandezza delle sue spese.
La cosa che più mi colpisce nei reportage di questi giorni è che
si parla solo di soldi, mai di prodotti. Scrivono di Parmalat
come di un’impresa finanziaria e non di un’industria che
fabbrica prodotti tangibili, anzi mangiabili. Questo sottintende
una convinzione molto diffusa, almeno in Italia: qualunque
azienda, con qualunque prodotto, potrebbe generare per sempre
grandi profitti purché sia in mano a finanzieri creativi
e spregiudicati.
Latte e merluzzi
Nei miei spettacoli ho cominciato prima a parlare dei prodotti,
e solo poi dei miliardi di Parmalat. Nel 2001, girando tra
il pubblico in sala, tenevo in mano un merluzzo e lo immergevo
in una tazza di latte chiedendo alla gente che effetto gli
facesse. Mi ci aveva fatto pensare un “novel food” Parmalat.
Un’imponente campagna pubblicitaria annunciava la “scoperta” del
latte con gli omega-3, una miscela di grassi che prometteva
effetti benefici sul sistema cardiocircolatorio. Quello che
la pubblicità non diceva è che gli omega-3 sono grassi normalmente
estratti dai pesci e che quel latte non era stato “scoperto”,
ma inventato in laboratorio, fabbricando una miscela artificiale
di latte di mucca e di additivi estranei. Che fine hanno
fatto quel prodotto e quegli investimenti?
Gli scandali alimentari degli ultimi anni hanno fatto perdere
a molti europei la fiducia nei prodotti dell’agrobusiness.
Ora gli europei dovrebbero riacquistare fiducia grazie ai “rigorosi
controlli” italiani della nuova Agenzia alimentare europea,
che avrà sede proprio a Parma, la città di cui Parmalat è il
simbolo? E chi è stato il garante di Parma in Europa? Chi
ha imposto Parma come sede dell’Agenzia alimentare europea? È stato
Silvio Berlusconi, che ha detto all’Europa: “Per Parma garantisco
io!”. Voleva come al solito giurare sulla testa dei suoi
figli, ma glielo hanno sconsigliato.
Tanzi e Berlusconi sono oggi i due imprenditori italiani
più conosciuti nel mondo. Mi sembra che non siano famosi
come testimonial dell’Italia di cui ci si può fidare. Sento
ripetere da industriali e finanzieri che Parmalat è un’eccezione
criminale e non rappresenta l’Italia; sento dire che ogni
settore ha le sue pecore nere. Invece è vero il contrario.
Tanzi, come Berlusconi, è un buon esempio della classe dirigente
italiana di oggi. Entrambi sono casi patologici di megalomania.
Entrambi posseggono una grande squadra di calcio, yacht miliardari,
un jet privato.
Prima di fondare Forza Italia la dimensione dei debiti di
Berlusconi, la sua dimestichezza nel falsificare i bilanci,
la sua ragnatela di società finanziarie offshore ricordavano
la situazione di Tanzi. Berlusconi confidò a giornalisti
come Biagi e Montanelli che l’unico modo per salvarsi era
conquistare il potere politico. È qui la differenza insormontabile
tra Tanzi e Berlusconi: Tanzi non avrebbe potuto fondare “Forza
Lat” e salvarsi con la politica come ha fatto Berlusconi
con Forza Italia. Il latte non può essere trasformato in
una proposta politica, la televisione commerciale sì. La
mentalità, l’ideologia, l’apparato, gli uomini e i metodi
del business di Berlusconi consistono da decenni nell’imbrogliare
e conquistare milioni di persone con l’immagine affascinante
di una società ideale in cui tutti sono giovani e belli,
annegano in un’alluvione di consumi e sono sempre allegri,
oltre la soglia della stupidità.
La ricetta magica? Più pubblicità, quindi più consumi, più produzione,
più occupazione, più profitti, quindi di nuovo più pubblicità e
così via in una spirale infinita di benessere. Questo – che
era già un programma intrinsecamente politico – è stato trasformato
facilmente in un programma esplicitamente politico. È bastato
estendere leggermente lo spettro degli obiettivi, trovare
un nome adatto a uno pseudopartito (Forza Italia) e incaricare
decine dei migliori funzionari di Publitalia – la potente
agenzia di pubblicità di Fininvest – di trasformarsi in commissari
politici e di perseguire a tutti i costi la conquista del
mercato politico.
Tanzi non ha la mentalità spettacolare e le strutture di
comunicazione di Berlusconi. Per questo non poteva diventare
lui stesso un prodotto politico. Si limitava a finanziare
il partito più forte, prima la Democrazia cristiana e poi
Forza Italia. Tanzi è austero, schivo, uomo di chiesa e di
pochissime parole. Lo stile era quello di un cardinale. Lo
stile di Berlusconi, invece, è quello di uno showman di basso
livello, da giovane cantava e raccontava barzellette sulle
navi da crociera. Non ha mai smesso, nemmeno al parlamento
europeo, di esibirsi e di cercare di far ridere. Il “core
business” di Berlusconi è Berlusconi stesso. Ciò che ha permesso
a Berlusconi di salvarsi con la politica è il cabaret, sono
le sue esperienze giovanili di showman e un istinto comico
di basso livello che ha grande successo tra la gente meno
colta, proprio come le sue televisioni.
Salvato dal cabaret
Se non fosse un personaggio tragico per l’Italia, Berlusconi
sarebbe il maggiore fenomeno del secolo di avanspettacolo
comico italiano. Sia Tanzi che Berlusconi hanno il titolo
di Cavaliere del lavoro. In Italia la stampa usa il termine “il
Cavaliere” come sinonimo di Berlusconi. Oggi per fare chiarezza
qualcuno dovrebbe rinunciare a quel titolo: o Tanzi e Berlusconi
oppure i molti Cavalieri onesti che ci sono in Italia. Finché Berlusconi
e Tanzi sono Cavalieri è inevitabile pensare ai cavalieri
dell’Apocalisse. È gente come loro che sta portando l’Italia
all’Apocalisse economica e civile.
Quasi tutta l’Italia è una grande Parmalat, fondata più sull’apparenza
e sulla falsificazione che non sulla sostanza. Come per Parmalat,
pochi si rendono conto – o confessano di rendersi conto – dell’abisso
che c’è tra l’immagine e la realtà dell’Italia. Per trent’anni
l’instabilità politica e la corruzione hanno rallentato la
modernizzazione del paese, ponendo le basi del suo attuale
declino. Ma da dieci anni, da quando la Fininvest di Berlusconi è diventata
il principale attore politico italiano, questo rallentamento
si è trasformato in paralisi. Quasi tutte le energie delle
due parti del sistema politico sono prosciugate da una parte
dal tentativo di estendere il potere e l’ideologia Fininvest
a tutto lo stato e a tutta la società; dall’altra dal tentativo
di contrastare questo assalto egemonico.
In Italia molti settori richiedono da decenni riforme profonde
e urgenti: istruzione, informazione, ricerca, innovazione,
tecnologia, pensioni, occupazione, distribuzione dei redditi,
amministrazione della giustizia, energia, trasporti, gestione
del territorio, protezione e risanamento dell’ambiente, sviluppo
sostenibile. Ma da dieci anni tutto ciò passa in secondo
piano, i ritardi italiani si accumulano, diventano drammatici.
Il sistema Fininvest
Il sistema Fininvest e il sistema Italia per certi versi
sono analoghi al sistema Parmalat: molta apparenza, conti
falsi, corruzione, poca qualità, futuro in declino. Parmalat
aveva conti falsi, ma produce milioni di tonnellate di alimenti
che generano benessere reale per decine di milioni di persone
in trenta paesi. Fininvest non è una multinazionale, come
Parmalat, ma una “ipernazionale”. I suoi profitti provengono
quasi esclusivamente dall’Italia e si basano su uno stretto
legame con il sistema della politica italiana e della corruzione.
La gran parte dei suoi guadagni viene dalla pubblicità obbligatoria,
un’attività controversa che crea alla popolazione più danni
che benefici. Più che di profitti in un mercato competitivo,
si tratta di una rendita senza rischi, basata sul monopolio,
sullo statalismo, sulla produzione di niente di concreto.
Sono miliardi di euro che, con il sistema della pubblicità obbligatoria,
Fininvest “preleva dalle tasche degli italiani” quando questi – anche
quelli che non guardano le sue televisioni – comprano i molti
prodotti resi più cari dalla pubblicità. Meriti e rischi
ne ha pochi, perché il bombardamento pubblicitario è forzato
e non è evitabile dai cittadini (altro che Casa delle libertà!),
perché la televisione commerciale – privata o statale – è l’unico
tipo di televisione in Italia e perché questa rendita pubblicitaria
si fonda su concessioni statali di frequenze televisive ottenute
corrompendo il potere politico ai tempi di Craxi. Senza queste
concessioni statali, in quasi monopolio e in parte illegali,
le rendite e il potere Fininvest crollerebbero.
Da due anni inoltre la rendita Fininvest è ulteriormente
garantita dalle centinaia di suoi uomini che hanno preso
il controllo del governo, del parlamento e della televisione
pubblica e che cercano ora di conquistare il controllo anche
della magistratura e della banca centrale. La rendita senza
rischi di Fininvest è inoltre facilitata dal fatto che molti
dei settanta avvocati che Berlusconi ha fatto eleggere in
parlamento usano nei processi contro Berlusconi e i suoi
uomini le leggi a favore di Berlusconi che loro stessi propongono
o approvano come parlamentari.
Questi stessi avvocati – per esempio Pecorella, Taormina
o Ghedini – sono ospiti frequenti nei talk show televisivi,
dove continuano la loro difesa di Berlusconi nel “tribunale” italiano
più importante, quello di milioni di telespettatori ed elettori,
e spesso parlano in tv per ore senza un avversario al loro
livello. Questo tipo di avvocati miliardari, star del foro,
della televisione e del parlamento, rappresentano bene la
concentrazione che è avvenuta in Italia del potere economico,
esecutivo, legislativo e informativo nelle mani di un’unica
azienda, la Fininvest.
Grazie a una legge di Berlusconi – valida retroattivamente
anche per i suoi falsi – il falso in bilancio è stato quasi
completamente depenalizzato. Così è restato o è diventato
una pratica diffusa non solo per aziende italiane come Parmalat,
Fininvest e altre, ma anche per il governo. In Italia il
vero rapporto tra deficit e pil nel 2003 non è inferiore
al 3 per cento, come dichiarato dal governo, ma sarebbe superiore
al 4 per cento se la contabilità creativa del ministro Tremonti – un
ex commercialista di Berlusconi – non avesse contabilizzato
per il 2003 gli introiti derivanti da enormi condoni fiscali
ed edilizi e da vendite e alienazioni di beni dello stato
che andrebbero distribuiti su molti anni. Quasi tutti sanno
che questa contabilità è una truffa, ma fanno finta di non
vedere. Come fingevano di non vedere la realtà di Parmalat.
Un paese al crepuscolo
Se la situazione reale di Parmalat, di Fininvest e dello
stato italiano non è all’altezza delle apparenze e della
propaganda, la situazione dell’economia e della società italiane – lo
dico con tristezza e rabbia – non è migliore. Purtroppo la
realtà dell’Italia non è all’altezza dell’immagine che la
Ferrari e Armani diffondono nel mondo.
L’Italia è in declino rapido, è un paese al crepuscolo. È per
questo che il mio spettacolo si chiama Blackout e io entro
in scena in una sala al buio, con in mano un candelabro.
Faccio l’attore comico, il declino dell’Italia lo percepisco
principalmente con gli occhi e le orecchie: vedo la pubblicità e
la volgarità dilagare ovunque nel paesaggio, nei mezzi d’informazione,
nella vita quotidiana. Dove prima c’erano capannoni industriali,
oggi ci sono lunghe file di cartelloni pubblicitari; ritraggono
spesso merci che una volta erano prodotte in quei luoghi
ma oggi sono importate. Vedo il degrado dell’ambiente e delle
grandi città, sento il traffico e il rumore aumentare ovunque.
Sento la gente: avvilimento, mancanza di prospettive, ignoranza
e disinteresse per ciò che succede nel resto del mondo, egoismo,
cattiveria e volgarità crescenti, chiusura nei propri affari
e nella famiglia, declino del senso civico e della solidarietà.
Anche se come artista avrei il diritto di farlo, non mi baso
solo sulle mie impressioni. Io – attore vero – non voglio
fare come Berlusconi – statista falso – che parla in televisione
nascondendo i fatti e le statistiche, evocando sogni, promesse,
miracoli e rivoluzioni.
Mi piace documentarmi con dati e cifre nudi e crudi, senza
lifting. Ai pochi stranieri che volessero ancora investire
in Italia e ai molti italiani che volessero votare di nuovo
per il sistema Fininvest-Forza Italia consiglio due piccoli
libri: Il mondo in cifre 2004, una sintetica raccolta di
statistiche internazionali curata dall’Economist (e pubblicata
da Internazionale) e Il declino dell’Italia, un inquietante
libro del giornalista economico Roberto Petrini (pubblicato
da Laterza). Spendendo meno di trenta euro in questi due
libretti, chi si volesse documentare sul crepuscolo italiano
può forse schivare ulteriori guai e investimenti sbagliati.
Se parlo di crepuscolo dell’Italia, non mi baso solo sulle
mie impressioni del presente, ma anche sugli indicatori che
ci segnalano il futuro del paese. E questi indicatori mettono
tristezza. L’Italia sta diventando un ex paese industriale
che ha smantellato o sta smantellando buona parte della sua
industria, una volta ben piazzata nel mondo: chimica, farmaceutica,
informatica, elettronica, aeronautica, forse presto anche
automobilistica. L’Italia è il paese con più persone anziane
al mondo e con la minore fertilità tra i paesi industrializzati:
da anni le nascite sono meno delle morti. I nostri livelli
di istruzione, di cultura, di ricerca scientifica e tecnologica
sono tra i più bassi in Europa.
Tra i paesi industriali abbiamo una delle più basse percentuali
di laureati e il più alto numero di maghi, pubblicitari e
guaritori. Invece di investire e lavorare per il futuro stiamo
consumando allegramente le ultime risorse che ci rimangono.
Nella quota delle esportazioni mondiali in dieci anni siamo
scesi dal 5 al 3,6 per cento. Nelle esportazioni mondiali
di prodotti tecnologici stiamo scomparendo con un piccolo
2,5 per cento, mentre Francia e Germania sono al 6 e all’8
per cento.
Esaminando la posizione dell’Italia nel contesto internazionale
non c’è da stupirsi se siamo il paese industriale che attira
meno capitali stranieri. Gli investimenti delle multinazionali
in Italia sono diminuiti dell’11 per cento nel 2001, del
44 per cento nel 2002. Per bocca di due dei suoi ministri
più influenti il governo italiano afferma che l’Unione europea è dominata
dai “nazisti rossi”. Uno di loro dice che l’Europa è “forcolandia”,
che con il fallimento della costituzione europea a Bruxelles “siamo
riusciti a fermare l’impero comunista che stava tornando”,
che “l’euro è la rapina del millennio. L’hanno inventata
i massoni”. Se foste un investitore straniero mettereste
i vostri soldi in un paese governato da gente così?
Indicatori desolanti
Se osserviamo la posizione dell’Italia in alcune classifiche
internazionali può sembrare quella di un paese fortunato:
settimo pil al mondo, quarto posto tra i grandi paesi per
numero di automobili e di telefonini per abitante. Ma se
analizziamo gli indicatori che danno un’immagine più completa
dell’Italia e soprattutto delle sue opportunità per il futuro,
allora siamo al crepuscolo. In una ventina dei principali
indicatori internazionali che delineano il futuro e la dinamica
di un paese, l’Italia si trova tra il ventesimo e il quarantesimo
posto. Gli stati che più spesso ci accompagnano in queste
classifiche sono paesi in via di sviluppo (Colombia, Namibia,
Sri Lanka, Cina, Brasile), paesi dell’Europa dell’est in
transizione (Slovenia, Estonia, Slovacchia) o nel migliore
dei casi i meno sviluppati tra i paesi europei (Spagna, Portogallo,
Grecia).
La differenza preoccupante tra l’Italia e questi paesi è che
loro da anni stanno salendo nelle classifiche internazionali,
noi invece stiamo scendendo. Ogni anno ci incontriamo con
loro sui pianerottoli della scala internazionale: li vediamo
salire e noi scendiamo di un’altra rampa. Ho riassunto in
una tabella una ventina di indicatori internazionali che
ci danno un’idea preoccupante della realtà italiana e del
suo futuro.
Fine di un’era
È incredibile la profondità del declino italiano. Nel rinascimento siamo stati
un faro della cultura, della scienza, dell’innovazione e della finanza in Europa.
Nella musica e nella tecnica bancaria ancora oggi molti termini tecnici in tedesco
e in inglese sono parole italiane (sonata, adagio, fortissimo oppure aggio, incasso,
sconto, lombard) a testimonianza dei secoli in cui eravamo il paese di riferimento
in quei campi.
Più tardi abbiamo inventato l’elicottero, l’aliscafo, il
batiscafo, il telefono, la radio. Oggi però non inventiamo
quasi niente, l’Italia ha meno premi Nobel del solo Politecnico
di Zurigo, il nostro export si basa su prodotti di bassa
tecnologia che presto vedranno la concorrenza dei paesi emergenti,
mentre nei prodotti ad alta tecnologia non possiamo competere
con le nazioni più avanzate. I nostri manager in compenso
vogliono orientarsi per i loro stipendi agli Stati Uniti
e per quelli dei loro dipendenti alla Bulgaria o alla Cina.
Il numero dei laureati italiani che lavorano all’estero è sette
volte maggiore del numero dei laureati stranieri che lavorano
in Italia.
Per decenni buona parte della grande industria e dell’export
italiano hanno prosperato grazie alla benevolenza dello stato
e dei partiti e alle periodiche svalutazioni della lira.
Oggi che questo non è più possibile, il declino italiano
si accelera. Paghiamo il prezzo delle modernizzazioni che
non abbiamo fatto negli ultimi decenni.
Al crepuscolo industriale, tecnologico e culturale dell’Italia
si aggiunge il declino sociale con un rapido aumento della
ricchezza dei ricchi e l’estensione e l’approfondimento della
povertà. Nella disuguaglianza dei redditi abbiamo superato
perfino gli Stati Uniti: in un decennio (1991-2001) il 20
per cento degli italiani è diventato più ricco, l’80 per
cento più povero. Il reddito del decimo di italiani più ricchi è cresciuto
del 12 per cento, mentre il reddito del decimo di italiani
più poveri è sceso del 22 per cento.
Otto milioni di italiani vivono sotto la soglia di povertà e
altri quattro milioni vivono appena sopra. Molti di questi
poveri e quasi poveri hanno un lavoro o due o tre, ma non
gli bastano per vivere decentemente. Lo stipendio medio di
un tranviere di Zurigo (5.500 franchi) è quasi il triplo
di quello di un tranviere di Milano, ma il costo della vita
e dei biglietti del tram a Zurigo è solo il 50 per cento
più alto che a Milano. Stipendi reali sempre più bassi e
lavori sempre più precari fanno crescere la conflittualità selvaggia – come
quella dei guidatori di tram e autobus – che frena ulteriormente
la qualità della vita e lo sviluppo del paese.
La resa della sostanza all’apparenza
Il declino della Fiat è forse uno dei migliori indici del
declino italiano: dieci anni fa Fiat vendeva in Italia un’auto
su due, oggi una su tre. L’immagine più forte del crepuscolo
italiano è stata per me quella della carovana di limousine
scure che in una sera del 2002 – al culmine di una crisi
della Fiat che sembrava mortale – ha portato l’intero stato
maggiore della Fiat a un consulto drammatico, non al ministero
dell’industria o delle finanze ma nella grande villa di Arcore
di Silvio Berlusconi, padrone di Fininvest e capo del governo.
Le immagini del telegiornale sembravano quelle di un film
sulla mafia, quando avviene un regolamento di conti e un
cambio della famiglia al vertice del potere. Era la resa
di ciò che resta dell’Italia industriale alla nuova egemonia,
all’Italia della pubblicità e della televisione commerciale.
La resa della sostanza all’apparenza. Non è un caso che l’industria
che ha conquistato il potere politico in Italia non fabbrichi
cose ma sogni, non venda merci ma promesse.
http://www.internazionale.it/home/primopiano.php?id=5150
12.02.2004
Collettivo Bellaciao