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La lobby delle bionde non conosce crisi

par Massimo Lauria

Publie le giovedì 10 aprile 2014 par Massimo Lauria - Open-Publishing

Prezzi alti, tasse basse. Così le multinazionali del tabacco si garantiscono profitti enormi, a scapito della salute dei fumatori e delle casse dello Stato.

Non c’è crisi che tenga nel mercato delle sigarette e le multinazionali del tabacco lo sanno, riuscendo a garantirsi profitti enormi sulla pelle dei fumatori e alle spalle delle casse dello Stato. Con oltre trenta milioni di euro spesi ogni giorno (1.100 euro pro capite in media all’anno), per oltre otto milioni di pacchetti venduti, il nostro Paese ha il triste primato del consumo europeo di bionde. Mentre Big Tobacco rappresenta una lobby fortissima, che esercita pressioni sui governi, perché non aumentino le tasse sulle sigarette. E il nostro Paese non fa eccezione.

Il costante calo di fumatori negli ultimi anni - che comunque si attesta a livelli di poco inferiori a quelli degli anni Novanta - non ha quasi intaccato i giganteschi guadagni delle multinazionali, che per compensare hanno rivisto il prezzo delle bionde decine di volte negli ultimi quindici anni. Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss), «il consumo di tabacco ha raggiunto i livelli di un’epidemia globale. In tutto il mondo si fumano ogni giorno più di quindici miliardi di sigarette. Il consumo continua ad aumentare dall’inizio del Ventesimo secolo, tanto che si è passati da cinquanta miliardi di sigarette fumate a circa seimila miliardi».

Philip Morris (il cui marchio più famoso è la Marlboro), British American Tobaco (Bat, Pall Mall), Japan Tobaco International (Jti, Camel), Impirial Tobacco (Fortuna), Rj Reynolds (inventore della Camel), ognuna di loro controlla una grossa fetta del mercato mondiale e nazionale. E tutte insieme hanno in mano oltre il 98 per cento del mercato italiano. L’industria del tabacco - secondo alcuni osservatori del settore - si è di fatto costituita in un cartello, governando l’andamento dei prezzi e della tassazione. Negli ultimi dieci anni, dicono gli esperti del settore, «abbiamo assistito ad un costante aumento dei prezzi da parte dei produttori, senza che le tasse fossero toccate».

Di fatto si tratta di un grande regalo da parte dei governi alle multinazionali delle bionde, che hanno visto crescere esponenzialmente i propri profitti. Il risultato è che i fumatori scontano due volte il costo delle sigarette: da una parte come consumatori, pagandole di più, dall’altro come contribuenti, a cui viene di fatto sottratta una quota significativa di gettito erariale. Secondo la stima più accreditata nel 2013 l’Italia ha perso oltre ottocento milioni di euro sul consumo di sigarette. Perché, dunque, non vengono alzate le tasse, lasciando che i produttori governino indisturbati l’andamento del mercato?

Dal 2004 ad oggi, infatti, l’aliquota sull’accisa proporzionale (una delle componenti delle tasse sul tabacco) è rimasta bloccata al 58,5 per cento, innescando un meccanismo perverso per il quale chi vende sigarette a prezzo più basso paga più tasse, mentre chi le vende a prezzo più alto ne paga meno. Tra questi ultimi c’è naturalmente la Marlboro. A farne le spese sono i piccoli produttori, che fatturano cifre ben lontane da quelle delle multinazionali. Una di queste è l’italiana Yesmoke, che dallo stabilimento di Settimo Torinese detiene lo 0,8 per cento del mercato italiano: briciole - proporzionalmente parlando - rispetto ai Big del tabacco.

I torinesi, insieme alla manifattura di Chiaravalle (Marche), sono i soli due produttori di sigarette rimasti in Italia. La lunga tradizione della manifattura italiana è stata smantellata definitivamente nel 2005, quando lo Stato ha privatizzato il settore, vendendo tutto alla Bat. Da allora la quasi totalità della produzione - un comparto da quattordici miliardi di euro l’anno - è stata svuotata e portata all’estero, dove costa meno fare le bionde. Dall’esterno dei nostri confini, quindi, la Big Tobacco contribuisce a determinare le scelte fiscali del nostro Paese. Mentre i produttori nostrani sono messi a margine delle decisioni.

In questo contesto è iniziata una vera e propria guerra dei prezzi, che porta il costo di alcune sigarette al ribasso. Da una parte c’è Yesmoke, che propone di adeguare le tasse al livello europeo, alzando l’aliquota minima dell’accisa dal 58,5 per cento attuale al 65,5: in questo modo il nostro Paese incasserebbe fino a un miliardo e quattrocento milioni di euro in più. Dall’altra parte c’è Big Tobacco con Philip Morris in testa, che non gradisce la provocazione della pulce torinese. Non è la crisi né l’attenzione al consumatore, quindi, a far scendere i prezzi, ma la necessità di difendere un segmento di mercato Ma questa è un’altra storia, che merita una puntata a parte.

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