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Bush, impeachment dietro l’angolo

Publie le domenica 23 ottobre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Governi USA

Stati Uniti. Bush in caduta libera. Gli scandali nel partito repubblicano e nell’Amministrazione si susseguono. La maggioranza è a rischio

di Stefano Rizzo

Era prevedibile (e l’abbiamo previsto) che quando le acque del lago Pontchartrain si fossero ritirate avrebbero lasciato un mare di fango e detriti. Reali e metaforici. Da allora sono iniziati i guai per l’amministrazione Bush, o meglio ai guai già in corso si sono aggiunti dei nuovi creando una massa critica che ha spazzato via la popolarità del presidente.

Non passa giorno che non arrivino notizie di nuovi scandali e di nuovi fallimenti.

Il capogruppo della camera DeLay arrestato, il capogruppo del senato Frist inquisito, consiglieri e capi di gabinetto in procinto di esserlo, la candidatura alla corte suprema della modesta signora Miers che sprofonda nel ridicolo ancora prima che inizino le audizioni ufficiali. Mercoledì si parlava perfino di possibili dimissioni del vicepresidente Cheney, che potrebbe essere incriminato dal procuratore Fitzgerald nell’affare Cia-Gate.

Si ha l’impressione che stia crollando tutto un sistema di potere, che si sia di fronte alla fine di un regime. Da un lato la manifesta incompetenza, superficialità e clientelismo del governo; dall’altro gli scandali che coinvolgono tutto il gruppo dirigente del partito repubblicano; nel mezzo i grandi elemosinieri della finanza e dell’economia finiti in carcere o sotto inchiesta per una impressionante serie di bancarotte fraudolente. A guardare, sempre più allarmato e disgustato, è l’elettorato di destra, religioso e conservatore, che aveva sperato che con la vittoria di novembre avrebbe potuto finalmente realizzare il proprio progetto di “moralizzazione” della vita politica e di “cristianizzazione” della società. Sono infatti gli stessi repubblicani in questo momento i critici più decisi della politica dell’amministrazione, mentre i democratici e i liberal ancora stentano a trovare la misura per una chiara battaglia politica.

E veniamo all’oggi, all’ultima mazzata assestata al governo Bush. Viene da un fidato collaboratore di Colin Powell, Lawrence Wilkinson, che è stato suo capo di gabinetto quando era ministro degli esteri (2001-2004) e ancora prima quando era capo di stato maggiore delle forze armate.

In una lunga conferenza tenuta giovedì alla New American Foundations di Washington Wilkinson lancia un durissimo attacco al governo e in particolare a quella che chiama la “cricca” Cheney-Rumsfeld. Lo stesso Powell aveva in passato detto di essere stato “ingannato” sull’esistenza in Iraq di armi di distruzione di massa (ricordate la sua famosa “presentazione” alle Nazioni Unite del febbraio 2003 prima che partisse la guerra?). Ma Wilkinson va molto più in là e ne ha per tutti.

Per Condoleezza Rice innanzitutto, in quegli anni consigliere per la sicurezza nazionale, più interessata - secondo lui - a coltivare il proprio rapporto privilegiato con il presidente che a alla collegialità dei processi decisionali. (Del resto fu questa la principale critica che le rivolse il suo vice Richard Clarke, che per questo fu cacciato dall’incarico di responsabile dell’antiterrorismo). Per Dick Cheney e Donald Rumsfeld, da lui definiti la “cricca dell’ufficio ovale” (lo studio del presidente), per i loro rapporti di interesse con il mondo finanziario, dei petrolieri e dei fornitori di armi, e che da soli decidono la politica estera del governo facendola poi approvare ad un distratto e disinteressato Bush.

Le parole che Wilkinson dedica al presidente sono devastanti e costituiscono un feroce ritratto della pochezza dell’uomo: “C’era una sorta di collegialità tra il ministro della difesa e il vicepresidente; e poi c’era questo presidente che non solo non aveva nessuna conoscenza degli affari internazionali, ma non gli interessavano neppure". Mettete questa dichiarazione a fianco di ciò che Richard Clarke ha raccontato di un incontro con il presidente il 12 settembre. Bush: “E’ stato l’Iraq, vero?” Clarke: “Ma, veramente, signor presidente, non credo.” Bush: “Guardate meglio, secondo me c’è quel Saddam sotto.” Così è stata decisa una guerra, sono stati distrutti due paesi e sono stati mandati a morire migliaia di americani e decine di migliaia di iracheni.

Ma non solo la guerra. E’ tutta la politica estera americana che viene messa sotto accusa - si badi bene, non da un liberal, un uomo di sinistra, ma da un ufficiale dell’esercito che per 16 anni ha lavorato nelle stanze del potere, ha collaborato strettamente con Powell e con Bush padre e anche con Dick Cheney quando era ministro della difesa. Nei confronti di Condoleezza Rice ministro degli esteri, Wilkinson ha parole di cauto apprezzamento per la maggiore flessibilità e autonomia della sua azione rispetto a quando doveva (soltanto) compiacere il presidente. Ma poi si domanda: “perché abbiamo aspettato tre anni per iniziare a trattare direttamente con la Corea del Nord, e quattro anni per sostenere l’iniziativa europea nei confronti dell’Iran?”

La sortita di Wilkinson va letta anche in controluce come espressione delle opinioni del suo ex capo. Powell, da quando ha lasciato il ministero degli esteri non ha rilasciato dichiarazioni; si è limitato soltanto a dire (da ultimo in un’intervista alla televisione all’inizio di settembre) che se avesse saputo come stavano le cose non avrebbe fatto quelle dichiarazioni alle Nazioni Unite, e che “si duole profondamente” di essere stato ingannato.

Ma con Powell è tutto l’establishment militare che non ne può più della politica dissennata della “cricca dell’ufficio ovale”, della pratica delle torture che infangano l’esercito e mettono a rischio inutilmente gli uomini, di una guerra senza obbiettivi e senza fine che macina morti senza scopo e senza alcun apparente interesse nazionale.

E’ anche una larga parte dell’establishment politico repubblicano che non ne può più degli scandali, dei favoritismi, dell’incapacità amministrativa. Alle prossime elezioni di fine 2006 i repubblicani che pensavano di cavalcare l’onda di una presidenza imperiale e trionfante, dovranno cercare di farsi rieleggere “nonostante” quella presidenza, che ha raggiunto indici di preferenza bassi come non mai e che può solo danneggiarli.

A un anno dalla sua rielezione Bush è già un’anatra zoppa. E’ certo che accumulerà altre sconfitte nei prossimi mesi; probabilmente la sua scelta per la corte suprema nella persona della signora Miers non verrà confermata, per manifesta incapacità. Ma il peggio verrà se con le prossime elezioni perderà anche la maggioranza del congresso; allora potrà dire addio al suo programma e ritirarsi nel suo ranch in Texas per il resto del mandato.

E’ difficile immaginare che il mondo economico e politico accetti o possa accettare una situazione simile di paralisi. In un sistema presidenziale in cui i presidenti non possono essere sfiduciati c’è una sola via di uscita: le dimissioni volontarie e forzate sotto minaccia dell’impeachment. E’ questo lo spettro che a partire dall’anno nuovo renderà ancor meno tranquilli i sogni di George W. Bush.

http://www.aprileonline.info/articolo.asp?ID=6774&numero=’34’