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Corte Suprema: ora Bush perde anche la destra

Publie le giovedì 6 ottobre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Governi USA

di Massimo Cavallini

Doveva essere, per Bush il conquistatore, la "madre di tutte le battaglie", il vero, definitivo marchio della sua seconda presidenza. Più ancora: la nomina dei nuovi giudici della Corte Suprema - da tutti prevista e da una parte d’America invocata in ogni preghiera - doveva, per il presidente rieletto lo scorso novembre grazie alla mobilitazione della fanteria evangelica, essere il riconoscibile "momento della verità", il magico, ieratico istante nel quale, come capo eletto della Nazione, rendeva infine conto a Dio del potere che gli era stato assegnato, a Dio finalmente restituendo quello che una Corte Suprema dominata dai "liberals" aveva, per troppi anni, inopinatamente deposto nelle mani di Satana. Questo - una sorta di epifania giudiziario-politica - era quello che i soldati della destra cristiana s’attendevano dall’uomo che avevano riportato alla Casa Bianca.

E questo è, invece, quello che vedono in queste ore: una sorta di gioco a rimpiattino, un incrocio di sottintesi e di compromessi. Non una battaglia combattuta nel nome di Dio, ma una scaramuccia verbale dalle tenui sfumature e, quel che è peggio, fatta soprattutto di silenzi. Prima John Roberts, ora Harriet Miers, entrambi conservatori di sicura fede. Ed entrambi sicuramente "amici" di quello che, lo scorso novembre, era stato da loro definito il "più cristiano dei presidenti". Ma né l’uno né l’altra pronti, almeno in questa fase, a brandire la spada di fuoco di fronte agli infedeli...

E’ curioso. Quasi un anno fa, Bush aveva trionfalmente vinto le elezioni. O meglio: le aveva vinte d’un soffio, nella più risicata delle maggioranze conquistate, da che esiste l’America, da un presidente rieletto. Ma c’erano, in quella striminzita vittoria, tutti i numeri necessari per sostenere, di fronte ad un Congresso sempre più a maggioranza repubblicana, un progetto di svolta conservatrice. Dick Cheney, il poderoso vice-presidente (o il vero-presidente, come molti lo chiamano) lo aveva chiamato "mandato". George Bush lo aveva definito un «capitale politico» da spendere per lasciare un indelebile traccia nella Storia. E per la destra cristiana, indiscutibile "zoccolo duro" di quel successo al foto-finish, queste parole significavano, in realtà, una cosa sola: la possibilità di ribaltare la maggioranza della Corte Suprema. Ovvero: la certezza di cancellare quella celeberrima sentenza, la Roe vs. Wade, che, nel nome della difesa del diritto costituzionale alla privacy, da oltre trent’anni garantisce a tutte le donne americane il diritto di scelta in materia di aborto. Ancor meglio: rappresentava la certezza d’una restituzione ai singoli Stati del pieno di diritto di legiferare "in difesa della libertà di culto". Vale a dire: di trasformare se stessi, ovunque possibile, in repubbliche di Cristo, nelle cui Corti di giustizia s’esibiscono le tavole dei comandamenti, nelle cui cliniche si proibisce ogni forma d’interruzione della gravidanza e nelle cui scuole s’insegnano il creazionismo e l’astinenza sessuale....

Era pressoché certo che, assai presto, alcune delle poltrone della Corte si sarebbero, per così dire, "liberate". E Bush lo aveva promesso: i nuovi giudici supremi sarebbero stati "in the mold of Scalia and Thomas", fatti della stessa pasta d’Antonino Scalia e Clarence Thomas, i due più conservatori, meglio, i due più entusiasticamente reazionari tra i nove guardiani della costituzionalità delle leggi. E lungo era l’elenco dei nominabili di sicura fede, pronti a coprire ogni vuoto ed a trasfigurare la Corte. Dio ha ovviamente fatto la sua parte, prima ispirando le dimissioni di Sandra O’Connor - proprio lei, che era da tutti considerata l’ago della bilancia nella battaglia per la difesa della Roe vs. Wade - e poi esaudendo l’accorata invocazione con cui Pat Robertson (tele-evangelista storico, lo stesso che ha di recente reclamato l’omicidio di Hugo Chávez) aveva chiesto in diretta televisiva una seconda "vacancy" (il chief justice William Rehnquist è deceduto poche ore dopo). Ma all’atto pratico, Bush ha - per usare le parole d’un commento pubblicato ieri dal New York Times - scelto di «evitare ogni diretto confronto ideologico». O meglio: ha finito per nominare, in rapida successione, due personaggi la cui principale caratteristica è, per l’appunto, quella d’una indefinibile valenza ideologica. Non due arcangeli della rivincita cristiana, insomma, ma due anguille capaci di sgusciare attraverso le maglie - in verità piuttosto ampie - delle udienze di conferma al Senato. Non due avvocati di Dio, ma due avvocati, punto e basta. Roberts - già confermato e subentrato a Rehnquist alla testa della Corte - ha nelle scorse settimane offerto uno spettacolo a suo modo straordinario, riuscendo, nel rispondere alle domande dei senatori, a parlare per ore, a braccio e con grande eloquenza, senza dire nulla. Più in concreto: senza rivelare nulla delle sue posizioni in merito alla sua filosofia giuridica (anzi, di fatto negando di possederne una). Ed altrettanto farà, presumibilmente, anche Harriet Miers, il cui profilo professionale, decisamente meno brillante di quello di Roberts, è così riassumibile: non ha mai lavorato come giudice (caratteristica, questa, che divide, in oltre due secoli di storia, con appena altri sei membri dell’alta corte), ha sempre lavorato lontano dai riflettori ed ha sempre lavorato - con provata fedeltà - per George W. Bush. Dai tempi in cui dirigeva le Lotterie di Stato in Texas, fino ad oggi, reclutata come consigliere legale della Casa Bianca. Dettaglio significativo: Harriet Miers fu, nel 1998, durante la seconda campagna per la poltrona di governatore del Texas, specificamente incaricata di difendere Bush dalla più che verosimile accusa d’avere usato, ai tempi del Vietnam, l’influenza paterna per entrare nella Guardia Nazionale, in questo modo evitando ogni diretta partecipazione ad una guerra che entusiasticamente appoggiava. E proprio questo è sempre stato il suo vero mestiere: difendere il presidente, difenderlo in ogni circostanza, difenderlo in tutto.

Perché questa ritirata? Gli analisti politici spiegano le piuttosto grigie scelte di Bush con le sempre più ovvie e pesanti difficoltà di questo suo secondo mandato: una guerra (quella in Iraq) sempre più impopolare ed irrisolvibile; il fallimento del suo attacco al sistema pensionistico (presentato come una "svolta storica" ed ingloriosamente finito nel nulla); la catastrofica prova d’incompetenza offerta dalla sua amministrazione a New Orleans e dintorni. Il tutto accompagnato da indici di gradimento ormai pericolosamente prossimi al 40 per cento. In sostanza: il "capitale politico" che Bush aveva guadagnato lo scorso novembre, s’è - in pochi mesi - troppo assottigliato per sostenere l’aperta "guerra di religione" reclamata dai più fervidi dei suoi sostenitori. Meglio dunque rifugiarsi in quella che - ben al di là delle conclamate passioni ideologiche - resta la più superficiale e, insieme, la più autentica caratteristica del "bushismo": lo spirito di clan, la realtà d’un "cronysm" (clientelismo) che, in ogni circostanza, privilegia la lealtà (o la complicità) personale a discapito, non solo dell’ideologia (quella religiosa inclusa), ma anche della competenza.

Semplice, lineare, persino ovvio. Ma tremendamente difficile da spiegare alle truppe evangeliche che proprio in vista di questo momento s’erano mobilitate. Ed è un fatto che, in queste ore, il rumore del mugugno "da destra" va coprendo quello, del tutto prevedibile e logico, delle proteste "liberal". Bill Kristol, direttore di Weekly Standard e riconosciuta guida dei "neocons" s’è apertamente definito «deluso, depresso e demoralizzato» per la scelta di Harriet Miers. E Dick Cheney, intervistato da Rush Limbaugh - idolo radiofonico della destra americana - ha dovuto difendersi ieri da un autentico fuoco di sbarramento, invitando l’intervistatore e gli inferociti ascoltatori a guardare in prospettiva la politica presidenziale. «Sono certo - ha detto - che tra dieci anni sarà possibile cogliere quanto positiva sia stata, per l’America, la nomina di Harriet...».

Cheney ha probabilmente ragione. Con Roberts e con Miers (se sarà confermata) l’asse politico della Corte si sposta comunque leggermente a destra. Non tanto da garantire a Scalia e Thomas una permanente maggioranza (come speravano i fondamentalisti cristiani), ma forse abbastanza per "svuotare" - in un processo presumibilmente non breve e con l’aiuto d’almeno una nuova nomina conservatrice - la Roe vs. Wade, vera pietra dello scandalo. Questo si vedrà. Quel che si vede adesso, tuttavia, è soprattutto la realtà d’una presidenza che sembra andare letteralmente in pezzi. Ieri alla conferenza stampa Bush è apparso più che mai stanco e confuso. Anzi: che sembra perdere per strada anche i suoi pezzi più solidi e pregiati. È presto per dirlo. Ma quello che George W. Bush ha davvero vinto lo scorso novembre è, probabilmente, proprio questo: il diritto di vivere, da presidente, il fallimento della sua politica.perdere il senso del ridicolo nelle innumerevoli discussioni, assemblee, proclami e intimi "scazzi", come dicevamo allora. Ma quanto erano dense, quelle nottate e giornate di dubbi contrapposti alle certezze, se confrontate con quello che è venuto dopo...

http://www.liberazione.it/giornale/051005/LB12D6E4.asp