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Il piacere della solidarietà

Publie le domenica 2 ottobre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Manifestazioni-azioni Movimenti Storia Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

Sbagliano quanti pensano che io, con il mio atto estremo, li richiami a un dovere omesso. La mia è semplicemente una richiesta di solidarietà. Una pratica sempre più spesso obsoleta. Ma anche una richiesta che nella dilagante catastrofe dell’umano sempre più spesso si fa mortifera: come l’ammalato di Aids che contagia la fidanzata per essere insieme fino alla fine (ma a volte succede il contrario: ed è la vittima che sceglie l’abbraccio mortale). E alla fine, in determinate condizioni, tutto ti ammazza. Anche i fiocchi di neve (se l’Armata si ritira a piedi nell’inverno russo...).

Sì, la gente ha perso il piacere della solidarietà, non conosce più la gioia dello sguardo scintillante della proletaria di Montreuil. Penso ai miei amici e compagni dell’isola di Oleron, che gestiscono un asilo anarchico. Li hanno sbattuti in galera perché avevano accettato i bambini di militanti baschi ricercati: e loro ci sono andati sorridendo. Che soddisfazione, vivendosi questa storia senza aura di martirio, perché la solidarietà non è un dovere o un sacrificio ma un’anticipazione dell’ambita comunità umana possibile.

Nella perversione dei sensi e dell’intelligenza succede anche il contrario: che il “beneficato” ti vampirizzi, anzi addirittura ti impedisca di esercitare questo piacere. Ve lo immaginate Cohn-Bendit che si incazza davanti ai trentamila che nel Maggio francese sfilano gridando “Siamo tutti ebrei tedeschi”? Non mi risulta che, quando Cristiano X, re di Danimarca, si appunta sul pastrano la stella gialla per solidarizzare con i suoi sudditi minacciati dagli occupanti nazisti, ce ne sia stato uno solo che l’abbia apostrofato: “Come ti permetti, tu non sei ebreo!” *. Almeno Totò, mancato suicida, ha permesso a Cervi di salvarlo prima di dargli il tormento dovuto ai benefattori...

Io lo conosco bene il loro dispositivo. Si sentono colpevoli perché non ci hanno pensato loro a farlo. Ma mica gli passa per la testa che ce ne sono tante altre di cose da fare. O, al minimo, strumentalizzarla: tranquilli, non mi offendo. Per me questa cosa vale in quanto tale, è solo una grandezzata. Ho testimoniato abbondantemente in un ampio arco della mia vita che non me ne è mai fottuto niente della conferma del successo pubblico. A me è sempre bastato il riconoscimento dei pari, la mia costellazione segreta. Be’, su quello, lo ammetto, ci tengo, fino a peccare (venalmente) di settarismo. Ma qui si tratta di scontrarsi con i rischi dell’altrovismo.

La generazione del ’68 soffre manifestamente della sindrome da suicidio delle balene.

Certo, è una generazione cresciuta in nome del paradosso. Del vietato vietare, del realismo di chiedere l’impossibile, dell’abbasso il lavoro. Paradossi che poi si sono arrovesciati nella prassi. E così il valore del lavoro si è trasmutato dal marxiano valore di scambio della merce forza lavoro in un principio etico. Al cui capolinea c’è l’epigrafe di Auschwitz, l’Arbeit match frei. O alla sua banalizzazione populista del chi non lavora non mangia. Così il nostro Vogliamo tutto. Alludeva alla riappropriazione, all’autonomia possibile non all’unità dei contrari, vogliamo tutto e il contrario di tutto. Pretese che superano la soglia dell’abiezione. Pensate allo stato maggiore della dissociazione lottarmatista. Una gara tra giganti del maleficio. Difficile, veramente difficile stabilire chi è il peggiore.

Antisemitismo e vittimismo

Ci sono alcune cose che per me sono abbastanza evidenti. Sono convinto che è vera la frase di Tronti prima la classe operaia poi il capitale, quelle cose dense ed enigmatiche. Tanto vale se a uno lì per lì gli sembra una bizzarria prenderla così e ripensarci. Così sono convinto che l’espressione di Sartre nella Questione ebraica è folgorante: l’antisemitismo viene prima dell’ebreo. E’ più universale, consustanziale tra nature, culture, storia, è già bisogno per ognuno di avere il suo Caino personale per sentirsi Abele, da stramaledire o persino da perdonare. E’ il rito antico - come dice Guagliardo - del capro espiatorio, così come la figura del totem, dello zimbello, l’uccello sacro, e tutto questo fondo istintuale messo in forma. Una volta che si può - come dice Severino - parlare dell’olos, dell’essere parmenideo, ma siccome Parmenide aveva un nome, si chiamava Parmenide, anzi lo chiamavano, ormai la cosa era tutta già fatta, ci si era già gettati fuori dall’olos mare calmo. Se davvero fosse così nel nirvana zen del tutto/nulla evidentemente non verrebbe messo in forma e scritto, se lo scrivi, la nostalgia è solo così. È già tutto successo, ormai è fatta.

Quando sento che serpeggia l’idea di popolo classe e trasuda perfino dalle vignette di un Vauro, da battute che leggo, che sento nelle compagnerie, così diffuso e ridiffuso, sono le matrici. La storia dell’antisemitismo è lunga, ma è proprio il capro espiatorio. C’è l’uso del divide et impera, il pogrom come diversivo, la guerra tra i poveri, e l’imbestialirsi di quelli che la vivono. Io stesso ho visto all’opera questo meccanismo in tante situazioni: noi, le BR, il complotto, mani pulite.