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Beirut; il fallimento storico di George Bush

Publie le venerdì 21 luglio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Guerre-Conflitti medio-oriente Gennaro Carotenuto

di Gennaro Carotenuto

Dopo l’11 settembre 2001, il presidente George W. Bush promise di instaurare nel Medio Oriente un’era di pace, democrazia e, ovviamente, libero commercio, che battezzò "Gran Medio Oriente".

Raccontò ad amici e simpatizzanti che era possibile creare un’estesa zona di influenza statunitense che unisse il Mediterraneo israelopalestinese, il Golfo Persico e arrivasse fino all’Afghanistan, in Asia centrale, alle porte dei due giganti cinese e indiano.

Per riuscire a realizzare il paradiso terrestre nelle regioni bibliche, bisognava solo estirpare la malerba del terrorismo e, magicamente avrebbero prosperato democrazia e progresso. Era la versione "american dream" della "giustizia infinita".

I critici che osavano considerare irrealizzabile il piano erano accusati di essere amici di terroristi e dittatori e così si chiudeva il discorso.

Dagli anni ’50, in chiave antisovietica, gli Stati Uniti hanno sostenuto governi fantoccio, combattuto i nazionalismi e tutto quello che avesse una pallida tinta progressista, come nel caso di Muammadh Mossadeq in Iran o Gamal Abdel Nasser in Egitto. Ciò ha impedito agli Stati Uniti di comprendere la nascita e l’estensione dell’islamismo con il quale hanno continuato a flirtare, dall’Afghanistan e la guerra civile algerina, fino alla strategica relazione con la monarchia wahabita dell’Arabia Saudita. La stella polare della politica mediorientale statunitense è stata sempre il controllo delle risorse energetiche e l’appoggio incondizionato all’alleato israeliano.

I bombardamenti del Libano -da Tiro nel sud fino a Tripoli, vicino alla frontiera turca nel nord- da parte dell’esercito israeliano, testimoniano definitivamente come la politica lanciata dopo l’11 settembre si è risolta in un fallimento storico per gli Stati Uniti. Appena un anno fa, dopo l’omicidio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri, probabilmente da parte dei servizi siriani, la rivoluzione libanese veniva venduta come il consolidamento di una seconda democrazia rappresentativa nella regione insieme ad Israele. Adesso, appena un anno dopo, sulle teste di quello stesso milione di libanesi che chiedevano democrazia un anno fa, piovono le bombe dell’unica democrazia della regione.

La stampa e i governi occidentali mentirono. Non c’era democrazia in Libano se lo Stato non aveva la forza per disarmare le milizie di Hezbollah. Non c’era democrazia se si rifiutava di negoziare con più di un milione di sciiti rappresentati -piaccia o no- dallo sceicco Nasrallah. In Somalia, al margine e allo stesso tempo dentro quest’area, le corti islamiche hanno rimpiazzato il caos dei signori della guerra appoggiati dagli Stati Uniti fin dall’epoca di Clinton. Anche se non volessimo il fondamentalismo -dicono da Mogadiscio- la guerra civile permanente, che abbiamo ereditato dall’intervento statunitense, era peggiore. In Palestina, la scellerata politica di delegittimazione di Fatah, ha prodotto non solo la morte sospetta di Yasser Arafat, ma ha obiettivamente spinto il popolo palestinese nelle braccia di Hamas. Si voleva una democrazia, ma a israeliani e statunitensi non sono piaciuti i risultati delle elezioni. Demolendo Fatah -a meno che non vogliano cancellare del tutto dalle mappe i palestinesi- e poi non riconoscendo l’alternativa di questa, Hamas, hanno commesso un errore più grave di quello che commise la Francia in Algeria appoggiando il colpo di stato militare contro gli islamici moderati del FIS che erano arrivati al potere democraticamente.

Le due guerre, quella dell’Afghanistan e quella dell’Iraq, hanno partorito due mostri. Da una parte c’è un narcostato fantasma, con un primo ministro, Hamid Karzai, che non è altro che il sindaco di Kabul. In Iraq si sono sviluppate enormi basi terroriste -adesso sì- e una guerra civile endemica tra le comunità sciita e sunnita. L’Iraq è la sintesi di tutti gli errori statunitensi. Fu creato dalla Gran Bretagna per controbilanciare il peso specifico dell’Iran nella regione. Per Bush padre era chiarissimo. Ma Bush figlio non considerò l’esperienza paterna. Consegnarlo alla maggioranza sciita -senza rappresentare una democratizzazione del paese- ha significato la consegna geopolitica dell’Iraq all’Iran.

Così si è potuta sviluppare una catena di comando che offre a Teheran molto di più del ruolo di potenza regionale. Dal suo punto di vista è naturale che Teheran, divenuta una grande potenza, aspiri all’arma nucleare. Lo stesso Ahmadinejad, il presidente estremista che lavora attivamente alla distruzione di Israele, è un prodotto di quell’errore criminale statunitense. L’Iran degli ayatollah, anche nelle sue epoche più dialoganti, non ha mai meritato aperture di credito da parte del "grande satana". Oggi però Teheran, che gli Stati Uniti pretendevano schiacciare tra Iraq e Afghanistan amici, muove i fili: dà sostegno al baathismo prudente del giovane Bashar a Damasco così come all’avventuriero Nasrallah con i suoi Hezbollah nel sud del Libano. Il governo di Hamas, a Ramallah, è un prodotto dell’estremismo congiunto di Ariel Sharon e George Bush. Il risultato di così tanti errori è che adesso, nella regione, ci sono due soggetti che possono ridicolizzare le risoluzioni delle Nazioni Unite. Il primo è quello di sempre: Israele. Il secondo è questo contesto radicale islamico fuori controllo. E così, per evitare che i Katyusha martirizzino Haifa, Israele, che si è sempre burlata delle risoluzioni che le chiedevano di non martirizzare la Cisgiordania e trovare una forma di convivenza con i suoi non sempre gradevoli vicini, può solo ricorrere ad un uso smisurato della forza. Oggi non c’è altra possibilità per Israele perché ha fatto propria l’ideologia unilaterale e l’antiterrorismo terrorista importato dagli Stati Uniti, una prassi politica che paradossalmente impedisce scelte politiche.

Così il Grande Medio Oriente sognato da George Bush è risultato pessimo strategicamente per gli Stati Uniti e catastrofico per Israele. Questi dieci giorni di guerra hanno dimostrato come, pur possedendo la bomba atomica, Israele non ha mai avuto una così bassa capacità di dissuasione, se è obbligato a fare a pezzi un paese vicino per riscattare dalla cattura due soldati. L’appoggio a Olmert da parte della società israeliana non è un segnale di estremismo ma di disperata impotenza nella quale si è andata ad infilare questa democrazia per avere voluto perseguire progetti e miraggi imperialisti propri ed altrui.

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