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A che cosa serve la filosofia contro la violenza

Publie le sabato 31 luglio 2004 par Open-Publishing

Dazibao

di Antonio Caronia

A che serve la filosofia contro la violenza? È adeguato contrapporre allo strapotere militare il pacato ragionamento? Come può una riflessione sulle origini e le implicazioni della libertà di ricerca e di espressione avere la meglio sulla radicata smania di censura? Sono domande che si è posto più volte, negli ultimi tre anni, chi scrive. Di fronte a un solo morto in Iraq, in Palestina o in Cecenia, anche un minuto di tempo dedicato allo studio della teoria può sembrare non solo inutile, ma forse anche spregevole e offensivo. Ma poi capita di leggere righe come queste, e anche l’intellettuale, allora, può pensare di tornare ad avere qualche fiducia nel proprio lavoro:

[Gli eventi dell’11 settembre 2001] hanno sollevato, almeno in maniera implicita, la questione relativa a quale forma debbano assumere le riflessioni e le discussioni politiche se si adottano i parametri del "danno subito e dell’"aggressione" come punti di partenza della vita politica. Il rischio di poter subire noi stessi un danno, o che altri possano subirlo, l’essere esposti alla morte per il semplice capriccio altrui sono fattori che causano paura e angoscia. Quel che è meno certo è se l’esperienza di vulnerabilità e di perdita debba condurre necessariamente alla violenza e alla punizione militari. Ci sono altri percorsi. Se vogliamo mettere un freno alle spirali di violenza per produrre esiti meno violenti è importante chiedersi quale uso politico si possa fare dell’angoscia, ben oltre un mero grido di battaglia.

Sono alcune delle frasi (pp. 9/10) con cui si apre un recente libro di Judith Butler, Vite precarie, dedicato all’esame delle radici culturali della risposta intollerante e violenta degli Usa al lutto dell’11 settembre 2001, allo scandalo (o al "non-evento", all’evento indicibile, secondo Jean Baudrillard) del crollo delle Twin Towers. E mi hanno fatto pensare che non la violenza in quanto tale (modalità inerente alla vita di per sé, e quindi anche alla vita umana), ma l’uso politico della violenza, da parte dell’uomo, ha comunque radici culturali e linguistiche, non certo "naturali" o "spontanee". E quindi, forse, non è tempo perso provare a indagare, come fa Butler in questo libro, i processi culturali che sostengono e giustificano, anche agli occhi di molti cittadini Usa, le scelte internazionali di quel governo. Comprendere quei processi può aiutare a contrastarli meglio, e più efficacemente, in Usa e fuori dagli Usa.

Butler è una delle esponenti più importanti e controverse del pensiero femminista americano, e le sue riflessioni sui temi del potere, della sessualità, dell’identità sono conosciute anche in Italia. Ricorderò solo, fra gli altri, il libro La rivendicazione di Antigone, pubblicato nel 2000 da Bollati Boringhieri. Le domande alle quali in Vite precarie Butler cerca di dare, se non una risposta unica, almeno delle risposte collegate, sono varie. Come si è passati, negli Usa, da uno stato di diritto a una sospensione di fatto dei diritti umani fondamentali per alcune categorie di persone (p. es. i detenuti di Guantanamo)? Perché si possono piangere e commemorare i morti delle Twin Towers e non i morti dell’Iraq? O le vittime israeliane degli attentati palestinesi, e non le vittime palestinesi dell’esercito israeliano? Perché si cerca di far passare ogni critica alla politica del governo di Israele come un cavallo di Troia dell’antisemitismo? (e quest’ultimo interrogativo è particolarmente bruciante per Judith Butler, ebrea e contraria alla politica israeliana).
Ciò che mi ha colpito, nelle righe che ho citato sopra, è che Butler non passa sotto silenzio l’evento che ha catalizzato e (almeno sul piano cronologico) ha segnato il pieno dispiegarsi della nuova politica aggressiva degli Usa, aprendo l’era della "guerra infinita." Al contrario, lei parte proprio dall’11 settembre, e da una riflessione su alcune caratteristiche della condizione umana che quell’avvenimento ha messo in luce. E il suo tentativo è proprio quello di individuare le radici della risposta statunitense in una lettura distorta e paranoica ai problemi reali che l’11 settembre ha segnalato.

Semplificando molto (me ne scuso, ma non credo di poter fare altro in questa sede) il ragionamento di Butler è all’incirca il seguente. La perdita e la vulnerabilità sono elementi costitutivi della nostra esperienza di esseri umani, di animali sociali. Esporci all’altro, in qualsiasi forma (ed è questa l’essenza di ogni relazione sociale) comporta la possibilità di perdere una persona che ci è cara, o la possibilità che un’altra persona ci ferisca, ci faccia del male. Come non è possibile considerarsi immortali, così è impossibile considerarsi invulnerabili. "Ciascuno di noi in parte è politicamente costituito dalla vulnerabilità sociale del proprio corpo - in quanto luogo del desiderio e della vulnerabilità fisica, luogo di una dimensione pubblica a un tempo esposta e assertiva. La perdita e la vulnerabilità sono conseguenze del nostro essere corpi socialmente costituiti, fragilmente uniti agli altri, a rischio di perderli, ed esposti agli altri, sempre a rischio di una violenza che da questa esposizione può derivare." (p. 40). Noi non siamo qualcosa di immutabile, ma evolviamo, ci costruiamo, raggiungiamo anche ciò che chiamiamo "autonomia" sempre in relazione agli altri. La perdita, il dolore, il lutto, sono elementi costitutivi di noi stessi. Possiamo cercare di elaborarli, non di negarli. Ciò è vero tanto nel campo delle relazioni private, quanto di quelle pubbliche. Anche la dimensione politica è il luogo di una dipendenza reciproca (che contiene in sé il rischio della vulnerabilità e della perdita) che deve essere attentamente considerata. Le stesse rivendicazioni di libertà e di autonomia, che Butler non intende affatto abbandonare, devono tener conto di questa dimensione intrecciata dei corpi. "Il corpo implica mortalità, vulnerabilità, azione: la pelle e la carne ci espongono allo sguardo degli altri, ma anche al contatto e alla violenza, e i corpi ci espongono al rischio di diventare agenti e strumenti di tutto ciò. Possiamo combattere per i diritti dei nostri corpi, ma gli stessi corpi per i quali combattiamo non sono quasi mai solo nostri. Il corpo ha una sua imprescindibile dimensione pubblica. Il mio corpo, socialmente strutturato nella sfera pubblica, è e non è mio." (p. 46, corsivo di a.c.).

Ma tutto ciò implica (suggerisce Butler) che non sia possibile trattare la morte, il lutto, la perdita e la vulnerabilità degli altri in modo diverso da quello con cui trattiamo la nostra. Ogni elaborazione del lutto che costruisca una gerarchia di importanza tra le morti (e le vite) non può che condurre alla violenza. Questo è esattamente ciò che gli Stati Uniti hanno fatto, secondo Butler, dopo l’11 settembre. Erigendo monumenti alle vittime delle Twin Towers, considerando quelle vite spezzate degne di essere piante al contrario di altre, la nazione Usa ha creduto di entrare in lutto, ma in realtà lo ha rifiutato, perché non è stata in grado di concepire il proprio dolore come una parte del dolore universale. "Sostengo che una melanconia nazionale, intesa come lutto rifiutato, sopraggiunge a seguito della cancellazione, dalle rappresentazioni pubbliche, di nomi, immagini e storie di coloro che gli Stati Uniti hanno ucciso. Per contro, le perdite degli Stati Uniti sono consacrate negli obitori pubblici elevati a monumenti nazionali. La perdita di alcune vite è dolorosa. Quella di altre no. La differente ripartizione del dolore che decide quale soggetto merita, o meno, di essere compianto, opera in maniera tale da alimentare e sostenere certe concezioni esclusive relative alla definizione normativa di ’umano’: quando una vita può dirsi ’vivibile’ e una morte ’compatibile’?" (pp. 12/13).

Se gli Stati Uniti hanno deciso di imbarcarsi in una guerra infinita (limitata, per ora, solo dalle considerazioni contingenti dei rapporti con gli alleati e dai limiti - comunque esistenti - anche della loro potenza militare), è anche perché, al di là di tutte le ragioni economiche, dell’ideologia geopolitica dei neocon, dell’ossessione religiosa di Bush, essi sono incapaci di rapportarsi al "volto" dell’altro (secondo l’immagine e il concetto del filosofo Emmanuel Lévinas), sono sordi a una visione realmente universale dell’essere umano. Possono uccidere iracheni e afghani (e domani siriani, iraniani o - dio ne scampi, ché sarebbe veramente una catastrofe - cinesi) perché, al fondo, li considerano esseri umani di serie B. Possono concepire di tenere detenuti per anni i prigionieri di Guantanamo senza uno straccio di processo perché (come dice il consigliere Haynes e come pensa Rumsfeld) "sono persone pericolose," anche se "non sono necessariamente criminali". In loro la violenza è costitutiva, innata, quindi a loro non possono essere applicate le usuali leggi che regolano la vita degli esseri umani "normali".

Ecco le radici culturali del terrorismo di stato Usa. Bisognerà che - se non Bush e la sua cricca, forse ormai irrimediabilmente malati - i cittadini americani che votano per lui (e forse anche molti di coloro che votano per i democratici) imparino a non aver terrore del volto dell’altro. Sarà un processo lungo, ma non impossibile. Sfortunatamente, ciò passa, ancora una volta, per una sonora e indubbia sconfitta della politica Usa nel mondo. Una sconfitta che non può essere loro inflitta con le loro stesse armi e i loro stessi metodi. Una sconfitta che possono produrre solo i nuovi cittadini globali del mondo, pacifici, non violenti, insubordinati, non gerarchici.

Judith Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, a cura di Olivia Guaraldo, Meltemi, pp. 190, € 15,00

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