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Intervista a: Gore Vidal - «Ma quale democrazia! L’America è tiranna»

Publie le venerdì 23 settembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Libri-Letteratura USA

Intervista a: Gore Vidal

"Ma quale democrazia! L’America è tiranna"

Gore Vidal non è tenero coi padri (e le madri) fondatori della sua «nazione». Nel suo ultimo libro, L’invenzione degli Stati Uniti, che ora esce in traduzione italiana presso Fazi (pagg. 184, euro 13,00), dissacra impietosamente, con pennellate d’autore e rigorose citazioni dai documenti, i primi tre presidenti, i più universalmente «riveriti»: George Washington, John Adams, Thomas Jefferson. Gli toglie il piedistallo, li umanizza, ne mette in evidenza i limiti, i difetti, i pregiudizi, le piccolezze, le manovre politiche meschine, gli abbagli, le antipatie e suscettibilità personali che li avrebbero portati a cercare di farsi le scarpe l’un l’altro.

Eppure il succo che si ricava dalla lettura è l’opposto di quel che potrebbe sembrare a prima vista: che erano dei giganti rispetto ai loro successori.

Spiega Vidal, nelle ultime pagine del libro, che si tratta di un tentativo, durato 40 anni di riflessione, di rispondere all’interrogativo che John Kennedy - uno dei molti presidenti che ha frequentato e di cui era intimo, anche perché imparentato per via di Jackie - aveva sollevato in una conversazione: sul perché «una selvaggia contrada come questa, con appena tre milioni di abitanti, abbia potuto produrre geni come quelli», mentre «a me, in questo... ehm... lavoro... capita di incontrare molta gente potente e influente, dei quali la cosa che mi colpisce di più è quanto siano mediocri». Ne abbiamo parlato con l’autore, come al solito a ruota libera. Nell’albergo Majestic di Via Veneto giusto di fronte all’ambasciata americana in cui alloggia (e dove oggi, alle 21, presenterà il libro assieme a Furio Colombo).

È evidente che lei scrive delle vicende di oltre due secoli fa con in mente quelle dell’attualità immediata. E allora comincio a chiederle, cosa avrebbero fatto i Washington, Adams, Jefferson, di diverso da quello che ha fatto George W. Bush nella vicenda dell’uragano Katrina che si è abbattuto su New Orleans?
«Posso dirle quel che fece Lyndon B. Johnson, un altro presidente texano, così vicino ai petrolieri, un altro presidente “in guerra”, nel Vietnam, dopo l’uragano Betsy. Non erano passate 24 ore che volò sui luoghi del disastro. Era buio pesto. Non c’era corrente elettrica. Si fece prestare una torcia, in modo che i sopravvissuti potessero riconoscerlo. Il messaggio era: io sono il presidente e sono qui. Capiva che in politica un leader deve fare il leader».

Pare che Bush si stia ora riscattando, si è impegnato per la ricostruzione...
«Sì, ma perché qui ci sono i soldi... I suoi amici sono interessati ai contratti e agli appalti...»

Qualche commentatore ha evocato paragoni tra New Orleans e Baghdad, stessa leggerezza, stesso caos, stessa incompetenza...
«A Baghdad gli Stati Uniti non avrebbero mai dovuto andare. Chi siamo per decidere come devono essere governati gli altri, insegnare la democrazia agli altri? Gli Stati uniti non sono mai stati un esempio di democrazia, sono nati come una repubblica, ma snaturano le proprie origini se si comportano come un impero...»

Come dice? Come sarebbe che quella che viene vantata come modello di democrazia non sarebbe una democrazia?
«Sta nero su bianco. È stato scritto dai fondatori. C’è stata una lunga e appassionata discussione che l’amnesia nazionale tende a dimenticare. C’erano due cose che i fondatori degli Stati Uniti d’America non volevano. Non volevano un tiranno (per loro il tiranno era Giorgio d’Inghilterra); ma non volevano nemmeno la democrazia, il governo di tutti. La loro ossessione era che 3 milioni di persone cadessero in preda ad un demagogo. Per questo avevano concepito un sistema di equilibrio dei poteri, per cui nessuno potesse decidere da solo delle cose che contano: la guerra, i soldi...»

E non le pare che tutto sommato abbia funzionato?
«La cosa triste è che ad un certo punto ha smesso di funzionare. No, non dico solo da ora, da almeno 50 anni a questa parte. Quanti si ricordano che, secondo la nostra Costituzione, non è il presidente a dichiarare guerre, ma il Congresso? Dalla fine degli anni ’40 ci sono state 200 guerre, e a dichiararle sono state i presidenti. Adams, Jefferson, Hamilton litigavano come pazzi tra di loro, ma fecero di tutto per non impegolasi in guerre, malgrado un “partito” volesse portare gli Stati Uniti in guerra contro a fianco dell’Inghilterra, l’altro a fianco della Francia contro l’Inghilterra. Comprarono la Louisiana da Napoleone, più tardi l’Alaska dallo Zar. La tragedia è che l’esperimento sta fallendo. Quando un presidente dice che ha il diritto di dichiarare guerra a chiunque è la perversione completa di quello su cui si erano fondati gli Stati Uniti all’origine».

Ce l’ha con Bush?
«Non non si tratta solo della persona di Bush. È tutto il sistema che gli sta intorno, i militari, i media, la mania religiosa, il petrolio... La cosa che mi rattrista è più profonda: che due secoli e passa dopo, paia realizzarsi la fosca profezia di un altro dei “padri fondatori”, Benjamin Franklin, che prevedeva che la nuova nazione per un po’ sarebbe stata amministrata bene, ma rischiava di cadere preda del dispotismo “quando il popolo diverrà così corrotto da aver bisogno di un governo dispotico, divenendo incapace di tollerarne qualsiasi altro”».

Ma non le sembra di esagerare? Bush non è un despota, è stato eletto, e rieletto...
«Bisogna vedere come è stato eletto e rieletto. Con un broglio. Nel 2000 aveva vinto Al Gore, è andato alla Casa bianca solo perché un potere che avrebbe dovuto essere indipendente, la Corte suprema, gli ha dato ragione sui risultati della Florida. Nel 2004 i brogli sono stati ancora più sistematici. Un deputato autorevole, John Coniers, che è a capo della commissione giustizia del Congresso, ha appena scritto un libro dal titolo What happened in Ohio, dimostrando con dovizia di prove perché e come l’Ohio abbia dato la maggioranza dei grandi voti elettorali a Bush. Non si tratta di opinioni - sui giornali leggiamo ormai solo opinioni - ma di fatti. Ma nessun grande giornale ha segnalato l’inchiesta di Coniers... Tutti sono pagati dalle lobbies, che lavorano per le grandi corporation , dalle quali vengono i soldi di cui i politici hanno bisogno per comprarsi gli spazi in tv...»

Ma anche i suoi padri fondatori non erano da meno in fatto di manipolazione, manovre, interessi personali, il suo libro inizia ricordando come il grande Washington fosse ossessionato dal problema di come pagare le sue «spese»...
«Ma quelli almeno erano onesti, non farabutti. I colpi bassi facevano parte della normale battaglia politica...»

Litigarono con colpi bassi, ma alla fine concordarono su alcune questioni di fondo. Non pensa che sia possibile una soluzione una sintesi politica anche nell’attuale situazione che lei dipinge a tinte tanto fosche? La democrazia parlamentare europea aveva i suoi difetti, che vennero denunciati da generazioni di grandi scrittori. Ma era certo meglio di come i totalitarismi del secolo scorso pensavano di eliminare quei «difetti». Non teme che troppa denuncia possa sfociare in un populismo «redentore» molto più pericoloso?
«Magari».

Come «magari»? Non le sembra già molto che l’America non abbia avuto un suo Hitler o Stalin?
«Non sono ottimista. Temo che a questo punto sia difficile aggiustare un sistema politico che mette al potere le persone sbagliate. Ci pensi: quel che fa Bush è davvero molto meglio di quel che facevano Hitler e Stalin? Certo non nego che qualcosa si stia muovendo. Come dicono le leggi della fisica, ogni azione ha una sua reazione. E Bush siede su un barile di reazioni. La sua popolarità è scesa al 37%, credo nemmeno Nixon prima del Watergate. La gente è arrabbiata e confusa. Spero che abbia ragione lei, che qualcosa possa cambiare. Ma non ci conto troppo».

C’è chi l’ha definita «un patriota in guerra col proprio paese». Altri le danno del portavoce di un «angst aristocratico». Ho l’impressione che solo uno come lei che aveva un bisnonno che ha preso parte alle rivoluzione americana, un nonno senatore, e ha frequentato la Casa bianca sin da quando era in fasce, possa permettersi tanta foga.

«Qualcuno queste cose deve dirle. Io almeno scrivo libri. L’intellighenzia neo-cons che si dà tanto fare, e ha trovato il suo tornaconto nel predicare il rovesciamento del New Deal di Roosevelt e una nuova versione americana della “conquista del mondo’, scrive solo recensioni».

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