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Un minuto prima (del Cafta) AIDS e Libero Commercio

Publie le martedì 27 settembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Salute America Latina Giorgio Trucchi

di Francisco Javier Sancho Más Traduzione e foto Giorgio Trucchi

Sono arrivato tardi all’appuntamento. Non con il medico, bensì con quella donna seduta su una panca di fianco alla porta chiusa dell’ambulatorio.

Il medico mi si avvicina, parlandomi di lei. Non ha ancora notato che è lì vicino e che ci sta aspettando e quando se ne rende conto, abbassa lo sguardo e la voce con un po’ di vergogna.

Lei ha la schiena incollata alla parete e la testa alta. Mi guarda con i suoi occhi enormi, come indovinando che io sono quello che le farà l’intervista, e si alza senza piegare la schiena, dalle sue labbra spunta solo un gesto di dolore per lo sforzo.

Mi offre la mano e gliela do. "Io sono Ana, lei deve essere la persona che mi vuole intervistare", mi dice a bassa voce, ma senza titubare.

Le spiego che pubblicheremo la sua intervista sulla pagina web di un’organizzazione.

Le spiego altre cose e mi chiede che non riveli il suo nome, né troppi dati.
Quindi, lei stessa mi offre la prima domanda.

"Che cosa le fa paura?"

Ana vive in un quartiere chiamato Guasmo, di una città, di un paese che potrebbe essere uno qualsiasi dell’America Latina, forse il nostro.
Strade senza asfalto, negozietti da tutte le parti, farmacie con alcune medicine generiche per le cose più semplici, e di sera, tutto chiuso, la vita valendo meno, e l’eccetera che tutti potremmo aggiungere.

Ad alcuni chilometri da Guasmo si trova la prima comunità rurale.

Là è dove Ana va tutti i giorni per insegnare in una scuola elementare.

"Ho paura prima di tutto per i miei figli, non voglio che esponendomi io, siano poi loro a soffrre. Devono lavorare e non è giusto che io sia la causa di..."

Ana non può continuare a parlare, non le arriva la voce e la debolezza evidente del suo corpo non resiste alla benché minima emozione, senza che il dolore le si mescoli sul viso con le lacrime. Teme anche che nella scuola dicano che per colpa sua i bambini e le bambine possano infettarsi. "Capisce? Là la gente crede che possano contagiarsi anche condividendo il bagno".

Ana ha saputo di avere l’AIDS dopo che suo marito era morto a conseguenza di questa malattia. Fino a quel momento non aveva mai pensato di poterla avere.
Quando le hanno detto che i risultati degli esami erano positivi, le è entrata l’enorme disperazione di avere davanti ai suoi occhi il panorama di tre figli e il suo povero stipendio di maestra.

La sua prima reazione fu di non dirlo a nessuno. Poi prese coraggio ed incominciò dalla sua famiglia.
Ebbe risposte di ogni tipo.

Qualche fratello sentì una certa compassione e la va ancora a trovare , "ma non succede mai che mi invitino ad andare a casa loro, con le loro mogli ed i loro figli. Quando non lo sapevano, mia cognata veniva addirittura a trovarmi, ma ora..."
Ana incominciò il trattamento antiretrovirale alcuni mesi fa.

Le hanno raccontato di molte persone che vivono con il HIV e che il Ministero della Sanità, nonostante il finanziamento del Fondo Globale, gli ha interrotto la cura e quando hanno domandato, quando hanno chiesto comprensione, "il Ministero stesso ha chiesto comprensione a chi sta soffrendo per questa malattia", perché è una medicina cara e difficile da ottenere con un budget così limitato.

Molti di quei pazienti, dopo avere ascoltato il "torni un altro giorno", sono dovuti ritornare a casa, alcuni in regioni molto lontane dall’ospedale che si trova nella capitale, che è l’unico posto dove si garantiscono le medicine (anche se non sempre è vero).

Per un paziente con questa malattia, come nel caso di qualsiasi altra malattia cronica, l’interruzione della cura crea conseguenze gravissime e nel giro di poco tempo potrebbe essere costretto a cambiare tipo di cura, aumentando la spesa e diminuendo la possibilità che il Ministero la possa finanziare.
Un viaggio così lungo per sentirsi dire solo cose che ti tolgono la voglia e la speranza.

Che ti rendono ancora più difficile questa malattia, che è una malattia perfettamente curabile. Ma Ana sa che ci sono medicine molto più economiche ed ugualmente efficaci, lo sa perché c’è una Organizzazione non governativa (Ong) che le utilizza in molti paesi.

Sa anche che nel suo paese non ce ne sono semplicemente perché, durante alcune trattative, si è negoziato tutto, anche la vita di Ana, si sono presi impegni sotto lo sguardo degli Stati Uniti, per un Trattato di libero commercio che avrebbe bloccato la possibilità di utilizzare medicine generiche per una certa quantità di anni, ed anni sono precisamente quelli che Ana non può aspettare, e molto meno tollerare che il Ministero della Sanità rimanga senza medicine.

Ana non capisce nemmeno come sia possibile che, nonostante il finanziamento del Fondo Globale e della spesa effettuata per la formazione del personale sanitario degli ospedali pubblici affinché sappia come si lavora con i pazienti con questa malattia, si continui ad avere ancora casi vergognosi in cui queste persone trattano i malati di AIDS in modo discriminatorio.

Sul posto di lavoro succede la stessa cosa.

Se vivessimo in un altro mondo, Ana potrebbe andare a scuola senza paura.
Conosce le precauzioni da prendere e nella scuola sono già venuti a parlare delle forme di per prevenire l’infezione, senza sapere che quell’insegnante magra e sempre con la schiena dritta ha il virus.

Questo non sarebbe un dramma se l’informazione e le precauzioni su questo tipo di malattie fossero una cosa normale e non un tabù (sicuramente perché bisogna parlare di sesso solamente in alcuni momenti. Che scandalo in pieno secolo XXI!).
Non sarebbe un dramma se nelle negoziazioni del Cafta non ci fossimo privati della possibilità di avere medicinali generici per le nuove terapie dell’AIDS di cui, con questo ritmo di interruzione delle cure, i pazienti avranno bisogno nel giro di poco tempo.

Chi può inserire in una negoziazione commerciale la possibilità d’accesso alle medicine per la cura delle persone?

Chi può disporre di un diritto tanto sacro della gente a questo prezzo?

Chi può approvare o difendere che si sia negoziato, in cambio di interessi che possono essere commercialmente vantaggiosi (lasciamo per lo meno il dubbio), ma che sono un attentato contro la salute e contro la possibilità che, molte persone come Ana, possano continuare a curarsi?

Perché alla fine potranno farlo solamente quelli che possono pagare una cura così cara, solamente chi ha denaro, ma questi ultimi non sono la maggioranza dei latinoamericani, né dei nicaraguensi.

Basterebbe quindi solo questo, e anche per molti altri motivi, per far sì che il Cafta non vada avanti, almeno fino a che non si dia nuovamente la precedenza alla dignità della gente e non si eliminino i punti più sensibili, come questo, dal Trattato.
Gli Stati Uniti non hanno permesso che si parlasse dei sussidi che concedono ai loro produttori e non hanno voluto che s’inserisse come tema da negoziare.
Noi, invece, abbiamo addirittura messo in gioco il tema sanitario.

Che cosa possiamo dare ancora di più?

Non molti anni fa si è anche messo in vendita il sangue dei nicaraguensi ad un’impresa.

Un giornalista, che ci rappresentava tutti, l’ha denunciato ed è stato assassinato a colpi di mitra (in riferimento al direttore de La Prensa, Pedro Joaquín Chamorro, che venne fatto assassinare dal dittatore Somoza nel 1978. Pochi anni prima aveva denunciato l’impresa di Somoza che, dopo il devastante terremoto di Managua nel 1972, aveva iniziato a comprare sangue dai nicaraguensi per poi rivenderlo agli ospedali che ne avevano disperatamente bisogno per le decine di migliaia di persone ferite dopo il sisma n.d.r.)

Ana, con la stessa voce soffocata di molte altre persone, chiede di non essere lasciata senza medicine, proprio ora che sta imparando a convivere con il virus, ora che a tratti sta recuperando la speranza.

Nessuno lo vuole riconoscere, ma si sa che stanno aumentando i casi di AIDS e di Tubercolosi associata all’AIDS e ad altre malattie, ma si continuano a vedere scene come quella vista poco fa in un ospedale di Managua, dove arrivano persone con AIDS e non ricevono le loro medicine. E non succede solo con loro, ma che cosa pretende il Ministero? Perché mettere a rischio questi pazienti? Dove sono i milioni del Fondo Globale?

Quando uno dei pochi "privilegiati" inseriti nella lista per ricevere la cura è arrivato a bussare alla porta e non gli hanno dato le sue medicine, chi e che cosa c’é dietro a questa mancanza di umanità, di etica, di tutto? Perché il Ministero non dice niente ? Perché nessuno si scandalizza? Di che cosa abbiamo paura?

Ana alla fine mi dice in confidenza che a lei quello che più fa male non è la malattia, bensì l’essere rimasta fedele a una persona per tutta la vita (il suo defunto marito) ed essersi poi accorta che l’aveva ingannata e che inoltre le aveva trasmesso una malattia, un’eredità che le ha cambiato la vita.
Ad Ana quello che più fa male è sentirsi tradita.

"Se l’avessi saputo un minuto prima di stare con lui...", mi dice quasi senza voce.
A molti pazienti, non solo con l’AIDS ma anche con altre malattie croniche, può succedere la stessa cosa.

Quello che più fa male è sapere che in una negoziazione commerciale (il Cafta) hanno negoziato la salute di tutti per avvantaggiare le imprese farmaceutiche nordamericane, e che tutto questo non potrà nemmeno essere rivisto.
Non è una questione di Cafta sì o Cafta no, ma di non accettare punti inaccettabili.
Forzare il Nicaragua ad accettare un "o tutto o niente", non è giusto, non è giusto per niente.

Ed al Nicaragua quello che più farà male non saranno le malattie (benché la causa di molte morti non sono le malattie, bensì la mancanza di medicine per ragioni politiche). Quello che più farà male è il sentirsi traditi.
Se almeno chi siede sulle comode poltrone della Asamblea Nacional sapesse di questo dolore un minuto prima di votare per il Cafta...