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Lo stillicidio di morti in Iraq e l’assenza di un piano di ritiro intaccano il gradimento della Casa Bianca

Publie le martedì 23 agosto 2005 par Open-Publishing

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Usa, cresce il fronte anti-guerra. Bush: "Ma noi teniamo la rotta"

di VITTORIO ZUCCONI

IL solo a non avere dubbi, a non poterli avere, di fronte al caos istituzionale e militare dell’Iraq è ormai lui, George W. Bush. Nell’affannoso rush verso una Costituzione irachena senza consenso e senza chiarezza, imposta dalla potenza occupante per frenare il collasso del fronte interno in patria, Bush si è scosso dalla vacanza texana e ha ripreso in un discorso davanti a una sicura claque di reduci e veterani il refrain dell’ottimismo e del "mantenere la rotta".

Riemerge, nel panico politico di queste ore che hanno visto anche il sindaco della moderatissima e mormone Salt Lake City guidare una manifestazione anti-guerra, una formula abbandonata e ora ripresa: l’Iraq del 2005, come l’Italia, la Germania, il Giappone del 1945. La invasione dell’Iraq come l’invasione dell’Europa e dell’arcipelago nipponico, nell’ultima "guerra giusta" sulla quale l’America tutta seppe compattarsi.

La speranza che questo Presidente prigioniero della propria coerenza decidesse di uscire dalla retorica e di parlare francamente a una nazione nella quale il dissenso comincia a diffondersi anche tra i supporters e dentro il suo stesso partito, è andata ancora una volta delusa. Il senso di "disconnect", di distacco tra le parole e la realtà, che ormai il Presidente trasmette, si fa, visto nel controluce delle notizie da Bagdad e della irrequietezza popolare interna, acuto. E la risposta degli strateghi politici della Casa Bianca, abbandonata ormai da tempo la fiction delle armi di distruzione di massa e della alleanza fra Saddam Hussein e Al Qaeda, è - in questa fine agosto, mentre si tenta di capire che cosa significhi nella pratica e quali effetti potrebbe avere la Costituzione che due terzi dell’Iraq vogliono imporre all’altro terzo - riesumare la litania di slogan e di formule, come se nulla fosse accaduto e stesse accadendo.

"I terroristi sono in fuga", diceva Bush, mentre il numero di attentati e di vittime, militari e civili, continua a crescere. "Il popolo iracheno ha smentito pessimisti e disfattisti completando una Costituzione alla quale tutti i gruppi etnici stanno collaborando", mentre da Bagdad arrivano notizie di fragili compromessi fondati sull’ambiguità e di spartizione che sa di separatismo, fra i più laici Kurdi nel Nord e gli Sciiti nel Sud, dove il fondamentalismo sta imponendo la propria legge.

Ma queste formule, ascoltate mille volte, affidate al ricordo dell’11 settembre ancora una volta riattizzato, funzionano sempre meno come calmante per i nervi scossi di una nazione nella quale non sono più i radicali della sinistra e le solite Joan Baez o Mick Jagger, rispolverati per l’occasione, a parlare apertamente di "Nuovo Vietnam".

Sono i moderati repubblicani come il senatore del Nebraska Chuck Hagel, che ripete la parola fino a ieri tabù ormai in ogni occasione. I terreni e le strade che portano al ranch a Crawford sono un campo di battaglia simbolico, diviso fra i militanti che chiedono il ritiro delle truppe attorno alle madri dei caduti, e i militanti che "benedicono il Presidente", e sradicano le croci coi nomi dei morti, raccolti dietro il padre di un soldato ucciso e pronto - dice - a sacrificare anche il secondo figlio, un ragazzo di 16 anni che attende di compiere i 17 anni per arruolarsi e partire.

Il Partito democratico, la flebile opposizione di questi tempi umiliata nelle elezioni presidenziali e in quelle legislative, è scosso dalla spinta pacifista che si allarga nella base e dal timore di quei leaders, come Hillary Clinton, che temono di apparire soft di fronte al terrorismo e pensano alle presidenziali del 2008.

Le parole di Bush, che sentiremo ripetere molte volte verso la rievocazione dell’11 settembre coreografata da una marcia su Washington dei "patrioti" organizzata dalla Casa Bianca per quel giorno, sono belle, nobili. Ricordare che "stare dalla parte della libertà", nella storia, "significa stare dalla parte di chi vince", riscalda i cuori dei convertiti. Ma suona sorda alle orecchie di chi ricorda i discorsi che Bush faceva prima di essere eletto nel 2000, quando rimproverava a Clinton di "essere entrato in una guerra senza avere la condizione indispensabile per la vittoria, una strategia di uscita".

Precisamente quella che manca a questa guerra, che "non può essere vinta militarmente", dice il senatore repubblicano dissidente, "ma non può essere perduta politicamente". Bush ha ragione quando ripete, come ha fatto ieri, che ritirarsi ora concederebbe un trionfo psicologico e politico al terrorismo. Ma restare, al ritmo di 90 caduti e di 600 feriti al mese come in questo agosto, non è vittoria. Un gruppo misto di parlamentari repubblicani e democratici sta preparando una risoluzione per imporre un calendario di richiamo delle truppe.

Per questo, le scadenze istituzionali imposte al cosiddetto "governo sovrano" di Bagdad divengono il solo salvagente al quale Bush deve aggrapparsi. Soltanto con il rispetto formale di un copione politico scritto a Washington e recitato a Bagdad, con la vestizione formale della "democrazia irachena" e della "irachizzazione" della guerra contro insorti, ribelli e terroristi, la Casa Bianca potrà giustificare un ritiro da spacciare come vittoria. E farlo in tempo per le elezioni parlamentari del novembre 2006, che innervosiscono la maggioranza di destra come i molti parlamentari della sinistra che hanno scelto di sostenere la guerra e di staccare i faraonici assegni necessari per finanziarla.

I discorsi di Bush, la sua controffensiva di fine estate per rintuzzare il crollo nei sondaggi e per esorcizzare i fantasmi di un movimento contro la guerra che lo accompagni anche al ritorno dalla vacanza in stile ’68, puntano a stimolare una rimonta nella popolarità, a rispondere a tutti coloro che, ormai anche nel campo dei sempre più scettici e meno influenti neocon, gli rimproverano di non saper perorare la causa e difendere le ragioni della giusta guerra. Ma senza un pezzo di carta firmato a Bagdad da poter sventolare dalla scaletta dell’Air Force One, senza guardare troppo per il sottile sul futuro assetto del paese, sul rispetto reale delle donne e dei loro diritti famigliari e sul ruolo vero che il Corano avrà nella nascente nazione, la iterazione di belle frasi e di vecchi slogan davanti a claque sicure, non vincerà altro che qualche punto in più nei sondaggi.

http://www.repubblica.it/2005/h/sezioni/esteri/iraq64/antibu/antibu.html