Home > Violenza e non violenza

Violenza e non violenza

Publie le martedì 27 settembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Movimenti Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

E devo dire che sono indignato quando si apre un dibattito come quello su violenza e non violenza, con Revelli, che fa delle osservazioni interessanti ma ha un blocco per cui dice che effettivamente bisogna mettere in discussione tutto l’impianto e le mistiche del ‘900 del cominternismo* ma, siccome non vuole prendere in considerazione altro, gli trema la terra sotto i piedi se gli manca un mito rivoluzionario. Poi Bertinotti, Ingrao. Sì uno potrà dire: magari Bertinotti lo fa nel momento sbagliato proprio quando vuole andare al governo, lo fa addirittura per quello, ma in qualche modo esprimono una ricerca attorno a questi temi. A me sembrano deludenti le risposte come se niente fosse successo.

Edoarda Masi riesce nello stesso articolo a fare del negazionismo sui milioni di morti della rivoluzione culturale e poi a scatenarsi contro le Br. Poi c’è quello che fa marxismo dalla cattedra come Burgio e ritira fuori questa specie di giaculatoria mentre è impensabile il discorso della non violenza. Non si può nemmeno pensare che ci possa essere una rivoluzionarietà con tutti gli attributi a posto e quindi la violenza è necessaria, sì, la violenza differita e come no. poi però la risultante è che sia illegalitaria. Loro non sono forcaioli ma legalitari, su un piano di immanenza. Oggi non si fa credito domani sì, ma poi non si fa nemmeno il disordine che la non violenza attiva può fare. Tutto questo poi lascia spazio a cose molto più gravi.

Nicola Tranfaglia riesce a scrivere sul Corriere della sera in dieci righe: no, no garantisco io nell’Ulivo non ci sono più nostalgici del comunismo,[intende per comunismo quello del gulag e per ribadire dice] nemmeno Cossutta, ma quando mai? Invece, semmai, Bertinotti! Bertinotti, capite? Che non è stato mai comunista, semmai luxemburghiano. E poi, aggiunge Tranfaglia, perché lui ancora chiacchiera di Marx e della lotta di classe, il gulag va ricondotto a Marx, Stalin e le foibe non si devono toccare, e quindi, lo porto come esempio, garantisco io per Cossutta, ma attenti a Bertinotti! A questo punto viene fuori la pista.

Io penso ed enuncio solo i titoli, che se vogliamo discutere di teoria partiamo da ciò e vediamo le matrici. Quando arrivo alla polpa, alle cose che non si dicono per pudore fino a giungere al limite del crimine prima intellettuale che etico di rinfoderare o inibire la critica perché chi parla pubblicamente è della tua famiglia, della tua tavolata, mi trovo costretto a lanciare un appello: mi volete sentire e dare una risposta? Giunto al punto estremo dell’ambivalenza dello sciopero della fame, devo dire che non posso che rifarlo e lo rifarei, ma bisogna anche guardare al brutto. Sono due o tre le cose che devo dire per quelli - e sono miliardi - che la fame non la scelgono ma la patiscono.

Così come a quelli, reali o immaginari, passati o presenti, che invece nello sciopero hanno messo in gioco i loro corpi. C’è un bellissimo canto di lotta del primo movimento operaio, Batton l’otto, che racconta la storia dello sciopero delle acciaierie di Terni, all’inizio del secolo scorso. E allora sì, la risposta allo sciopero era la serrata. E per resistere un minuto di più si decise di mandare i bambini presso le famiglie operaie del Nord. Cinquant’anni dopo le mondariso cantavano con orgoglio: coi nostri corpi sulle rotaie abbiam fermato il nostro sfruttatore. C’è del grandioso nell’atto di non erogare forza lavoro, il buttar via, fosse anche per un attimo, il destino operaio, simile a quello della prostituta che affitta il suo corpo a ore (lo affitta, non lo vende: quella è la schiavitù)...

Lo sciopero è anche un momento di festa, un tornare uomini e donne nel black out del funzionamento sociale, come nella Comune raccontata da Henry Lefevbre, come nella testimonianza della dipendente del McDonald di Parigi che davanti alla telecamera confida: ci siamo affezionati allo sciopero. Il picchetto e l’occupazione si ripeterà sempre nella sua ambivalenza: come autonegazione di una condizione di minorità, come prefigurazione della comunità umana possibile.

Lo sciopero della fame è al tempo stesso più povero e più lussuoso. Niente è perfetto, ma c’è potenza dispiegata nel suo “vorrei ma non posso”. Come nella rapina. L’atto di sottrarre la quintessenza della merce, il traduttore universale, la merce chiave della merce, liberandolo dallo spazio coatto in cui è detenuto, tra sbarre, portelloni di acciaio e guardioni armati, per me resta sempre un gesto di altissima moralità. Meglio ovviamente quando attinge la sfera della purezza: nell’esercizio della falsificazione o, nella sfera virtuale ma strapotente della circolazione immateriale, nella forma dell’hackeraggio. La pistola puntata sulla vecchietta che ritira la pensione,sull’impiegato o fosse anche sul panzone armato - fosse anche di una scacciacani - allude anch’esso a qualcosa di brutto: ma nulla è perfetto.

Il congresso di Baku

E allora si torna a Baku, al congresso dell’Internazionale negli anni ’20 in cui ci fu l’apertura tatticamente geniale in cui si coopta Kemal Atatürk, quello che in fondo era un protofascista nel senso del modernismo fascista, il modernizzatore laico della Turchia, tra il giacobinismo che evolve passando per Bonaparte e quello dove arriva. Bakù è il momento in cui il Komintern gioca questa carta, come tattica la potresti anche capire, come si potrebbe perfino capire il socialismo in un paese solo, o arrivare a quelle parole d’ordine là, ma la cosa più abietta è nella scena chiave che Koestler racconta in Buio a mezzogiorno. Il dialogo in cui Rubaciov è protagonista e che ricorda in flash back quando sta lui alla Lubianka.

Il vecchio commissario politico bolscevico era andato a notificare al giovane clandestino del partito comunista tedesco di Amburgo che viveva nascosto facendo il proiezionista come in Nuovo cinema paradiso, l’espulsione dal partito perché non si era riconvertito rapidamente e non era stato d’accordo con il fatto che da un giorno all’altro bisognava diventare crumiri, passare dall’essere i più coraggiosi nel boicottaggio a rompere lo sciopero perché era stato firmato il patto Molotov-Ribbentrop. Il fatto si potrebbe ancora capire, ma di colpo chi era turbato, diventava sospetto, traditore.

Terracini se l’è cavata per il rotto della cuffia, ma Valiani racconta che da un giorno all’altro tremila comunisti di Ventotene gli tolsero il saluto, e non è che erano cattivi, erano manipolati, una mostruosità contro sé stessi innanzitutto. Così settant’anni dopo si recupera Bakù, potrebbe andare come tattica ma diventa un’etica, Zinoiev che leva la spada e dice che l’Islam è rivoluzionario intrinsecamente, sono cose che durano da allora.

http://orestescalzone.over-blog.com/article-878533.html