IL SANGUE DEI VINTI, di GIAMPAOLO PANSA.
"Questa e' una critica del libro di Pansa "Il sangue
dei vinti" che ulteriore fiato ha offerto alle misere tesi "revisioniste" rilanciate
negli ultimi anni dalla destra"
Enrico Campofreda dal sito:
http://www.lankelot.com
RIFLESSIONI
Della nuova fatica di Giampaolo Pansa “
Il sangue
dei vinti” (
Sperling & Kupfer,
2003) ne è felice esclusivamente la Destra. Quella nostalgica
del mai morto fascismo filo e post, che però litanìe simili
le aveva già scritte, tanto da offrire al giornalista di
Casale Monferrato le fondamenta bibliografiche del suo libro.
E quella “perbenista” che dà più fiato alla
revisione
della storia. Sul modello delle non nuove teorie
di Ernst Nolte (per il quale il massacro di sei milioni di
ebrei perpetrato dal nazismo non sarebbe mai avvenuto) si
sostiene che il fascismo non è stato una dittatura; non ha
seminato morte per conquistare il potere e conservarlo per
un ventennio; non ha praticato assassini di massa con le
guerre mercenarie e coloniali spingendo poi il popolo italiano
nel baratro del conflitto mondiale.
Insomma le pericolose amenità diffuse sulle pagine del Corriere
della sera da Galli della Loggia e dagli editorialisti Mieli
e Romano, solo per citare i più ostinati manipolatori, che
trovano il sostegno anche di riviste come “Nuova storia contemporanea” diretta
da Francesco Perfetti.
Ignorare la condanna della storia
Il libro, sull’onda dell’attuale moda revisionista, stravende.
Escludiamo che Pansa l’abbia pubblicato per bieco interesse
economico: con tutto quel che ha guadagnato, fra attività editoriale
e giornalistica, non ne aveva bisogno. Cerchiamo di capire
il fine dell’iniziativa.
La motivazione che l’autore pone in apertura ha il sapore
d’una giustificazione nient’affatto originale, una sorta
di
riesumazione dorotea degli opposti estremismi.
Dichiara
“Dopo tante pagine scritte sulla Resistenza
e sulle atrocità compiute da tedeschi e fascisti, mi è sembrato
giusto far vedere l’altra faccia della medaglia. Ossia quel
che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica Sociale
Italiana, che cosa patirono, le violenze e gli assassini
di cui furono vittime”.
Dunque il navigato curatore di altri racconti a sfondo storico
guarda
gli effetti senza risalire alle cause e finisce
per porre sullo stesso piano dittatori e oppressi, squadristi,
partigiani e vittime civili riesumando la teoria dei
morti
tutti uguali.
Se si usa come metro la categoria dello spirito la morte
può omologare e unificare gli uomini e le loro sorti. Non
può, invece, pacificarli né renderli simili perché ciò che
essi hanno compiuto in vita segna la loro differenza anche
dopo il trapasso. La fine del dittatore Mussolini non è stata
e non sarà mai eguale a quella d’un combattente della libertà.
Sono
morti per intenti opposti, come opposta è stata
la loro esistenza: l’una segnata da soprusi e oppressione,
l’altra dall’affermazione di pace e democrazia .(1)
E non si tratta di separare alla maniera manichea bene male,
ma di non dimenticare i fatti e il giudizio della storia
come effetto di
“ciò che riguarda ... tutti gli uomini
del mondo che si uniscono tra loro in società e lavorano
e lottano e migliorano se stessi”.(2)
Ignorare gli insegnamenti della storia
Pansa tralascia un altro essenziale insegnamento della storia:
la
consequenzialità dei fatti. Chiunque la studi sa
come molte vicende si susseguono con frequenti legami e ripercussioni.
Spesso qualcosa accade perché in precedenza è accaduto dell’altro
e, per violenze e vendette, tale consequenzialità è ancora
più stretta. Perciò sarebbe quantomeno singolare - se non
fosse voluto e fazioso - parlare della resa dei conti col
fascismo e coi suoi sostenitori più fanatici senza considerare
quanti soprusi, oppressioni, violenze, assassini, lutti il
regime mussoliniano produsse in venticinque anni: due di
squadrismo pre-marcia su Roma, ventuno di dittatura e altri
due di miserrimo servilismo(3) al più feroce regime della
storia moderna: lo stato nazista .(4)
La stessa recente definizione di
guerra civile che
molti storici, anche non revisionisti, danno ai terribili
mesi dal settembre ’43 all’aprile ‘45, pare impropria. Seppure
si combatté fra italiani non ci fu uno scontro di un popolo
diviso in due: la componente concentratasi a Salò non aveva
più alcun legame con la popolazione se non quello imposto
dal terrore e non avrebbe potuto sostenere alcun conflitto
se non fosse stata protetta dall’esercito tedesco. L’Italia
visse, dunque, una
guerra di Liberazione fra
i tedeschi occupanti affiancati dall’esercito fantoccio della
Rsi e le truppe anglo-americane coadiuvate dai partigiani
che miravano a liberare la penisola.
Non accettare le conseguenze di una tragedia
In verità durante la narrazione l’autore ricorda diverse
stragi nazifasciste sui civili e sui patrioti del Comitato
di Liberazione Nazionale offrendo egli stesso la spiegazione
della finale violenza sui vinti causata da quell’odio verso
il fascismo radicato in due generazioni d’italiani oppressi.
Ma prevale in lui, non sappiamo se per gusto della provocazione
o per una tardiva fascinazione verso le tesi revisioniste,
l’intento di fare il
martirologio dei fascisti eliminati,
dando fiato anche ai più screditati falsificatori di parte:
l’attuale deputato di An Antonio Serena, recentemente distintosi
per la divulgazione fra i suoi colleghi parlamentari di pubblicazioni
osannanti a uno dei boia delle Fosse Ardeatine, il capitano
delle SS Priebke. Oppure il saloino Giorgio Pisanò, sostenitore
della tesi di 45.000 vittime della repressione antifascista.
Quando è appurato che le vittime del periodo: 1943 fine 1946
furono al massimo 12.000.(5)
Non si tratta comunque di tenere una macabra contabilità:
alcune decine di migliaia di vittime in meno non attenuano
i termini della fermezza della vendetta.
La questione è se si vogliono comprendere le cause di una
dura risposta dei vincitori che trovava, per motivi che in
molti casi Pansa stesso ricorda, una vastissima eco popolare.
Se in alcuni casi prese il sopravvento una vendetta personale
e privata anziché una giustizia collettiva, è un discorso
che nulla toglie al diffuso desiderio di punire nel modo
più duro chi aveva sconvolto la vita italiana per un quarto
di secolo.
Antifascismo e insurrezione?
Ai conti col fascismo Pansa aggiunge negli ultimi capitoli
del libro un’ulteriore teoria: i partigiani comunisti nei
mesi successivi alla fine del conflitto cercarono di
colpire
anche i capitalisti e gli altri nemici di classe.
Così il giornalista getta in un unico contenitore vendette
contro i criminali di guerra, vendette contro i semplici
fascisti (cosa significasse nei terribili mesi di occupazione
non è dato sapere, visto che si finiva al muro o in un lager
anche per la semplice spiata d’un semplice fascista), vendette
di classe, vendette private, azioni banditesche a sé stanti.
Certo parecchi fascisti e grassatori implicati col regime
vennero ricercati ed
eliminati con metodi diretti.(6)
Anche perché dal 1946(7) la giustizia italiana non ammetteva
più per costoro alcuna punizione. Non fu possibile praticare
quello che Simon Wiesenthal attuò nei confronti di alcuni
criminali nazisti fatti rifugiare in America latina dall’organizzazione
Odessa. Alcuni furono catturati condotti in Israele processati
e condannati a morte.
In Italia dal ‘46 la situazione mutò profondamente a tal
punto che i
reduci della Rsi, in barba alla
Costituzione già riorganizzati nel partito neo-fascista del
Msi, ebbero la possibilità di riapparire in pubblico. E iniziarono
a organizzare un’attività eversiva contro la neonata democrazia
con tanto di neo-squadrismo armato.(8) Da quel momento furono
i
partigiani comunisti a essere
incriminati per
le epurazioni compiute e vennero costretti a riparare in
Cecoslovacchia e Jugoslavia.
Se Pansa vorrà indagare (non è un segreto Spriano, Fiori
avevano iniziato a farlo) sulle posizioni classiste nel Pci
post-resistenziale che si trovò a confliggere col realismo
togliattiano, può farlo. Emancipandosi però da teorie scarsamente
attendibili come quella di Zaslavsky e Aga-Rossi su un presunto
disegno del gruppo dirigente del Pci
d’indebolire
con eliminazioni fisiche la borghesia per poi sostituirla.
Tesi surreale visto che la linea togliattiana, pur con la
sua tradizionale doppiezza, non lasciò mai spazio nel periodo
post-bellico a posizioni insurrezionaliste, attuando una
linea riformistico-partecipativa.
Anche Secchia e Longo, in quella fase critici col segretario,
presero sempre le distanze dalla cosiddetta “
malattia
del mitra”, una scorciatoia militarista che incarnava
più lo spontaneismo ribellistico che programmi realisticamente
rivoluzionari.(9) Se quest’ultimi fossero praticabili e a
che prezzo lo si dovrà commentare storiograficamente con
ricerche e studi, impegnandosi a realizzarli con rigore.
Le congetture e le interpretazioni scandalistiche come quelle
degli ultimi capitoli del “Sangue dei vinti” non aiutano
certo la ricerca storica .
Da
don Calcagno a Farinacci, da Colombo a Koch
Seguiamo alcuni passi della romanzata storia di Pansa non
per esaltare sangue e vendette bensì per capire gli eventi,
ricordando i casi di fascisti la cui fine risultò tragica
com’era stata la loro vita.
Il seminatore d’odio don Tullio Calcagno, direttore della
razzista Crociata Italica e il suo mentore e protettore Farinacci,
violento squadrista della prim’ora e poi ras di Cremona,
sono due delle prime vittime ricordate da Pansa. Basta rileggere
i truculenti proclami che apparivano su quel foglio e si
comprende perché per loro giunse inesorabile il momento del
giudizio. Quindi due torturatori che agivano per conto dei
nazisti sotto la Repubblica Sociale: Franco Colombo, organizzatore
a Milano di una polizia privata intitolata a Muti. Pietro
Koch, creatore di luoghi di reclusione e sevizie nella pensione
Jaccarino di Roma e nella villa Fossati di Milano. Con lui
decine di accoliti fra cui spiccavano Tela, Trinca e gli
attori Valenti e Ferida, uccisi dai partigiani dopo il 25
aprile. Scrive Massimiliano Griner nel suo documentato libro “La
banda Koch”
“… Delle percosse, bastonature staffilate, sul corpo
ignudo con cinghie e catene: quelli erano metodi ordinari,
che qualsiasi aguzzino fascista poteva usare. Roba da dilettanti … Koch
era per i metodi straordinari, per le torture “scientifiche”.
Era un esteta del supplizio. Gli piaceva veder soffrire.
Le grida di dolore dei torturati, gli davano brividi di godimento,
la vista del sangue lo inebriava”.
Sulle dicerie di Pisanò, secondo cui durante i giorni della
Liberazione un certo numero di fascisti vennero gettati negli
altiforni delle fabbriche di Sesto San Giovanni, non c’è traccia
non solo di documentazione ma neppure di testimonianze.
Brigate nere: quei teschi sui berretti
Della morte assegnata a tali Dainotti, Baldi, Bianchi e poi
Adami, Fiorentini e altri uomini delle Brigate nere(10) spiegano
ampiamente i motivi due passi tratti dal romanzo “
Uomini
e no”.
LXIII I morti di largo Augusto non erano
cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto;
e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano
nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento.
Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: passati per
le armi. Non dicevano altro, anche i giornali non dicevano
altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni.
C’era anche una bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla
barba bianca. La gente andava per il largo Augusto e il corso
di porta Vittoria fino a piazza delle Cinque Giornate, vedeva
i morti al sole su un marciapiede, i morti all’ombra su un
altro marciapiede, i morti sul corso, i morti sotto il monumento,
e non aveva bisogno di sapere altro. Guardava le facce morte,
i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole
dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui
berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse
ogni cosa.
CII Quello dal grande cappello e dallo scudiscio scosse allora
il capo. Egli aveva capito. Fece indietreggiare i militi
fino a metà del cortile, e raccolse uno straccio dal mucchio,
lo getto su Giulaj. “Zu! Zu! Piglialo!” disse al cane. E
al capitano chiese “Non devono pigliarlo?” Il cane Blut si
era lanciato dietro lo straccio, e ai piedi di Giulaj lo
prese da terra dov’era caduto, lo riportò nel mucchio. “Mica
vorranno farglielo mangiare” Manera disse. I militi ora non
ridevano, da qualche minuto. “Ti pare?” disse il Primo. “Se
volevano toglierlo di mezzo” il Quarto disse “lo mandavano
con gli altri all’Arena”. “Perché dovrebbero farlo mangiare
dai cani?” disse il Quinto. “Vogliono solo fargli paura” disse
il Primo. Il capitano aveva strappato a Gudrun la pantofola,
e la mise sulla testa dell’uomo. “Zu! Zu!” disse a Gudrun.
Gudrun si gettò sull’uomo, ma la pantofola cadde, l’uomo
gridò, e Gudrun riprese in bocca ringhiando, la pantofola. “Oh!” risero
i militi. Risero tutti, e quello dal grande cappello disse “Non
sentono il sangue”. Parlò al capitano più da vicino “No?” gli
disse. Gli stracci, allora, furono portati via dai ragazzi
biondi per un ordine del capitano, e quello dal grande cappello
agitò nel buio il suo scudiscio, lo fece due e tre volte
fischiare. “Fscì”, fischiò lo scudiscio. Fischiò sull’uomo
nudo, sulle sue braccia intrecciate intorno al capo e tutto
lui che si abbassava, poi colpì dentro a lui. L’uomo nudo
si tolse le braccia dal capo. Era caduto e guardava. Guardò chi
lo colpiva, sangue gli scorreva sulla faccia, e la cagna
Gudrun sentì il sangue.”Fange ihn! Beasse ihn!” disse il
capitano. Gudrun addentò l’uomo, strappò dalla spalla.”An
die Gurgel” disse il capitano.
L’albero
di Solaro e gli alberi-forca di Bassano
Come ricorda Claudio Pavone nel suo saggio storico sulla
moralità nella Resistenza: la Rsi introdusse la pratica delle
pubbliche esecuzioni e dei cadaveri degli impiccati e dei
fucilati lasciati a lungo sul posto.
A Giuseppe Solaro(11) , fanatico capo del Pnf Torino (organizzatore,
mentre la città veniva liberata, della “battaglia dei cecchini” che
offrì l’ennesimo spargimento di sangue innocente di trecentoventi
fra cittadini e partigiani) viene restituita quella “
festa
della forca” - la definizione è di Pansa - tanto
cara al fascismo repubblichino. Altra testimonianza viene
da Mario Isnenghi nella raccolta di saggi curata da Ranzato
“Guerre
fratricide”.
L’elemento preminente e ricorrente appare
comunque quello della pubblica esposizione del cadavere.
Anche l’esposizione ha le sue regole, di tempo e di spazio.
Bisogna che il macabro memento mori penzoli a lungo, per
ore e anche per giorni, dall’albero, asta o lampione da cui
ostenta la sua impotenza “Ero un ribelle. Questa è la mia
fine!” dicono i cartelli attaccati ai cadaveri dei giustiziati
di Arten, Quero, Cornuta, Alano, Oné di Fonte, Levada, Onigo,
Pederobba, Cavaso, Crespano, Bassano e di tutti i paesi che
fanno corona al Grappa nei giorni del disastroso rastrellamento
del massiccio, alla fine del quale si conteranno centinaia
di fucilati, impiccati e appesi vivi a un gancio di macellaio,
oltre ai caduti in combattimento e ai deportati in Germania.
Da tutti i paesi dei dintorni, le madri dei giovani alla
macchia accorrono trepidanti a Bassano, quando si sparge
la voce che, appesi ai minuscoli alberi di viale Venezia,
coi piedi che quasi toccano terra, ce ne sono altri 31 senza
nome.
Egualmente dopo la Liberazione a coloro che Pansa definisce “
belve
in gabbia”, e belve lo erano state, e in gabbia
c’erano finiti dopo la cattura partigiana, veniva riservato
il trattamento che i partigiani avevano subìto a opera dei
nazifascisti. Ancora un passo di Isnenghi.
“Il morituro può essere legato alla cabina
o alla fiancata dell’autocarro, con la faccia rivolta verso
l’esterno, e così esibito lungo le strade che portano al
luogo dell’esecuzione. Si può – come a Genova – fucilare
nei forti della cintura e poi mandar giù il camion con le
casse da morto ad attraversare la città. Oppure è il camion
stesso con i boia e i condannati che si sposta di paese in
paese – vero e proprio Carro di Tespi della morte – sin quando
ciascun condannato è stato appeso al suo albero e buttato
fuori dal camion, che prosegue la corsa sino al prossimo
arresto. Un episodio di Paisà ha fissato l’immagine di un’altra
pratica della scenografia della morte, che affida alla corrente
dei fiumi la mobilità e la visibilità delle spoglie del ribelle,
legato alle tavole … ”.
Così leggendo della morte di Vezzalini torna alla mente la
strage del 15 novembre 1943 (gli otto antifascisti fatti
prelevare dalle carceri e uccisi vicini al fossato del Castello
Estense di Ferrara) rievocata nel film di Florestano Vancini “La
lunga notte del ‘43”.
I
simboli di morte e pacificazione
I simboli della morte sono da sempre l’emblema dei regimi
che disprezzano l’uomo e la sua vita, il fascismo italiano
si distinse e fece scuola in Europa. Se ne ricordano i lugubri
labari e gagliardetti, le funeree canzoni(12) , ma soprattutto
la prolungata pratica dell’assassinio .(13)
Nessuna organizzazione partigiana italiana teorizzò la violenza
fine a se stessa. Quando ci furono episodi di violenza privata
su prigionieri si trattò di casi isolati, mai diretti politicamente,
e vennero repressi e duramente biasimati. Come altre devianze
individualistiche: i furti, ad esempio. Ancora Pavone: “La
severità contro gli atti di banditismo compiuti dai partigiani è grande,
e le fonti ce ne attestano la più dura applicazione”.
Certo, nel concitato periodo successivo alla Liberazione,
si
verificarono anche episodi discutibili, come l’uccisione
a sangue freddo di 54 fascisti operata nelle carceri di Schio
da una decina partigiani. In quel caso l’attenuante delle
stragi naziste avvenute nei dintorni (Forni, Pedascala) nei
mesi precedenti e il martirio di due partigiani del luogo,
Germano e Giacomo Bogotto, di cui si ritrovarono i corpi
straziati dalle torture non aiutano a comprendere l’eccesso
repressivo che assunse i contorni di un’incondizionata vendetta.
Seppure una folla inferocita nei giorni precedenti aveva
cercato di assaltare le carceri per linciare i fascisti.
E ad eccidio avvenuto una buona parte della cittadinanza
lo considerò un atto di giustizia verso i tanti martiri della
libertà.
Avrebbe meritato senz’altro punizioni severe una moltitudine
di gerarchi e camicie nere che invece riuscì a farla franca(14)
. Anche per quell’azione di pacificazione che fu la citata
amnistia del
giugno 1946 che portò alla
scarcerazione di oltre
40.000 fascisti(15). Tra loro c’erano
parecchi
criminali di guerra. Due nomi per tutti: il capobanda
dei torturatori della X Mas, Junio Valerio Borghese, e il
macellaio d’Etiopia Rodolfo Graziani, che il democratico-cristiano
Giulio Andreotti negli anni Cinquanta portava al suo fianco
nei comizi elettorali nei collegi della Ciociaria. La storia
e i vincitori si sono dimostrati assai più clementi di quanto
Pansa, Pisanò e revisionisti vogliano far credere.
Enrico Campofreda
(foto della Resistenza tratte dal sito del ANPI di Magenta:
http://www.anpimagenta.it,
clicca sull'immagine per ingrandirla)
(1) Come ricorda Primo Levi ne “I sommersi
e i salvati” l’oppressore e la vittima sono nella stessa
trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha approntata
e fatta scattare.
(2) A. Gramsci, Lettere dal carcere (154), Einaudi, Torino,
1975
(3) “Tutto ciò che era repentino, proditorio, esplodente
con urla era fascista” scrive Fenoglio nel secondo capitolo
de “Il partigiano Johnny” e il partigiano Sandor nei “Ventitre
giorni della città di Alba” afferma: “Io coi tedeschi ce
l’ho, è naturale che ce l’ho, per tante cose. Ma non c’è confronto
con come ce l’ho coi fascisti. Per me sono loro la causa
di tutto”.
(4) Fra il settembre ’43 e il maggio ’45 i reparti tedeschi
della Wehrmacht (esercito) e delle SS (polizia politica)
assassinarono 9.180 civili, in gran parte donne e bambini.
In più il movimento partigiano del Corpo Volontari della
Libertà pagò un durissimo tributo di sangue con 26.600 vittime
nelle regioni dove fu più aspro il conflitto: Piemonte (5.794),
Lombardia (3.938), Veneto (2.670), Friuli (4.784), Bellunese
(564), Liguria (2.794), Emilia-Romagna (6.084).
(5) H.Woller, I conti col fascismo, Il Mulino, Bologna, 1997.
Parri aveva diffuso il numero di 15.000 fascisti passati
per le armi, Tosca parla di 19.801. I dati riportati da Woller
(12.000 morti) sono a tutt’oggi i più accreditati in sede
storica.
(6) Da G. Fiori, Uomini ex “… Autunno ’45. Disarmare, questo è l’ordine
del Partito (il Pci, ndr), consegnare agli Alleati anche
l’ultima pistola. Incredibile. Una pazzia. … (I fascisti)
le armi se le son tenute, spuntano a Milano sigle losche
una al giorno “Figli d’Italia” “Squadre d’Azione Mussolini” “Onore
e combattimento”… A Milano la guerra civile era continuata,
un fallimento l’epurazione legale, s’incontravano per strada
anche torturatori, le azioni punitive ebbero il consenso
popolare: squadre di partigiani col fazzoletto rosso delle
Brigate Garibaldi e il mitra a tracollo erano tornate a far
la ronda cercando il canagliume e se lo tiravano dalle parti
del campo Giuriati, e l’indomani all’alba la vista di quel
corpo inerte non emozionava gli operai di passaggio in bicicletta”.
(7) Il 22 giugno 1946 l’amnistia emanata dal guardasigilli
Togliti, in accordo con il capo del governo De Gasperi, produsse
la scarcerazione di oltre 40.000 fascisti.
(8) Ancora da G. Fiori, op. cit. “… Il ’46 anno duro i fascisti
alzano il tiro, attraversano città e paesi con auto fantasma
sparando nel mucchio.. In giugno migliaia di fascisti tornano
in libertà scarcerati dal guardasigilli Togliatti è la base
di reclutamento delle Squadre d’Azione, ringalluzziti arrivano
a tentare l’attacco alla Casa del Popolo di Lambrate. … L’esplosione,
l’arrivo degli assalitori neri, il nostro tiro a segno dal
porticato, la carneficina. La loro risposta, la bomba nella
sezione comunista di Porta Genova, il piccolo Flammini di
cinque anni, figlio del custode, orrendamente dilaniato,
i pezzetti che volavano attraverso la finestra di via Papiniano …” .
Il Msi creato dal repubblichino Giorgio Almirante perseguì per
decenni un piano eversivo in connubio con apparati deviati
dello Stato, rendendosi protagonista di azioni squadristiche.
Numerosi militanti missini e di formazioni parallele a questo
partito, sostenuti dai Servizi segreti, furono i manovali
delle bombe nella cosiddetta “strategia della tensione”.
Con le stragi che da Piazza Fontana (dicembre 1969) giungono
sino all’attentato al treno 704 (dicembre ’84) si volevano
colpire le conquiste del movimento dei lavoratoti e lo spostamento
elettorale a sinistra avvenuto nel Paese.
(9) Il caso della milanese “Volante Rossa” , ricordato nel
libro di Fiori è uno dei più noti. Nelle confessioni di chi
vi partecipò si constata quello che anche altri studiosi
(Woller) sottolineano: il senso di abbandono a se stessi
di quei partigiani che a lungo avevano rischiato la vita.
Alcuni di loro iniziarono a sentirsi abbandonati e poi traditi
dallo stesso Partito che nel dopoguerra li vedeva come fattore
di disturbo per la nuova realtà politica.
(10) Create nell’estate del 1944 da Alessandro Pavolini e
da lui guidate le Brigate Nere assunsero compiti di repressione
antipartigiana e di rappresaglia sui civili, coadiuvando
l’opera delle SS. Si distinsero per azioni di ferocia nell’Oltrepo
e nel Canavese.
(11) Scrive Woller, op. cit. “Solaro era troppo conosciuto
e troppo odiato perché si potesse pensare di giustiziarlo
come un fascista qualsiasi… fu sottoposto a un processo sommario
e condannato a morte per impiccagione. La sentenza venne
eseguita in corso Vinzaglio, nello stesso posto dove poche
settimane prima lui aveva fatto impiccare quattro partigiani”.
(12) “C’è a chi piace far l’amore/ c’è a chi piace far denaro/
c’è a chi piace far la guerra/ con la morte a paro a paro” è il
ritornello di una canzone dei paracaduti della Rsi che rifà il
verso alla dannunziana Canzone del Quarnaro.
(13) Nel biennio 1920-’22 furono assassinati dagli squadristi
del neonato movimento fascista, finanziato dagli agrari padani,
oltre un migliaio di militanti socialisti, comunisti e popolari
e sindacalisti organizzati in Leghe, Circoli e Camere del
Lavoro. Negli anni seguenti anche illustri personalità politiche
antifasciste vennero uccise o fatte morire: don Giovanni
Minzoni, Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Giovanni Amendola,
Nello e Carlo Rosselli, Antonio Gramsci, solo per citare
i più noti.
(14) In Italia le corti d’Assise condannarono in primo grado
550 fascisti alla pena capitale, solo 91 vennero fucilati.
In Francia su 6763 condanne vennero eseguite 1.500.
(15) Negli anni 1948, 1949, 1953 furono adottati altri provvedimenti
di condono che svuotarono le carceri di tutti i fascisti.
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Qualche libro per approfondire
P. Spriano, “Storia del Partito Comunista Italiano”, Einaudi,
Torino, 1975
G. Bocca, “Storia dell’Italia partigiana”, Laterza, Bari,
1977
L. Borgomaneri, “Due inverni, un’estate e una rossa primavera”,
Angeli, Milano, 1985
P. Spriano, “Le passioni di un decennio”, Milano, 1986
C. Pavone, “Una guerra civile”, Bollati Boringhieri Torino,
1991
G. Ranzato, “Guerre fratricide”, Bollati Boringhieri, Torino,
1994
G. Bocca, “Storia d’Italia nella guerra fascista”, Mondadori,
Milano, 1996
L. Borgomaneri, “Hitler a Milano”, Datanews, Milano, 1997
H. Woller, “I conti col fascismo”, Il Mulino, Bologna, 1997
L. Ganapini, “La Repubblica delle camicie nere”, Garzanti,
Milano, 1999
D. Gagliani, “Brigate nere”, Bollati Boringhieri, Torino,
1999
M. Franzinelli, “I tentacoli dell’Ovra”, Bollati Boringhieri,
Torino, 1999
F. Germinaro, “L’altra memoria”, Bollati Boringhieri, Torino,
1999
R. Katz, “Morte a Roma”, Editori Riuniti, Roma, 1996
K. Klinkhamer, “Stragi naziste in Italia”, Donzelli, Roma,
1997
Aavv, Dizionario della Resistenza, Einaudi, Torino, 2000
Aavv, Atlante storico della Resistenza, Mondadori, Milano,
2000
M. Griner, “La banda Koch”, Bollati Boringhieri, Torino,
2000
B. Fenoglio, “Il partigiano Johnny”, Einaudi, Torino, 1978
B. Fenoglio, “I ventitre giorni della città di Alba”, Einaudi,
Torino, 1986
E. Vittorini, “Uomini e no”, Mondadori, Milano, 1986
V. Pratolini, “Cronache di poveri amanti”, Mondadori, Milano,
1988
G. Fiori, “Uomini ex”, Einaudi, Torino, 1993
Qualche film per non dimenticare
“Roma città aperta”, Roberto Rossellini, 1945
“Paisà”, Roberto Rossellini, 1946
“Achtung! Banditi”, Carlo Lizzani, 1951
“La lunga notte del ’43”, Florestano Vancini, 1960
“Rappresaglia”, Gorge Pan Cosmatos, 1973
“Salò e le 120 giornate di Sodoma”, Pier Paolo Pasolini, 1975
“Novecento”, Bernardo Bertolucci, 1976
“
La
notte di San Lorenzo”, Paolo e Vittorio Taviani, 1982
31.01.2004
Collettivo Bellaciao