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Il petrolio è l’arma segreta dell’Iran?

Publie le lunedì 30 gennaio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Guerre-Conflitti USA medio-oriente

di Sabina Morandi

L’annunciata intenzione di Teheran di aprire una borsa per le transazioni petrolifere in euro converrebbe a Ue, Cina, Giappone e Russia. Sarebbe una catastrofe invece per Usa e Uk

Non sarebbe la paura del nucleare ad accelerare la crisi fra Washington e Teheran ma l’annunciata intenzione di aprire una borsa per le transazioni petrolifere in euro. E’ questa la teoria abbracciata da alcun analisti - William Clark e Kassimir Petrov, per citarne solo un paio - e che sta scatenando un dibattito fra gli esperti di geopolitica e di politica energetica di tutto il mondo.

Com’è noto l’attuale crisi è stata innescata dalla decisione unilaterale di Teheran di riaprire gli impianti di Natanz, dove gli ingegneri nucleari svolgono le loro ricerche.

Un’iniziativa totalmente lecita - il Trattato di non proliferazione nucleare consente all’Iran di lavorare al nucleare civile con la supervisione degli ispettori dell’Agenzia sull’energia atomica - ma che ha suscitato le reazioni isteriche della Casa Bianca, anche perché accompagnata dagli isterici proclami del neo presidente iraniano contro Israele e i vari "Satana" dell’Occidente. Bisogna ringraziare Russia e Cina se l’escalation fra due governi iper-conservatori in drammatica crisi di consenso - quello di Bush e quello di Ahmadinejad - registra qualche battuta d’arresto. L’offerta di Mosca di arricchire l’uranio al di fuori del territorio iraniano, anche se per ora non è stata accolta, dà un preciso segnale a Washington, così come l’annunciato veto di Pechino su qualsiasi iniziativa del Consiglio di sicurezza contro Teheran. Come dire: non ce ne staremo con le mani in mano davanti a un’escalation come quella del 2003.

Ma perché gli americani dovrebbero scatenare un attacco contro uno Stato ben più solido e difeso dell’Iraq, dove la guerra è tutt’altro che conclusa? Secondo Krassimir Petrov, professore di macro-economia alla Ohio State University, dietro alla crisi ci sarebbe addirittura la fine dell’Impero americano fondato, più che sulla potenza economica, sulla capacità di imporre una sorta di tassazione indiretta, grazie al predominio della propria moneta. "Per la prima volta nella storia" scrive Petrov "l’America è in grado di tassare il mondo indirettamente, attraverso l’inflazione".

Il dollaro come moneta di riferimento internazionale uscito da Bretton Woods e ulteriormente rafforzato dallo sganciamento dall’oro nel 1971, non avrebbe fatto molta strada senza l’aggancio al petrolio, conseguito grazie al patto di ferro con i sauditi. E’ in petroldollari che gira il mondo e sono i dollari che le banche centrali mettono in cassaforte - talvolta in quantità mostruose, come nel caso dei cinesi - tenendo alto il valore di una moneta che non è più trascinata alle stelle dalla performance dell’economia nazionale. Secondo Petrov "se, per qualche ragione, il dollaro perdesse l’aggancio col petrolio, l’Impero americano cesserebbe di esistere", perché non riuscirebbe più a far pagare l’inflazione al resto del pianeta. Per questo ogni tentativo dei paesi produttori di farsi pagare in altre valute viene immediatamente bloccato, e per questo perfino Bush è stato costretto a rinunciare a notevoli profitti costringendo l’Iraq a tornare ai petrodollari già nel 2003. Dal 2000 Saddam lo vendeva in euro segnando così, secondo alcuni, il proprio destino.

La vera arma di distruzione di massa dell’Iran non è quella nucleare, molto di là da venire, ma quella finanziaria che consiste nell’annunciata intenzione di Teheran di aprire la prima borsa petrolifera integralmente in euro nel marzo di quest’anno. Un’iniziativa economicamente irreprensibile visto che i principali acquirenti dei prodotti petroliferi iraniani sono gli europei, che non sarebbero più costretti a comprare dollari per acquistare petrolio, e accolta con favore da Cina e Giappone, che potrebbero finalmente ridurre le loro enormi riserve in dollari e diversificarle. Ci guadagnerebbero anche i russi, grandi partner commerciali dell’Unione, e tutti i paesi produttori - arabi e non solo - che non sarebbero più costretti a cedere la loro preziosa risorsa in cambio di una moneta in declino. Ci perderebbero solo i britannici, costretti da Washington a restare fuori dall’euro, che sarebbero certamente penalizzati dalla nascita di una borsa energetica alternativa a quella londinese, la storica London’s International Petroleum Exchange.

Per gli Usa però sarebbe una vera catastrofe. Come scriveva William Clark già nell’agosto scorso, "la proposta borsa iraniana significa che, senza qualche intervento statunitense, l’euro può stabilire una forte presa nel mercato petrolifero internazionale. La qual cosa, dato il livello del debito statunitense e considerati i progetti di dominio dei neoconservatori, costituisce un’ovvia minaccia per la supremazia del dollaro nel decisivo settore del mercato energetico". Ma cosa può fare Washington per impedirlo? Il fatto che i petroeuro convengano a così tanti attori complica la situazione e rischia di assottigliare ancora di più una possibile coalizione dei "volenterosi" da scatenare contro il nuovo nemico. Se poi Pechino cominciasse quietamente a dar via parte dei dollari della sua impressionate riserva monetaria, l’apparato militare statunitense potrebbe avere non pochi problemi a trovare di che finanziare l’ennesima avventura.

Che l’escalation contro l’Iran sia stata decisa ben prima dei proclami nazionalisti di Ahmadinejad e dalla decisione di riprendere la ricerca sul nucleare, lo dimostra l’intensa attività degli strateghi americani riportata dai giornali nell’ultimo anno e mezzo. Nel settembre 2004 Newsweek segnalava che "ammiragli e generali sono stati chiamati al Pentagono per aggiornare i piani d’attacco contro Siria e Iran" mentre, nel dicembre dello stesso anno, l’Atlantic Monthly scriveva delle frenetiche sessioni dedicate agli attacchi simulati all’Iran che si svolgono alla presenza dei più alti gradi.

All’inizio del 2005 era il New Yorker a denunciare simili iniziative basandosi su fonti interne ai servizi segreti ma, per spaventarsi davvero, bisogna aspettare l’ancor più recente pubblicazione dell’American Conservative che ha affidato al suo esperto di intelligence, Philp Giraldi, un articolo intitolato: "In caso d’emergenza, nuclearizziamo l’Iran". Secondo Giraldi "Il Pentagono, su mandato del vicepresidente Dick Cheney, avrebbe incaricato lo Stratcom (il Comando strategico statunitense ndr) di allestire un piano di risposta rapida da usare nel caso di un altro attacco stile 11 settembre. Il piano include un massiccio attacco aereo contro l’Iran che impieghi sia armi convenzionali che nucleari" aggiungendo che "una simile risposta non è condizionata al reale coinvolgimento di Teheran negli atti di terrorismo".

E’ forse per questo che il buon vecchio Osama ha ricominciato farsi sentire?

http://www.liberazione.it/giornale/060128/archdef.asp