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COMUNISTI: IDENTITA’ E ORGANIZZAZIONE,OGGI

par Franco Astengo

Publie le sabato 9 maggio 2015 par Franco Astengo - Open-Publishing

COMUNISTI: IDENTITA’ E ORGANIZZAZIONE, OGGI di Franco Astengo

In questi giorni è stata riscoperta la teoria delle “due sinistre” (di famigerata memoria) tracciando però un’inedita linea di frattura: “sinistra vincente” versus “sinistra perdente”.

Non è il caso di discettare se, in quest’occasione, verrà riproposta una terza sinistra (dato e non concesso ovviamente che le due precedenti appartengano alla storia iniziata dai montagnardi alla Convenzione).
La sinistra che conosciamo e che intendiamo continuare a conoscere si colloca al di fuori del recinto della vittoria e della sconfitta: è la sinistra che lavora per la storia, la sinistra comunista.
Benedetto Croce, nel 1942, scrisse un saggio dal titolo “Non possiamo non dirci cristiani”: oggi, davanti allo sfacelo che il capitalismo ha prodotto nei rapporti umani, economici, sociali, in una situazione nella quale la guerra torna a essere predominante nella visione generale del mondo dalla parte dei potenti, sarebbe il caso di scrivere “Non possiamo non dirci comunisti”.
E’ il caso allora, oltre che per altre ragioni fondamentali che si cercherà di seguito di riassumere, di ragionare sul perché oggi più che mai è possibile affermare: “Non possiamo non dirci comunisti”.
Non possiamo non dirci comunisti considerando appieno che cosa sono stati, nel ‘900, i totalitarismi assurti al ruolo di Stato, nel tentativo di inverare a quel livello veri e propri fraintendimenti dell’etica marxiana.
Quest’analisi va ricordata appieno anche da parte di coloro che, per la loro storia culturale e politica, hanno preso le distanze in tempi non sospetti da quei totalitarismi: siamo stati tutti coinvolti, pur dissidenti di varia natura filosofica e ideologica, esponenti di quei filoni di critica che permisero di sviluppare esperienze politiche originali come quella, esemplare, del Partito Comunista Italiano, nella sua ricerca di “riconoscibilità nazionale”, il massimo ottenibile in quel tempo grazie all’interpretazione (e anche manipolazione?) togliattiana dell’opera di Gramsci.
E’ il caso allora di rispondere alla domanda che ha fin qui suonato come un’affermazione: Perché non possiamo che dirci comunisti?
Il primo motivo lo ritroviamo proprio in Gramsci, nei suoi scritti giovanili: non possiamo che dirci comunisti perché odiamo gli indifferenti alle contraddizioni esplosive che percorrono questa società. Non siamo indifferenti, anzi siamo partigiani della liberazione della donna e dell’uomo e dell’eguaglianza.
Non possiamo che dirci comunisti perché il capitalismo, nel compiere il suo ciclo, riscopre interi tutti i suoi lati più bestiali: l’imperialismo, lo sfruttamento, la sopraffazione, la distruzione delle ragioni e della possibilità della convivenza nel genere umano e tra il genere umano e l’ambiente.
Non possiamo che dirci comunisti perché abbiamo bisogno di andare a fondo nell’esplorare i meccanismi che l’avversario sa mettere in campo soprattutto sui terreni dell’alienazione e della mistificazione: sono mutati i termini del rapporto tra struttura e sovrastruttura, è necessario interrogarci su questo e comprendere le motivazioni della modernità, ma allo stesso tempo si tratta di far capire che la saldatura tra questi due elementi, la struttura e la sovrastruttura, formano il dominio.
Il dominio che il capitalismo esercita non solo sulla fatica e la sofferenza umana, ma sulla stessa mente: cerca di impadronirsi del pensiero. E’ il capitalismo, senza identificazioni di sorta (finanziario o altro) ma in quanto tale il vero “Grande Fratello” di questo XXI secolo.
E’ ancora la lotta di classe il riferimento dello scontro sociale a tutti i livelli: è la lotta di classe lo strumento attraverso il quale reclamare la pace, l’eguaglianza, la trasformazione dello stato di cose presenti.
Disponiamo ancora di un imponente bagaglio teorico, non abbiamo dimenticato la necessità di sviluppare sempre una tensione internazionalista, siamo ancora capaci di indignarci per l’evidenza dell’ingiustizia e della disuguaglianza, intendiamo sviluppare politica e conflitto sociale perché non siamo certo i sacerdoti di un culto “quasi estinto”: per tutti questi motivi non possiamo che dirci comunisti.
Essere comunisti oggi richiede, almeno per quello che riguarda la realtà italiana rivolta al complesso della situazione internazionale, la riedificazione di un partito, di un’organizzazione politica compiuta, radicata nella società, capace di sviluppare rapporti sociali ed anche rapporti politici, politica delle alleanze, presenza istituzionale, presenza costante nelle lotte a tutti i livelli nei posti di lavoro, nelle scuole, nei quartieri.
Oggetto e soggetto non rinchiuso in inutili settarismi, ma provvisto di identità e di visione egemonica risultando ben calato nella realtà quotidiana e nella prospettiva storica.