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Fischi, applausi e critiche: il Prc processa se stesso

Publie le domenica 27 luglio 2008 par Open-Publishing

Rifondazione: VII congresso

Fischi, applausi e critiche: il Prc processa se stesso

di Romina Velchi

Sarà che nelle "segrete stanze" si lavora a trovare una sintesi, una «ricomposizione unitaria» come si dice in questi giorni qui a Chianciano. Ma intanto, sotto il tendone del Palamontepaschi, si susseguono interventi senza esclusione di colpi. Si parla schietto; si fischia; si applaude (metà sala di qua, metà di là); non si risparmiano critiche anche aspre. Come se, lo dice Alberto Burgio ad una platea silenziosa e attenta, stessero uscendo fuori malesseri a lungo tenuti sopiti: «E’ vero, ci siamo fatti molto male - scandisce - Ma non solo in questo congresso.

E’ molto tempo che ci facciamo male». E’, quasi, la storia di Rifondazione sembra dire l’ex senatore (area Grassi) con una esplicita critica al gruppo dirigente del partito: «Il Prc è un microcosmo di culture politiche diverse, ma noi abbiamo sempre rispettato questa molteplicità? No, anzi abbiamo fatto il contrario. Abbiamo semplificato, cioè escluso; una parte contrapposta alle altre in nome di una presunta chiarezza di linea politica». Ecco perché questo congresso è così difficile, ragiona Burgio.

Ecco perché, secondo lui, la strada obbligata, la sola che «può salvarci» è ritrovare una gestione unitaria del partito, «come noi abbiamo proposto e scritto già prima del congresso».

Ci pensa Alfonso Gianni, però, a rimettere il dibattito su altri binari: per risalire la china, dice l’ex sottosegretario, non possiamo «guardare solo dentro noi stessi». Per Gianni, la sconfitta è figlia di «un difetto di lettura della società», dove sono avvenuti cambiamenti enormi e che si dibatte in una crisi della globalizzazione tra le «maggiori del dopoguerra». E il fatto è che «la destra ha saputo rispondere meglio di noi» a questa crisi. E ora? «Per ora siamo perdenti, ma non definitivamente sconfitti».

Il nostro compito è quello del «massimo cambiamento», passare «dalla "rifondazione comunista" alla ricostruzione dell’intera sinistra». «Ci vuole coraggio», incalza Gianni, perché l’«identità non è fissa», va «messa in gioco e a frutto». Sulla stessa lunghezza d’onda Rina Gagliardi, secondo la quale «Rifondazione comunista non è mai stata il luogo della conservazione» e invece ha sempre avuto «una fortissima pratica di innovazione»; un «partito piccolo» dove «non è mai venuta meno l’ambizione di essere più grande per incidere nella realtà e trasformarla».

Si litiga, anche, in un dibattito durato un giorno intero e di cui è impossibile dare conto per intero. Si litiga, per esempio, sul dipietrismo. Graziella Mascia invita a «non sporcarsi le mani» con l’ex pm; Imma Barbarossa rivendica invece la presenza a piazza Navona, perché in ogni caso «le alleanze si giudicano sui fatti e non in maniera ideologica».
Si litiga sul partito sociale. Partendo dalla critica che il Prc ha «peccato di avventurismo», Giovanni Russo Spena scandisce che «il problema è rovesciare il rapporto tra politica e società», che non significa, dice, «fuga dalla politica».

Tantomeno Russo Spena chiede «massimalismi estremistici, ma una decisa svolta a sinistra». Per Fabio Amato, che respinge l’accusa di minoritarismo («Dopo il 3% siamo tutti minoritari; abbiamo confuso i desideri con la realtà»), partito sociale significa «fare ciò che si dice», mentre Imma Barbarossa spiega che se per politica si intende quella istituzionale, dei governi locali e nazionali, allora sì, «questa politica è da criticare». Ma per Franco Giordano non è che un «esodo salvifico»; con l’autonomia del sociale «non parliamo a nessuno».

Si litiga, ancor di più, sulle alleanze e i rapporti con il Pd. Graziella Mascia è netta: «Non possiamo costruire recinti a tavolino contro un’alleanza con il Pd». Di tutt’altro avviso Walter De Cesaris: «Non dobbiamo essere nostalgici del centrosinistra, luogo inadatto anche solo ad una politica moderata di cambiamento. E’ una stagione finita», quel che serve essendo «una nuova linea politica all’altezza della situazione».

E rivendicando la proposta «naif» di non eleggere alcun segretario (una «moratoria» se si vuole davvero una ricomposizione interna), De Cesaris rilancia le decisioni prese alla conferenza di organizzazione di Carrara: «Era il modo per uscire da sinistra dall’antipolitica; questo è un congresso, applichiamo le scelte fatte lì».

Si litiga persino sulla poesia. Leonardo Masella (terza mozione), cui tocca di parlare dopo il lungo applauso seguito all’intervento (in effetti evocativo e poetico) di Giordano, sbotta: «Siamo nella catastrofe e qui invece di parlare di politica si fa demagogia e poesia», per poi scagliarsi contro «le tessere finte alla democristiana per le quali siamo finiti su tutti i giornali» e invitare la mozione 1 a «osare» per «unire le forze comuniste e rilanciare i movimenti, quello operaio per primo» e non finire «complici della vittoria del capitale».

Gli risponde Giusto Catania: «Voglio un partito che non ha paura della poesia». E gli risponde Patrizia Sentinelli: non c’è nessuno che possa dare lezioni ad altri. E quanto alle tessere, l’ex viceministro (l’unica a nominare il «processo costituente») replica a brutto muso, raccogliendo fischi da metà platea e applausi dall’altra: «Tanti nuovi iscritti sono una ricchezza. Io sarei la signora delle tessere?».

Poi c’è chi, come Stefano Zuccherini, invita a ragionare «su come vivere senza correnti» e a «ripensare la democrazia a partire da noi». O chi, come Marilde Provera propone di raccogliere la scommessa di fare una «sintesi su tesi che appaiono inconciliabili, per non chiuderci in noi stessi». E se Roberto Musacchio non perde l’occasione per parlare della sua esperienza di deputato europeo, questa volta lo fa per replicare a quanti sostengono che la Sinistra europea, creatura bertinottiana, è stata lasciata languire: «Questa volta lo dico io: a Bruxelles si è lavorato in troppa solitudine».

E avverte: «Essere sconfitti anche in Europa sarebbe imperdonabile» perché «lì le nostre idee si trasformano in fatti».

Maurizio Zipponi sceglie tutt’altro terreno: «Non sono un intellettuale», premette, e dunque parla di ciò che conosce meglio, il movimento operaio. Non fa polemiche; avverte che la «sinistra ha perso perché il movimento operaio è uscito sconfitto dal confronto con il capitale» e che, in questo campo, «al peggio non c’è fine». Perciò a Vendola chiede «non un incontro tra 4 segretari di qualcosa, ma la ricomposizione della sinistra intorno al manifesto per i diritti del lavoro, da portare in ogni luogo, in ogni fabbrica, in ogni cantiere. Questo è ricomporre la sinistra».

Liberazione