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Fausto Bertinotti : la fine del berlusconismo e la sfida dell’alternativa

Publie le martedì 20 settembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Elezioni-Eletti Partito della Rifondazione Comunista Parigi Fausto Bertinotti

di Fausto Bertinotti

Non eravamo tra quelli che hanno sottovalutato quel complesso fenomeno definibile "berlusconismo"; non abbiamo irriso alle sue sgrammaticature, ma abbiamo cercato di individuare la densità di questa operazione. Essa aveva una forza e si fondava su una operazione politica complessa che coglieva e interpretava una tendenza delle classi dirigenti.

Si tratta di quel tentativo di realizzare un mix di neoliberismo e pulsioni populiste, senza le quali nessuna ipotesi di liberismo sfrenato poteva avere l’ambizione di imporsi. Si tratta di una operazione di ricollocazione dell’Italia nel sistema della guerra permanente come suddito del dominio imperiale degli Usa, una collocazione geopolitica in sintonia con l’assunzione della forma del neoliberismo elaborata dai neoconservatori statunitensi.

La stessa politica istituzionale è coerente all’impianto complessivo. Il punto determinante è distruggere il sistema delle autonomie che è l’elemento caratterizzante della democrazia italiana: l’autonomia dei poteri costituzionali, del Parlamento in particolare, l’autonomia dei governi locali. Questo elemento del potere delle autonomie, in quel progetto, andava spezzato proprio per recidere i canali che possono recepire le spinte dei corpi sociali.

La crisi dell’era berlusconiana è profonda, strategica, irreversibile, è crisi del blocco sociale che l’ha sostenuta. È il fallimento di un’impostazione di politica economica e sociale che ha pensato a competere sui mercati mondiali inseguendo il modello Nord-est in cui il moloch era la riduzione del costo del lavoro al più basso livello possibile, la sottrazione di ogni ruolo di governo e controllo pubblici con un’estensione a dismisura dei processi di liberalizzazione e privatizzazione, un ridisegno completo del modello di Stato sociale e di quello istituzionale coerente con quell’impostazione.

Il tutto, dentro un’offensiva anche di carattere ideologico, in cui le pulsioni populiste costituivano un elemento fondante, su cui si è anche tentato di dare copertura alla cosiddetta "finanza creativa" e a tutti i provvedimenti di condono che avevano lo scopo di ricondurre a economia legale quanto prima era considerato illegale, fosse pure il lavoro nero o i capitali illegalmente esportati. Un’era quella berlusconiana, caratterizzata da una visione del mondo, una collocazione geopolitica ben precisa, un’impostazione di politica economica e sociale.

Il ciclo breve della crisi del berlusconismo ha incontrato l’onda lunga della crisi del neoliberismo. Il suo fallimento è determinato dallo scontrarsi in alto con l’emergere di Paesi come la Cina con cui la competizione basata sul costo del lavoro è persa senza neanche cominciare a discutere e in basso con una situazione di disagio sociale cresciuta prepotentemente, senza più i freni e i contrappesi di un sistema di diritti del lavoro e dello Stato sociale.

L’epicentro della crisi del berlusconismo e della spinta al cambiamento sta, quindi, nel fondo della condizione sociale del Paese. Il punto da analizzare oggi è la rottura della coesione sociale che determina l’aspetto più rilevante dell’affidamento e della crescita dell’Unione nelle scorse tornate elettorali, malgrado le incertezze e le indeterminatezze sulla qualificazione sociale delle proposte che l’Unione medesima ha finora prodotto.

Si è innervata nel Paese una domanda politica prepotente che rappresenta un’onda lunga: l’uscita da una condizione di precarietà divenuta l’elemento grandemente unificante della condizione di lavoro, di vita e di relazione sociale. La precarietà, da condizione di fasce sociali determinate, anche se sempre più estese, si è fatta condizione generale dei tempi di lavoro e di vita. In questa spinta larga al cambiamento ha pesato in maniera determinante la consapevolezza della gravità della situazione di incertezza e solitudine e, in questa condizione, la percezione della possibilità di cambiamento attraverso la modificazione della politica.

Questo elemento della ripresa di una coscienza di massa della politica come possibilità di cambiamento è una grande novità e occasione che ci ha consegnato il voto nelle elezioni amministrative. Anche il governo locale è stato vissuto come passaggio di questa possibilità di cambiamento e di modifica delle politiche praticate. Il potere locale come fondante di una nuova possibilità di fare politica, per uscire dalla precarietà della condizione sociale e maturazione, anche attraverso questa via, di una domanda generale di cambiamento. Questo elemento di ripresa non si è prodotto meccanicamente, come conseguenza alla crisi e alla condizione di precarietà. Su di esso si è innestata l’onda lunga della rinascita dei movimenti e della crescita del conflitto di lavoro e sociale. È quello che abbiamo chiamato il vento caldo del sud (Melfi, Scanzano, Terlizzi, Acerra, solo per citare gli esempi più eclatanti) che ha determinato e provocato una grande domanda politica di cambiamento.

L’ipotesi neocentrista
La sconfitta di Berlusconi non cancella le destre e la loro pericolosità. Dobbiamo essere in grado di cogliere il diverso grado delle minacce che si frappongono a un nuovo corso politico. Le destre ci sono ma il colpo subito le lascia più nella difesa di interessi regressivi che capaci, almeno oggi, di una proposta propulsiva, di una nuova egemonia. Per questo, possiamo ritenere qualsiasi sia l’esito della crisi del centrodestra nel prossimo futuro, che il principale pericolo è determinato dall’ipotesi neocentrista, o come viene definita, l’ipotesi "terzista". Questa ipotesi, per nulla rafforzata dal voto, riaffiora e si ripropone dal versante programmatico e lo può fare secondo due direzioni: il rilancio di un rigorismo liberale senza l’elemento corruttivo del berlusconismo - l’idea, cioè, che il berlusconismo sia una superfetazione, tolta la quale, le medesime politiche possano essere ereditate in una continuità liberista con una Europa tecnocratica e moderata (l’Europa della "direttiva Bolkenstein") - e un nuovo patto sociale in cui proporre politiche di contrattazione dell’arretramento sociale, indicato come stato di necessità, per uscire dal declino in cui versa il Paese.

Questa ricetta che si fonda su una massa critica di impostazione culturale interclassista, avrebbe l’effetto di dividere il movimento e il sindacato e di realizzare la marginalità delle forze radicali. Essa verrà nei prossimi mesi ripresentata con forza, come elemento di condizionamento dell’Unione, per investire con la sua spinta la componente principale dello schieramento. La federazione della lista riformista potrebbe così svolgere la sua forza principale nella direzione di un’alternanza che non si fa alternativa. Le recenti affermazioni di Mario Monti indicano con una chiarezza estrema quali sono posizionamento e ruolo che una parte importante della borghesia italiana ed europea intende giocare.

Quindi, la crisi è evidente ma non è senza risposta possibile dalle forze moderate che intendono intervenire nel dopo Berlusconi per determinare una quadro di condizionamento impedente l’avvio del nuovo corso che il Paese reclama.

Il dopo Berlusconi: una sfida aperta
Le elezioni ci hanno consegnato un quadro politico terremotato e un Paese reale che chiede un profondo cambiamento. Imprimere forza a un nuovo corso e, quindi, contrastare soluzioni gattopardesche è il nostro compito. L’ipotesi neocentrista, immatura dal punto di vista degli schieramenti, ha una forza dal punto di vista degli interessi materiali e di potere che coinvolge. Ma sarebbe un errore gravissimo ritenere che gli esiti siano già determinati e che l’ipoteca moderata sul nuovo che avanza sia scontata e che, alla fin fine, la "legge del pendolo" sia l’esito già predeterminato della crisi.

Innanzitutto, non vanno sottovalutate le lotte che, anche contro questa nuova ipotesi, sono in corso (ad esempio, la lotta contro la direttiva Bolkenstein e la manifestazione di Bruxelles). Guardiamo alla Francia e alla difficoltà che incontra nell’opinione pubblica maggioritaria del Paese il trattato costituzionale. Per la prima volta, questa resistenza e questa opposizione incontra non il rinchiudersi nell’egoismo nazionalista ma una critica di sinistra, incontra la soggettività della Sinistra Europea, in campo concretamente per farsi interprete e protagonista dell’altra Europa. Anche da noi vanno valutate le lotte che individuano la ripresa di un conflitto sociale e di lavoro, come è il caso dei lavoratori metalmeccanici o del pubblico impiego in lotta per il contratto da più di un anno. C’è una questione sociale che si rilancia e che va ulteriormente rilanciata.

La crisi è aperta, nel senso proprio del suo significato: il segno e l’esito che essa avrà non è determinato. Noi l’abbiamo definita una sfida necessaria e possibile. Necessaria, perché senza di essa la sinistra di alternativa si condannerebbe a un ruolo di minorità; possibile, perché l’instabilità prodotta dalla crescita dei movimenti e dalla crisi delle classi dirigenti, rende praticabile un’uscita nella direzione di un nuovo corso politico.

In tutta Europa quando la competizione con le destre si fa stringente, le forze riformiste tendono a calamitare i consensi come un porto più sicuro. Non dobbiamo rassegnarci a questo esito. Il punto consiste oggi nel passaggio tra la fine di Berlusconi e la caratterizzazione dell’alternativa programmatica. L’Unione è riuscita a presentarsi come un’alleanza credibile, tale da rappresentare la novità essenziale e da poter determinare la fine del berlusconismo. È un risultato fondamentale ma che non risolve il problema dell’alternativa programmatica di governo. Come si usa dire, è una condizione necessaria ma non sufficiente.

Ora la sfida si sposta sull’Unione, sulla sua natura e il suo programma. Per vincerla, è assolutamente necessario non regredire dal processo unitario. Una sottrazione sarebbe disastrosa. Al contrario, è necessario giocare fino in fondo la carta della relazione tra il movimento e la costruzione del programma, come in Puglia. C’è bisogno di una grande iniziativa di massa che faccia del programma partecipato il centro di una campagna generale nel Paese, connessa a una rilancio del movimento e una ripresa forte delle lotte. La sinistra di alternativa si costruisce così, sul fare e con il fare. Proporne in questa fase cruciale la necessità di un salto vuol dire determinare una capacità di catalizzare il processo politico di partecipazione democratica, il contrario di una precipitazione organizzativistica di ceti politici.

ALTERNATIVE, n. 3 - maggio/giugno 2005