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Smontare, montare, dimostrare: il potere delle (false) immagini nei processi di Genova

Publie le lunedì 11 aprile 2005 par Open-Publishing

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Intervista a Uomonero, attivista di Indymedia

di Filippo Del Lucchese

La sede dove lavorano gli attivisti di Indymedia si trova in un bel palazzo del centro storico di Genova. Entrando ci si trova in un ambiente ordinato, con scaffali pieni di materiali video e audio ben sistemati e catalogati. I computer sempre accesi. Sul muro diverse bacheche con affissi ritagli di giornale, fotografie, immagini estrapolate dai video. Momenti chiave, personaggi da riconoscere, volti racchiusi in cerchi colorati.

Si cerca in queste stanze di ricostruire avvenimenti e sequenze temporali, di smontare montaggi abborracciati e sequenze preparate ad hoc per i processi in corso. Mi colpisce, fra questi fogli appesi, una didascalia delle mostrine indossate sulla divisa da poliziotti e carabinieri, che ne descrivono il grado. Sui caschi protettivi non ci sono cifre, questo - si sa - avrebbe aiutato nell’identificazione di chi ha commesso in modo palese reati gravissimi, che le immagini hanno ripreso, nelle piazze e nelle strade di Genova, fino alla sanguinosa irruzione alla scuola Diaz e al massacro che ne è seguito.

L’impressione è quella di un lavoro incredibile, motivato dalla voglia di non dimenticare e di contrastare la ricostruzione della realtà processuale che le autorità si preparano a dare in aula, dopo quella giornalistica e cronachistica che è arrivata a negare perfino l’evidenza («Nessun cittadino è stato ferito» dichiarava fiero il capo della Polizia Gianni De Gennaro alla stampa il 23 luglio 2001). Parlo di tutto questo lavoro, di cosa rappresenta dal punto di vista politico e processuale, con ‘Uomo nero’, un attivista di Indymedia che ha lavorato per mesi in questo contesto.

JG - Partiamo dal lavoro fatto, da quello che state facendo per i processi genovesi.

Uomonero - Indymedia è stata in un certo senso costretta a riflettere e decidere di fare ritorno qua a Genova. Una sorta di mea-culpa per l’assenza, che durava praticamente dal 2001. Eravamo qua col media center, siamo stati presenti nelle strade e poi, per una sorta di rimozione, Genova è stata in un certo senso abbandonata. La legge invece non ha affatto abbandonato Genova, purtroppo, e quindi i processi sono andati avanti. Su richiesta di chi aveva mantenuto attiva una struttura legale abbiamo ricevuto l’invito esplicito e Indymedia ha deciso di investire qui delle energie.

Il lavoro che stiamo facendo è diviso in due parti fondamentali: la prima che ha avuto e avrà a che fare fino alla fine dei processi con le immagini; la seconda, di tipo più tecnico, riguardante gli atti, la loro organizzazione e informatizzazione. Una mole di lavoro è enorme. Abbiamo a che fare solo per il processo contro i poliziotti con circa 60 faldoni di 500 pagine l’uno, per un totale di circa 60000 pagine. Abbiamo poi circa 85000 fotografie e 240 ore di riprese video per ciò che riguarda solo il processo agli attivisti.

JG - Rispetto alla mole di immagini e foto rese pubbliche, quelle diciamo più conosciute, le cifre che dai indicano che abbiamo a disposizione molto di più

UN - Dobbiamo ricostruire. Le 240 ore di riprese video di cui stiamo parlando sono state scelte dal pubblico ministero entro un Database di immagini che si chiama Media-360, che contiene tutte le immagini trovate, sequestrate, di cui si è venuti in qualche modo in possesso. Ci sono circa 650 ore di video e migliaia di fotografie. La difesa ha avuto accesso a questo Db molto tardi nel quadro delle indagini difensive, in quanto la richiesta è stata dilazionata dal pubblico ministero fino al luglio 2004. L’elemento fondamentale da sottolineare non è solo quello dell’immagine usata per il riconoscimento, ad esempio, di chi ha commesso un fatto. Ci siamo trovati di fronte a un montaggio video. Richiesto dal Pm a un’ equipe della Polizia municipale facente funzioni di polizia giudiziaria, questo montaggio è conosciuto adesso sotto il nome di Dvd “Corda”, l’agente responsabile dell’operazione e che ha firmato il montaggio. Corda non era presente ai fatti, ma ha visionato tutte le immagini facendone questa ricostruzione montata. La novità è che il Pm ha accolto questo montaggio non come una consulenza tecnica ma come una vera e propria testimonianza, anche se chi lo ha prodotto non era presente al momento dei fatti.

In un certo senso la difesa ha già perso da questo punto di vista, perché il Dvd Corda è stato acquisito e come materiale unico agli atti. Questo un primo problema e di fondo: Un montaggio, una selezione e una ricostruzione sono sempre una interpretazione, proprio come in un film. Nel lavoro di Corda abbiamo intere sequenze costruite, orari sballati e non verificati che possono servire a dimostrare una cosa piuttosto che un’altra. Si tratta di una montatura nel vero senso del termine, che serve a sostenere l’intero processo. Questo infatti non ha a che fare con dei singoli danneggiamenti, ma con la richiesta di condanna per devastazione e saccheggio. Questo può essere dimostrato, ad esempio, attraverso il fatto che le forze dell’ordine non erano più in grado di gestire la situazione dell’ordine pubblico e che in molti ne hanno approfittato, ad esempio senza far niente per impedire i fatti. Le pene sono altissime e il Pm sta lavorando a questo tipo di richieste di condanna, contestualizzando i fatti entro quelle che ha chiamato vere e proprie ‘giornate di guerra’, piuttosto che ai singoli fatti di danneggiamento o di furto.

JG - Il vostro lavoro quindi come si è svolto?

UN - quello che abbiamo fatto è riprendere il Dvd Corda e tutti quelli che erano definiti come ‘originali’, cioè quelli da cui Corda ha selezionato le immagini, abbiamo provato a contestualizzare, a dare un orario alle registrazioni e a vedere come il montaggio e i tagli erano stati operati. Ne è nata una memoria molto dettagliata che spiega cosa sta a monte e quali sono i difetti sostanziali del Dvd Corda che lo rendono inutilizzabile entro il processo. Il tribunale ha invece ritenuto - ecco perché dico che si tratta già di una sconfitta per la difesa - di non visionare neanche un’immagine e di acquisire il Dvd, redarguendo allo stesso tempo il Pm per l’utilizzo inflazionato del materiale video. La nostra memoria rimane comunque agli atti, si vedrà cosa se ne può ricavare.

Un ulteriore particolare riguarda lo stesso Media-360, a monte quindi nel lavoro sia nostro sia di Corda. È stato fatto con l’acquisizione di materiali che non erano essi stessi gli originali. Non erano cassette registrate ma copie probabilmente già montate da chi ha sequestrato i materiali. Indymedia per esempio ha subito un sequestro nel 2003 di materiale che poi è stato riconsegnato. Questo materiale non corrisponde a quello consegnato al Pm, perché è già tagliato, o dai Ros o da chi si è occupato dei passaggi intermedi. Quelli che il Pm chiama originali sono le copie a loro pervenute, ma non corrispondono - perché non li hanno mai avuti in mano - agli originali che noi abbiamo registrato. Dove sono finiti gli originali? Forse non lo sapremo mai, ma resta un’ipotesi di reato, perché mancano decine di minuti di riprese.

JG - Parliamo ora del valore politico di queste immagini, che ci dicono molto su ciò che si vede ma anche su coloro che in quei giorni guardavano e registravano. Il mediattivismo si è configurato come un vero e proprio processo di soggettivazione politica di grande importanza. Come giudicate questo fenomeno?

UN - Provo a parlare per Indymedia, che però ha per sua natura una voce plurale. Indymedia è nata a Seattle, dove il tentativo della polizia è stato immediatamente quello di colpire il Media Center e la controinformazione. Questo si è ripetuto a Genova, che è stato lo sviluppo a livello internazionale di Indy. Indymedia Italia conta oggi su 130000 contatti giornalieri, quindi un vero successo di interesse e di attenzione. Lo spirito con cui nasce è quello dell’attivista che scende in piazza e che riprende e comunica - non solo attraverso il video - quello che ha fatto e visto facendolo con altri. Questo lo spirito originale che investe oggi un dibattito aperto su posizioni diverse. Molti oggi si sentono più mediattivisti e l’attivismo si riduce a fare informazione, mentre molti di noi, principalmente attivisti, pensano più alla partecipazione e alla controinformazione tradizionale. Indymedia è piaciuta perché gli animi più diversi riescono a convivere in questo contenitore.

Lavoriamo su quello che ci unisce più che su ciò che ci divide. Genova è stata una grande occasione per tutti noi per provare a dire quello che stava accadendo. Si aprono anche diversi problemi. Io ad esempio non uso mai in manifestazione la camera o la macchina fotografica, perché mi interessa più la manifestazione e il contesto con i compagni di strada piuttosto che la documentazione giornalistica. Genova è stato probabilmente l’avvenimento più ripreso degli ultimi anni, contando tutte le telecamere, anche quelle delle banche o della sicurezza o anche di attivisti che poi non sono state consegnate. Un avvenimento eclatante anche per ciò che è successo per strada, quindi. Genova è stata la possibilità di portare in piazza cose molto diverse fra loro ma in generale le persone si sono riappropriate delle strade e delle piazze, anche se è ancora dura oggi portare la memoria alla repressione durissima che abbiamo subito. Stiamo lavorando in questi giorni alle immagini dell’ingresso alla Diaz e sono ancora qualcosa che ‘chiude lo stomaco’.

JG - Col senno di poi, da un punto di vista più teorico, cosa si può dire delle analogie fra guerra e polizia, pensando alle immagini che giungono dalla Palestina, della Cecenia, dall’Iraq. Come si incrociano questi concetti ai vostri occhi?

UN - C’è una militarizzazione di fondo. L’esempio più lampante sono le ‘operazioni di polizia internazionale’, come per la Jugoslavia. Se la polizia copre il significato di guerra, questo vale anche in senso inverso. Sono a Genova solo da pochi mesi, ma è evidente la proliferazione delle telecamere di sicurezza per strada. Alle otto di sera c’è una sorta di coprifuoco delle ore 20, come lo chiamano i giornali. I negozianti non possono vendere bottiglie di vetro per evitare risse, in che modo poi non si sa Ora, la sera la città si riempie di reparti militarizzati di polizia, carabinieri e finanza in tenuta antisommossa che presidiano tutte le strade del centro, militarizzando di fatto la città. Giubbotti antiproiettile, mitragliette, tonfa ecc., ricorda ciò che avviene normalmente nelle banlieus parigine ad esempio da anni. Un coprifuoco di tipo militare, quindi, che ha un grosso impatto visivo e una funzione giornalistica più che altro. La mania securitaria riunisce nuovamente guerra e polizia. La riqualificazione urbanistica delle città va nello stesso senso, ridefinendo il territorio con telecamere e posti di controllo, predisponendolo alla presenza costante di reparti militari che lo controllano. La sicurezza è esasperata, anche a livello sopranazionale con gli accordi fra le polizie europee.

JG - Torniamo allora alle immagini di Genova. L’impressione in quei giorni fu che a un certo punto le peggiori violenze e l’accanimento apparentemente ingiustificato e incontrollato delle polizie contro i manifestanti avvenisse non ‘malgrado’, ma ‘proprio perché’ ripreso da centinaia e centinaia di telecamere e sotto gli occhi del mondo. Si è assistito, in qualche modo, a un’ostentazione della violenza, confermata ad esempio dalle foto-ricordo che molti agenti si sono fatti nel bel mezzo degli scontri e dei feriti, o cantando cori da stadio o attaccando direttamente anche i giornalisti accreditati.

UN - Una delle cose che più mi è rimasta impressa in quei giorni è proprio la foto ricordo che si è fatta un reparto, togliendosi i caschi e mettendosi in posa. Nonostante tutto, nonostante le centinaia di telecamere le polizie hanno agito senza curarsi di quello che veniva visto. Questa è una cosa su cui dobbiamo ancora riflettere. Probabilmente si tratta di una tale sicurezza in sé e nella copertura dello Stato, che ha portato ai pestaggi anche degli operatori anche di Mediaset e della Rai. Questi corrispondono anche all’aver fatto sparire molte delle immagini e dei rullini, ad esempio dell’omicidio di Carlo Giuliani, di cui abbiamo molto poco rispetto a quanto è stato ripreso.

Naturalmente bisogna ricordare anche quello che è successo a Napoli pochi mesi prima di Genova. Prima di tutto perché c’era i centro-sinistra al governo, poi perché i manifestanti sono proprio stati ‘violentati’, puniti, massacrati nelle caserme e negli ospedali. Quindi la famosa massima per cui qualsiasi poliziotto sa che può cambiare il governo ma lui resta sempre al suo posto è sempre più vera. Le polizie hanno assunto un potere di contrattazione e di indipendenza molto elevato. Un grandissimo potere discrezionale. Ha influito pochissimo invece la controinformazione. La sinistra che ha forse un po’ più di ‘classe’ è riuscita a contenere ciò che è emerso. Ma la violenza di Genova era già preparata, progettata e collaudata a Napoli sotto il centro-sinistra. È qualcosa da non dimenticare.

L’elaborazione definitiva di tutti questi comportamenti, almeno per ciò che riguarda Genova, potrà avvenire forse solo alla fine dei due processi, contro gli attivisti e contro i poliziotti. Qui vedremo veramente quanto elevato sia ancora il ‘potere discrezionale’ della polizia di fronte all’evidenza delle immagini. La polizia pretende il monopolio della violenza organizzata e - fuori da qualsiasi giudizio morale - la gente che scende in piazza, testimonia ‘solo’ del tentativo di mettere in discussione la legittimità di questo monopolio. Siamo però su un ragionamento filosofico, gli anni ’70 sono alle spalle. L’uso della forza, comunque, viene rivendicato dalle polizie, come vedremo in questi processi, insieme alla discrezionalità in situazioni come quelle di Genova. Le immagini significano l’affermazione esplicita di quella rivendicazione.

JG - Vorrei fare un parallelo tra i video di Genova e il video di Rodney King, un pestaggio violento e razzista di una persona indifesa. La strategia messa in campo per quel processo è stato da un lato di far circolare a dismisura questo video sulle televisioni, inflazionarlo, assuefare la gente, quasi a confermare il fatto che ciò che si vedeva è sempre avvenuto e sempre avverrà, dall’altro di segmentare il video, immagine per immagine, mostrando che il ‘corpo’ di King non si trovava mai nella posizione manualistica definita come ‘sicura’ e quindi continuava a rappresentare una minaccia, benché disarmato, a terra, e in mezzo agli agenti che lo stavano picchiando. Questo tipo di decomposizione e decontestualizzazione della realtà è risultata processualmente efficace - insieme ad altri accorgimenti - e ha portato all’assoluzione degli agenti e alla rivolta di Los Angeles del ’92. Un tipo simile di trattamento processuale delle immagini, può avvenire secondo te anche a Genova?

UN - Questo purtroppo è già avvenuto. Torniamo al Dvd Corda, che già compie questo tipo di operazione, producendo - da una ripresa che ha un senso, con un inizio e una fine - una ripresa preconfezionata, in cui taglio ciò che succede prima e dopo per dimostrare una tesi. Le sequenze sono decontestualizzate, staccando le violenze dei manifestanti dalle provocazioni e le violenze delle polizie. Ma si ha un passaggio ulteriore, in cui il giudice considera attendibile prendere in considerazione un singolo fotogramma di un video, ma non un intero video. Questo è il massimo della decontestualizzazione. Il contesto viene respinto privilegiando e incasellando quanto più possibile gli atti nelle figure di reato. Qualcosa di simile avviene nel quadro dell’immigrazione. Si decontestualizza la provenienza, le ragioni, il significato e si deportano queste persone, ridotte a ‘clandestini’ secondo leggi assurde. Ora, questo è sempre accaduto, ma ora avviene sotto gli occhi di tutti e nonostante la legittimità. Quando gli accordi con la Libia non erano ancora firmati, ad esempio, già erano cominciate le espulsioni e le deportazioni, nonostante e anzi ‘proprio perché’ sotto gli occhi di tutti, con intento propagandistico.

Intervista a cura di Filippo Del Lucchese

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