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Perché sostengo Fausto Bertinotti

Publie le martedì 4 ottobre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Elezioni-Eletti Partito della Rifondazione Comunista Parigi Primarie

di Celeste Grossi

La politica senza polis

È in crisi l’idea di una dimensione pubblica dell’esistenza e della felicità; l’idea che abbia a che fare con la polis, che esista una dimensione interpersonale oltre la propria persona, la propria famiglia, le strade dei propri negozi, una dimensione non personalizzata quanto personale.

La destra si indirizza a consumatori atomizzati dello spettacolo politico si rivolge a un popolo-plebe di proprietari che chiede alle istituzioni di offrire servizi che aumentino non la qualità della vita, ma la sua facilità privata.

La cancellazione dello spazio pubblico della politica è il segno della forza della destra, oggi, e della sua pervasività (anche nei cuori e nelle menti di donne e uomini insospettabili).

E non si illuda chi pensa che Berlusconi «si sconfigga da solo, basta lasciarlo governare». Non è vero. E non è vero che tanto peggio di così non può andare. Non passerà da sola la nottata.

Non ci sono scorciatoie verso la "liberazione" e il cambiamento: occorre costruire dal basso, orizzontalmente, un’altra cultura politica.

Il fatto è che si è depositata una separazione fra istituzioni e paese, ma anche tra partiti e cittadini, che ha permesso alla “politica” di disinteressarsi sfacciatamente della polis.

C’è molto da lavorare per ridefinire il tessuto e la grammatica della polis: luoghi di vita e relazioni; non bisogni da rappresentare attraverso tessere o deleghe, ma desideri e pratiche con le quali stare, cercando di abitarne le istituzioni diffuse; non ricerca di ingegnerie e tatticismi già visti (e sofferti), ma rivendicazione di laicità e di apertura alle diversità, per non ridursi a rincorrere le destre sul loro terreno, mutuando la forma del loro discorso.

Il movimento contro la guerra e contro il liberismo ha il desiderio e sente la responsabilità di condizionare alla radice alcune scelte programmatiche dell’Unione.

Ci riusciremo solo se considereremo il voto alle primarie uno strumento di lotta.

In Spagna il ritiro delle truppe dall’Iraq è stato ottenuto sicuramente con la mobilitazione ma anche con la partecipazione massiccia alle urne.

Ci riusciremo se quando andremo a votare per le primarie, ora, e per le politiche, poi, conserveremo memoria su chi ha coltivato e praticato l’idea che la guerra, magari quella definita “umanitaria” possa essere uno strumento possibile della politica.

Ci riusciremo soltanto se cambierà nelle donne e negli uomini nostre compagne e compagni di strada l’idea che si possa marciare per la pace ma votare per la guerra, eleggendo rappresentanti che nella propria azione parlamentare hanno votato per il mantenimento delle missioni militari all’estero o hanno parlano del “ritirarsi con lentezza” dall’Iraq, che non si sono battuti per il taglio delle spese militari o per il potenziamento della Legge 185 sul commercio delle armi o per la riconversione dell’industria bellica.

Ci riusciremo solo se continueremo a intrecciare esistenze e resistenze.

Solo in questo intreccio a me sembra stia la possibilità di “durare”, non solo sacrificando il proprio tempo in nome dell’emergenza del conflitto politico, ma facendo conflitto e politica nel proprio tempo di vita.

Ci riusciremo se continueremo a stare insieme non per elaborare un moderato progetto politico, una linea di mediazione al ribasso, ma per un desiderio: nel grande disastro di questi tempi di miseria politica istituzionale e di guerra, il desiderio di avere una casa comune, un luogo politico accogliente anche nei conflitti; uno spazio di discorsi e relazioni in mezzo a tante bombe su deserti di città e di parole.

Un percorso da cercare. Insieme

Certo è più facile indicare le derive da evitare che il percorso per ripensare le forme della politica e della sua trasformazione. E infatti il percorso resta da cercare. Insieme.

Alle primarie sostengo Fausto Bertinotti perché convinta che Rifondazione abbia capito e praticato una forma del far politica differente, senza pensare che il cuore della politica sia ancora mettere insieme piattaforme e cartelli elettorali, attraverso negoziazioni fra sigle.

È nel rifiuto di ogni connotazione militare, gerarchica e violenta delle forme del fare politica e nell’affermazione della politica come spazio pubblico, come territorio di dialogo fra diversi e diverse, fra generi e generazioni, luogo di conflitto (non solo simbolico) e insieme di festa collettiva che si riesce a costruire un altro modo di abitare il mondo. Senza solitudini, paure, egoismi.

Proprio in questo sta la ricchezza e la differenza delle reti.

Una rete è un luogo in cui annodare i percorsi diversi di chi non vuole semplicemente ripetere le vecchie forme della militanza politica, del riformismo istituzionale o della “professionalità”, e cerca qualcosa di nuovo una specie di autoriforma della società e della politica, un’autoriforma relazionale che è forma e pratica di una polis possibile nella quale trovare senso. Ed essere felici.

Le reti sono reticolo di incroci, di codici simbolici ed esistenze, di scambi (gratuiti) di saperi, di competenze e di desideri, attraverso i quali tessere lo spazio nel quale stare pubblicamente.

Sono convinta che queste modalità di azione politica abbiano una possibilità di trovare rappresentanza nell’Unione, solo se dopo le primarie la posizione di Fausto Bertinotti uscirà rafforzata.

Insomma oggi sostengo Fausto Bertinotti perché voglio mantenere aperte strisce di futuro e di speranza.

Lo sostengo perché come dice Arundhati Roy «Un altro mondo non è solo possibile, è in viaggio. Forse molti di noi non saranno qui ad accoglierlo, ma in una giornata tranquilla, se ascolto molto attentamente, posso sentirlo respirare».

Riarmo, militarizzazione e guerra sono entrati nelle nostre vite

«La guerra modella gli uomini di cui si appropria», dice Christa Wolf, in Cassandra. E l’eccezionalità è diventata quotidianità.«La guerra è entrata nel quotidiano, eppure bisogna continuare a pensare, a pensare alla pace», Virginia Woolf

È stata globalizzata la violenza invece dei diritti.

È sotto gli occhi e sulla pelle di noi tutti: l’intreccio micidiale tra potere, danaro e violenza. Poveri sempre più poveri, milioni di persone senza acqua né scuola. Guerre ovunque. Vite cui non si riconosce valore. Bambini arruolati, campi minati, tortura, razzismo.

Sono sotto gli occhi e sulla pelle di noi tutti le terribili conseguenze sulle vite, sull’ambiente, sulla democrazia, sui diritti di un sistema economico e politico che globalizzando povertà e ingiustizia distrugge e si autodistrugge.

Ed è necessario e urgente misurarci anche con i risvolti sul piano locale delle politiche economiche e militari, nazionali e internazionali che agiscono sulle dinamiche di aggressività, di interiorizzazione della inevitabilità delle armi e che diffondono un senso comune “bellico” di cancellazione delle ragioni degli altri e che premono ormai su tutte, tutti, con intensità devastante.

È evidente un raccordo fortissimo tra “sicurezza” e azione armata in nome del “nostro stile di vita” che si regge sulle risorse depredate e sulle popolazioni impoverite, sfruttate e schiacciate nella perdita di prospettive.

Da qui la guerra ai migranti, con le leggi di emergenza contro gli stranieri che a priori sono sospettati di terrorismo in base al paese di provenienza (accompagnate da nuove norme che riconoscono invece il diritto alla difesa violenta non solo della propria persona ma anche delle proprietà).

Da qui la caduta dei “nostri valori” di democrazia e di rispetto dei diritti umani.

Da qui l’evidenza che la componente di etnicizzazione dei conflitti (locali e globali) ripropone forme di esplicito razzismo.

Accettare che questa sia la dimensione attraverso cui possono stabilirsi legami di convivenza significa in realtà sancire il dominio politico-sociale degli integralismi, con sicuri esiti negativi.

La rete per il disarmo

Per tutte, tutti, ci sono stati (e ci sono) momenti di crisi nei quali prevale la sensazione di impotenza e inutilità.

Ma poi continuiamo la nostra azione nella consapevolezza che il mondo diverso che vogliamo richiede ogni giorno di più assunzione di responsabilità, impegno quotidiano.

Nella consapevolezza che per fare la pace bisogna preparare la pace, sradicare le ingiustizie e le diseguaglianze; e nella consapevolezza che chi vuole la pace in mano porta doni, non armi.

E siccome la preparazione della Pace non si può limitare alla scelta di decidere se iniziare o no a sparare sappiamo che bisogna opporsi insieme al riarmo, alla militarizzazione del territorio e alla guerra.

Perché riarmo militarizzazione e guerra ci riguardano come cittadine e cittadini del mondo e come cittadine e cittadini italiani.

Sono convinta che un memorabile discorso di Rosa Luxemburg al Parlamento tedesco contro il riarmo e per la riconversione delle spese militari in spese sociali ci indichi ancora oggi la strada: quella del disarmo - militare, economico e sociale -.

Non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia se al mondo beni fondamentali come cibo, acqua, terra, lavoro, salute, istruzione e saperi non sono considerati diritti non negoziabili e al contrario sono sottoposti alle leggi del mercato.

E noi pensiamo che la pace e la sicurezza non si promuovano con le armi ma con la con la globalizzazione della giustizia, della democrazia e dei diritti.

Continuare a parlare e ad agire per il disarmo assume una valenza straordinaria, oggi che si tende a considerare la guerra come una transizione accettabile per raggiungere la pace.

Il cammino verso la riconversione della produzione, dell’economia e della cultura legata alle armi deve essere ripreso con decisione.

Per questo abbiamo costruito la Rete disarmo in Lombardia. Perché qui in Lombardia oltre ai cuori e alle menti è urgente disarmare anche le mani.

Non vogliamo che la Lombardia primeggi nella produzione di strumenti di morte e di devastazione (secondo gli studi dell’Onu, nel decennio 1990-2000 da sole le cosiddette, armi "leggere" hanno provocato nel mondo più di 5 milioni di morti - la metà dei quali bambini - e 2,5 milioni di disabili gravi).

Per questo abbiamo proposto ad altri soggetti politici, ad associazioni pacifiste, ai sindacati, a gruppi del mondo cattolico di preparare insieme il testo di una proposta di Legge regionale di Iniziativa Popolare per la promozione del Disarmo e della Riconversione dell’industria bellica. Il 19 settembre consegneremo al Consiglio regionale per riproporre con la forza di oltri 15.000 donne e uomini che l’hanno sottoscritta da marzo ad oggi.

Opporci

Tutte, tutti, siamo chiamati ad assumerci la responsabilità di opporci al mondo violento che i potenti della terra cercano di imporci, di opporci alle dinamiche della globalizzazione capitalistica e al sostegno al sistema militare-industriale, di opporci ai danni collaterali della guerra che si chiamano razzismo e distruzione dei diritti democratici, di opporci alla militarizzazione di cuori e menti di milioni di donne e di uomini anche in Italia, di opporci alla spericolata macchina del consenso mediatico che sostiene un’idea di sicurezza, basata sugli strumenti militari.

Misure di sicurezza invasive, prepotenti, ma impotenti, sono la testimonianza del fallimento della militarizzazione del territorio.

Ogni giorno facciamo i conti anche localmente con le manifestazioni di una tensione globale alla violenza armata, come scelta strutturale e sistematica.

Oggi forse non appare un respiro globale realmente incisivo del movimento contro il riarmo, la militarizzazione e la guerra, ma crediamo che nei nostri limiti ci siano anche delle potenzialità.

Noi che facciamo politica dal basso abbiamo un vantaggio: lo sguardo dal margine.

Quello di chi non si riconosce nella cultura e nel mondo che violenti e potenti cercano di imporci; quello di chi ponendosi ai bordi riesce anche a vedere le dinamiche ― è uno dei nostri punti di forza è quello che ci consente di guardare al militarismo con estraneità e ai dolori del mondo con il coinvolgimento e che ci dà il coraggio di manifestare per cambiare radicalmente la società. Siamo nonviolenti, ma radicali.