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Contributo di Punto Rosso al processo costitutivo della Sinistra Europea - Sezione italiana

Publie le giovedì 29 dicembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Movimenti Democrazia Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi

per l’Associazione Alternative Europa

1. La necessità di una critica ampia della politica e di una nuova posizione in fatto di esercizio della politica da parte di “Sinistra Europea”

La pratica in rapporto al potere da parte della sinistra politica di alternativa consiste, storicamente, nell’obiettivo di strapparlo all’avversario di classe e poi di usarlo per la trasformazione della società. Benché l’intenzione sia stata anche quella dell’accorciamento della distanza tra governanti e governati e, addirittura, dell’estinzione dello stato, l’esperienza pratica ha visto il mantenimento e spesso, anzi, l’allungamento della distanza tra governanti e governati. Tra le ragioni di ciò ce n’è una che va qui sottolineata: l’idea di due tempi dell’esercizio del potere, al secondo solo dei quali sono affidati accorciamento ed estinzione, mentre al primo è affidata una forte pressione sulla società, appunto per trasformarla.

Occorre dunque affermare come compito della sinistra politica di alternativa debba essere sempre e in ogni circostanza, all’opposizione, in governi di coalizione con altre forze, in governi orientati alla trasformazione della società, l’accorciamento della distanza, quindi la promozione la più estesa possibile di forme di partecipazione diretta, di autogoverno sociale, di interlocuzione e di concertazione diretta degli obiettivi e della partecipazione da parte degli attori sociali organizzati, quindi operanti in forma collettiva. In altre parole, come compito della sinistra politica di alternativa debba essere sempre e in ogni circostanza la promozione della democrazia partecipativa e la consegna immediata massima possibile dell’esercizio del governo agli attori sociali e a quel popolo che gli attori sociali compongono.

Questo non deve significare, giova sottolineare, che la democrazia partecipativa sia il semplice rinvio alla democrazia diretta. Bisogna tener conto del fatto che il tentativo da parte comunista di democrazia diretta come sola forma del potere fungibile alla trasformazione della società si è rapidamente ribaltato nel Novecento in una forma di dominio politico autoritario. Vediamo come. Questo tentativo presupponeva l’illusione di una semplicità fondamentale del tessuto sociale e delle politiche di trasformazione, quindi di una semplicità fondamentale dell’esercizio del potere, quindi, ancora, dell’immediata capacità di quest’esercizio da parte delle classi subalterne. E’ per questo che il tentativo non poteva che sfociare in un fallimento. Alla crisi sociale alimentata da questo fallimento, inoltre, la risposta da parte comunista è stata, ribaltando l’idea dell’immediata capacità dell’esercizio del potere da parte delle classi subalterne, che ad esse andasse sostituito il partito. Il partito poi sarà sostituito dal suo comitato centrale, e questo comitato centrale da un autocrate. Al contrario, allora, occorre che alla democrazia diretta si combinino processi di apprendimento della politica e dell’amministrazione da parte delle classi subalterne: quindi si combini la democrazia rappresentativa.

Quest’ultima, infatti, è quella forma dello stato che, assieme alla separazione dei poteri e ai diritti civili e di libertà, ha dimostrato storicamente di rappresentare la migliore scuola, assieme alle lotte di massa, di politica per le classi subalterne, nonché il miglior deterrente rispetto alle spinte autoritarie e alla separazione tra governanti e governati scaturenti anche solo dal fatto dell’inesperienza di queste classi.

L’esperienza recente delle primarie in Puglia e quella delle primarie nella scelta della candidatura dell’Unione alla guida del governo, se essa vincerà le prossime elezioni, hanno visto una grande partecipazione di popolo. La vittoria di Nichi Vendola è stata il primo risultato di questa partecipazione. Si è trattato, perciò, di prime esperienze importanti di sperimentazione in Italia su vasta scala della democrazia partecipativa. Ora è aperta la questione della selezione del programma dell’Unione: se questa selezione adotterà la democrazia partecipativa, essa esprimerà orientamenti nel complesso soddisfacenti.

Democrazia diretta e democrazia rappresentativa, in breve, rappresentano, unite nella democrazia partecipativa, la coppia dinamica suscettibile della realizzazione di un’alternativa di civiltà, attraverso la restituzione di protagonismo e potere agli attori sociali e, al tempo stesso, la libera discussione sociale dei passaggi di questa realizzazione, il libero controllo dei risultati, la libera discussione delle possibile rettifiche.

Tutto questo inoltre presuppone il riconoscimento da parte della sinistra politica di alternativa della politicità delle esperienze di movimento, delle loro rappresentanze dirette, degli organicismi partecipi dei movimenti, e della società civile: quindi il riconoscimento della necessità di una dialettica paritaria.

La cooperazione tra la democrazia diretta e la democrazia rappresentativa in una prospettiva di trasformazione della società comporta, dunque, la cooperazione paritaria tra le varie forme, di tipo politico, di movimento, associative, della sinistra di alternativa.

Tutto questo presuppone anche la rinuncia da parte della sinistra politica di alternativa di quella facilità del ricorso alla violenza che le condizioni nelle quali essa sorse, tra le quali la ferocia dell’avversario di classe, le imposero, e che però essa introiettò, facendone così parte organica della propria cultura politica, e di cui abusò ampiamente, addirittura, spesso, contro le stesse classi subalterne. Il violentismo è stato storicamente la cancellazione di qualsiasi possibilità di larga durevole partecipazione di popolo alle scelte politiche e all’esercizio del potere; ha portato immediatamente alla consegna dell’esercizio della politica a ridotte minoranze; è stato, perciò, nei tentativi di trasformazione della società un’anticamera culturale e pratica dell’allungamento della distanza tra governanti e governati e dell’autoritarismo, quindi del fallimento di questi tentativi.

La cultura e le pratiche della nonviolenza hanno inoltre un secondo buon ordine di ragioni per essere adottate dalla sinistra politica di alternativa. La tecnica applicata alla produzione ha raggiunto nel corso del Novecento, una tappa dopo l’altra, un’immensa capacità di distruzione di esseri umani, condizioni ambientali, risorse limitate, basi stesse della vita. Si tratta quindi di una cultura e di pratiche che, prima ancora che necessarie ad un nuovo, più civile, esercizio della politica, sono necessarie alla sopravvivenza dell’umanità e alla conservazione di un pianeta bello e vivibile.

Si è prima accennato alla necessità di un nuovo paradigma delle sinistre di alternativa: quindi anche di nuove premesse metapolitiche a orientare il loro esercizio della politica. Questa della nonviolenza è dunque la prima di queste premesse.

Tutto questo infine presuppone un cambiamento nella definizione delle soggettività preposte alla trasformazione.

Nella tradizione della sinistra politica di alternativa c’è l’idea di un’unica soggettività sociale della trasformazione, il proletariato industriale. Successivamente si sono aggiunti o si sono sostituiti al proletariato industriale i contadini poveri o i popoli oppressi delle colonie: senza però una revisione sostanziale degli altri elementi del paradigma. Quest’idea di una soggettività sociale fondamentalmente unica ha la sua base nell’idea che il processo storico sia il mero riflesso del processo economico e dei suoi rapporti interni e che ogni altro luogo della vita sociale, i processi e i rapporti quindi della vita politica, quelli di natura culturale, e così via siano la derivazione lineare dei processi e dei rapporti economici. Ciò ha portato a lungo la sinistra politica a ignorare i contadini, i popoli delle colonie, e ancor più a lungo le donne.

Insomma ciò che da parte della sinistra politica di alternativa va acquisito è che molte sono le soggettività necessarie della trasformazione, per due semplici ragioni: la complessità dell’organismo sociale, il ruolo che nella definizione dei rapporti di sfruttamento e di oppressione in termini assai spesso autonomi hanno, accanto alle condizioni dell’economia, quelle della politica, quella delle tradizioni culturali, e così via. Inoltre che le soggettività della trasformazione possono anche avere una base di motivazioni immediate che non è nella lotta contro rapporti di oppressione o di sfruttamento. Basti pensare, a questo riguardo, all’ambientalismo.

Il riconoscimento della necessaria pluralità del soggetto della trasformazione, quindi della conformazione plurale, sotto il profilo sociale così come sotto quello culturale, delle sinistre di alternativa, e con questo riconoscimento quello della necessaria interlocuzione discorsiva e paritaria tra le varie componenti del soggetto si pongono essi pure, quindi, tra le premesse metapolitiche a orientare l’esercizio della politica da parte della sinistra politica di alternativa.

In ultimo va corretto il fatto che nella sinistra politica di alternativa la partecipazione degli aderenti è solo di tipo individuale: ciò che vi ha semplicemente facilitato l’emergenza e l’affermazione durevole di ceti dirigenti e di apparati separati dalla base, composta soprattutto di appartenenti alle formazioni subalterne della società. In sostanza, attraverso questa forma della partecipazione, assolutamente simile alla forma della partecipazione posta dalla forma limitata di democrazia rappresentativa adottata dai paesi capitalistici più sviluppati, all’interno del movimento operaio si è prodotta la medesima distanza tra governanti e governati propria di questa forma della democrazia.

Quindi ciò che da parte della sinistra politica di alternativa va acquisito è anche la necessità al suo stesso interno della democrazia partecipativa, quindi di soggetti collettivi, e in primo luogo di quelli composti dagli appartenenti alle formazioni sociali subalterne.

2. La proiezione della democrazia sulla totalità dell’esistente sociale come fulcro di una nuova strategia della trasformazione della società

La democrazia partecipativa e in essa la democrazia diretta non hanno alcun senso, o addirittura corrono il rischio di divenire l’ennesima copertura della separazione tra governanti e governati, se non sono pensate e praticate rispetto all’insieme agli ambiti di vita dell’organismo sociale, e in primo luogo rispetto all’economia, al lavoro, quindi alla quotidianità dell’esistenza umana, individuale e collettiva.

Nelle condizioni contemporanee del capitalismo, nelle condizioni, cioè, delle sue forme limitate di democrazia, peraltro ormai ovunque sistematicamente sotto attacco o sottoposte a svuotamento, la democrazia partecipativa costituisce, dunque, sia una forma della lotta organizzata, collettiva, per i propri obiettivi immediati da parte delle formazioni oppresse della società, che il momento iniziale di possibili processi di trasformazione, che uno dei modi della preparazione di lavoratori, donne, contadini, comunità oppresse al governo di sé e della società.

Nelle condizioni contemporanee del capitalismo, nelle condizioni, cioè, del tentativo di un nuovo lungo ciclo di accumulazione attraverso, come d’altronde nei lunghi cicli precedenti, un nuovo assalto predatorio ai beni comuni, stavolta all’acqua, alla totalità del territorio, alle base genetiche della vita, ai servizi resi dallo “stato sociale”, all’informazione, e nelle condizioni, inoltre, di un tentativo di centralizzazione capitalistica estrema, in grandi imprese multinazionali da un lato e negli Stati Uniti dall’altro, di risorse crescentemente scarse, tra le quali in primo luogo l’energia, hanno importanza primaria, sia nella difesa delle condizioni di vita delle popolazioni che nella costruzione di un’alternativa di civiltà, le lotte per la difesa dei beni comuni dall’esproprio e dal saccheggio che le lotte perché i beni comuni rimangano tali, a partire dall’acqua, lo “stato sociale” rimanga tale, l’ambito inoltre dei beni comuni si allarghi, recuperando a sé ambiente, territorio, basi della vita, energia, informazione, l’ambito inoltre stesso dello “stato sociale” si allarghi, recuperando a sé la totalità dei servizi collettivi necessari a elevate condizioni di esistenza delle popolazioni.

La democrazia partecipativa, le lotte sociali e le mobilitazioni di movimento richiedono quindi uno sforzo assiduo, sistematico, di orientamento prospettico dei loro contenuti anche nel senso della costruzione di elementi di “modello” alternativo dello sviluppo, sia sul versante dell’industria, che deve tendere ad abbattere i consumi energetici, dovuti soprattutto alla vorticosa movimentazione planetaria dei processi produttivi, alla ricerca delle meno costose condizioni di salario e ambientali, ad abbattere le produzioni pericolose e antisociali, a partire da quelle degli strumenti di guerra, ad orientarsi alla soddisfazione dei bisogni fondamentali del complesso delle popolazioni, ad essere regolata da cogenti norme ambientali, che sul versante dell’agricoltura, che deve tendere a dar da mangiare cibo sano ed abbondante alle proprie popolazioni e a fondersi alle attività di tutela ambientale e del territorio.

La sinistra politica di alternativa, in ultimo, ha nella sua tradizione l’idea che la riappropriazione sociale dei mezzi di produzione, intesi nel senso più ampio, debba necessariamente avvenire attraverso la riappropriazione della totalità di questi mezzi da parte della totalità della popolazione. Tra quanto ha retto quest’idea vi è, ancora, l’illusione della semplicità dell’organismo sociale, dell’economia, quindi dell’esercizio del potere. E’ quest’illusione, dunque, che ha fatto sì che i sistemi economici totalmente statalizzati abbiano documentato ad abundantiam lungo tutto il Novecento la loro inefficienza, la loro irrazionalità e i loro sprechi. Inoltre se quest’idea, all’inizio, era stata pensata in unità dapprima a quella della democrazia diretta e poi a quella dell’estinzione di ogni potere statale, successivamente, a seguito del fallimento della democrazia diretta come unica forma del potere nella trasformazione, si è ribaltata nell’idea e nella pratica della centralizzazione assoluta dei mezzi di produzione, e poi di tutta la società, nello stato. In questa statalizzazione assoluta c’è, allora, un’altra anticamera culturale e pratica, assieme al violentismo, dell’allungamento della distanza tra governanti e governati e dell’autoritarismo in quelle formazioni sociali del Novecento che hanno tentato processi di trasformazione.

Occorre, quindi, che da parte della sinistra di alternativa all’idea di questa statalizzazione assoluta venga sostituita l’idea di un “modello” duttile della società in trasformazione, e in essa dell’economia. E’ il solo modo praticabile, infatti, di politiche di trasformazione consapevoli dell’estrema complessità dell’organismo sociale, e della stessa economia. Esemplificando, questo significa che alla proprietà statale di grandi unità produttive o di settori di portata strategica andrebbero combinate altre forme di riappropriazione sociale, decentrate, cooperative, anche su base familiare, ecc.; che alla gestione di tali unità e settori dovrebbero essere associati i lavoratori, le popolazioni dei territori di insediamento, i consumatori, insomma, a seconda delle caratteristiche della produzione, tutte le parti sociali interessate; e che alla rigida determinazione dall’alto dei prezzi siano semplicemente sostituiti alcuni prezzi “politici”, cioè più alti o più bassi di ciò che definirebbe il mercato, in rispondenza a priorità democraticamente definite di trasformazione del consumo e di ridistribuzione del reddito.

Il pregio di un tale “modello” sarebbe, oltre che quello del suo carattere democratico-partecipato e quello della sua superiore efficacia economica, anche quello di poter intervenire rapidamente ed efficacemente da parte della società su quei suoi punti della trasformazione che si manifestassero fragili, inefficaci, o che dessero risultati capovolti rispetto alle aspettative.

L’America latina chiama questo “modello” e la democrazia partecipativa che gli si combina “socialismo del XXI secolo”. La gloriosa parola “socialismo” si avvia così a uscire dalla melma e dal discredito nella quale le capitolazioni socialdemocratiche e l’autoritarismo comunista l’hanno gettata. Ci serve, per lo sviluppo dell’attuale ciclo epocale di lotte per la trasformazione, il più ampio cambiamento concettuale, quindi anche lessicale. Forse però la parola “socialismo” può essere salvata.