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Un anno fa si spegneva a Parigi Yasser Arafat

Publie le venerdì 11 novembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Storia medio-oriente

di Maurizio Debanne

Un anno fa moriva a Parigi Yasser Arafat. Con la sua scomparsa si chiuse un capitolo del conflitto israelo-palestinese-arabo iniziato 40 anni prima quando Abu Ammar prese sulle spalle la lotta del popolo palestinese per l’indipendenza. Terrorista per gli israeliani, eroe e simbolo di un popolo senza terra, la scomparsa di Arafat ha significato per i primi un punto di svolta per il processo di pace in Medio Oriente, per i secondi la perdita del padre di una patria mai realizzata. Confinato per tre anni dal nemico israeliano nel quartier generale di Ramallah, Yasser Arafat ne è uscito soltanto gravemente ammalato per essere trasferito all’opedale di Percy in Francia: le immagini che lo mostrano salire sull’elicottero sono le ultime del leader palestinese da vivo, le prime senza l’inseparabile kefiah, sostituita da un berretto di lana.

Ma Mr. Palestine era riuscito fino all’ultimo a non farsi congedare dalla Storia. Nessun passo verso una risoluzione del conflitto era possibile senza il suo intervento, qualsiasi altra carica politica palestinese non poteva prescindere dalla sua volontà. Era il leader della questione palestinese per la sua capacità di rivolgere l’attenzione del mondo verso i sentimenti di un popolo e di una nazione dai contorni indefiniti; negli anni ha mostrato al mondo le sue personalità, mai uguale a se stesso e per questo ritenuto assolutamente inaffidabile dagli israeliani e dopo il fallimento di Camp David dagli americani.

I palestinesi ricorderanno il loro presidente con manifestazioni promosse dall’Anp nelle città della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e con le dirette tv delle emittenti palestinesi anche se dopo gli attentati terroristici di mercoledì ad Amman nessuno è dell’umore di festeggiare, è la rabbia il sentimento prevalente. Arafat riposa sotto una semplice lastra di pietra nel quartier generale della Muqata. Per gli ospiti stranieri dell’Anp si tratta quasi di una sosta obbligata ed è ora in progetto la costruzione di un grande mausoleo, affiancato da un museo e da una moschea che servirà anche da centro congressi.

La vita

Arafat era un enigma. Ad alimentare questa ambiguità non sono solo le contraddizioni delle sue decisioni politiche ma anche le ombre che volutamente avvolgono momenti della sua vita vissuta. La sua biografia è ricca di inspiegabili incertezze da lui stesso alimentate. A lungo incerto è stato, ad esempio, il luogo in cui nacque. La sua vita inizia il 24 agosto del 1929 in Egitto, come fonti attendibili testimoniano, ma Arafat stesso in diverse interviste ha voluto far credere di esser nato in Palestina.

D’altra parte poche sono le informazioni riguardo la sua infanzia. Con i genitori non ha avuto un legame particolarmente forte. La mamma, Zahawa Abu Saud, originaria di Gerusalemme e membro di un’importante famiglia della città, muore di una malattia renale quando lui aveva solo cinque anni. Yasser e il fratello minore Fathi, vengono mandati da una zia materna a Gerusalemme. Torneranno al Cairo dopo quattro anni, in occasione delle seconde nozze del padre, e di loro si occuperà la sorella maggiore, Ina’am. Il padre, Abdel Raouf Arafat al-Qudwa al-Husseini, nato a Gaza, era mercante di stoffe. Quando morì, nel 1952, Arafat non partecipò al suo funerale.

La sua vita scolastica procedette regolarmente fino al primo anno di università. Si iscrisse alla facoltà di ingegneria nel 1947 ma abbandonò gli studi ad aprile per combattere come volontario contro Israele. L’interesse per la questione palestinese nacque dai suoi incontri con la leadership degli arabi di Palestina che, costretta all’esilio, si raccoglieva intorno al muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini stabilitosi al Cairo nel 1946.

L’esperienza in Palestina segnò Yasser che rimane profondamente deluso dal comportamento dei paesi arabi: il loro rifiuto del metodo della guerriglia porta alla confisca delle armi dei soldati irregolari e al divieto per loro di combattere. Il ritorno al Cairo segna dunque un momento di amarezza per Arafat dal quale però non viene travolto. Si iscrive nuovamente all’università dedicandosi contemporaneamente all’attività politica, alla quale partecipa come rappresentante degli studenti palestinesi in Egitto e poi come presidente dell’associazione studentesca al Cairo.

Laureatosi nel 1957 si trasferisce per lavoro in Kuwait. Anche qui si creano gli spazi e le opportunità per impegnarsi attivamente per la causa palestinese. Con un gruppo di amici fondò una rivista, Filastuna, Amici della Palestina, e al-Fatah, un’organizzazione segreta, con lo scopo di diffondere il sentimento nazionale palestinese e incitare alla lotta, anche armata, per realizzare il proprio risorgimento.

La fondazione dell’Organizzazione per la liberazione della Plaestina

Gli anni sessanta furono gli anni della svolta. Il panarabismo sembrava non avere sbocchi e molti si rivolsero verso il gruppo di Arafat, Al Fatah, costituito nel 1959, unica alternativa per sperare in un futuro per la Palestina. Nel 1964, per iniziativa di Siria ed Egitto, venne fondata l’ Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), ma al-Fatah continuò per la sua strada: Arafat lasciò il Kuwait per dedicarsi completamente alla lotta contro Israele. L’OLP non prese subito piede e nel ’65 si inaugurò la lunga stagione del terrorismo con un ordigno vicino un acquedotto israeliano, mai esploso.

Il vero successo arrivò dopo la guerra dei Sei Giorni (1967), in cui Arafat si espose particolarmente, tanto da essere ufficialmente riconosciuto leader della lotta palestinese. Nel ’68 Arafat divenne il presidente dell’OLP. L’intraprendenza con la quale guidò l’organizzazione non soddisfò re Hussein di Giordania, che vide crescere nel suo stato un movimento nazionale indipendente e pericoloso per i metodi violenti con cui si muoveva. L’OLP fu così costretta, sotto il fuoco dell’esercito giordano,ad abbandonare nel ‘71 la Giordania per trovare asilo prima in Libano e poi, a seguito dell’invasione israeliana del paese dei cedri nel 1983, a Tunisi.

Questo è un periodo difficile per Arafat: lontano dalla terra per cui lotta sembrava perdere il completo controllo della situazione, incalzato sempre più dall’opposizione interna. A rafforzare le sorti del leader fu la sua capacità di approfittare delle rivolte anti-israeliane che scoppiarono nel 1987 in Cisgiordania e a Gaza (prima Intifada). Ma il 1988 segnò un momento di svolta nella politica di Arafat, propenso ora ad accogliere le decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e a non sostenere più metodi terroristici, dichiarò il desiderio di una convivenza pacifica per i paesi del Medio Oriente.

Gli Accordi di Oslo

Questi primi spiragli di speranza si materializzano nel 1993 con i negoziati segreti di Oslo che portarono alla firma dell’Accordo dei Principi per la pace e al reciproco riconoscimento di Israele e l’OLP, che valse il premio nobel ai protagonisti di questa decisione storica: Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat. Gli anni Novanta li spese tentando di dare concreta attuazione a questi accordi che sanciscono il ritorno di Arafat nei territori palestinesi dopo 27 anni di esilio e istituiscono l’Autorità palestinese (governo autonomo) di cui viene eletto Presidente.

Camp David: un vertice fallito per Gerusalemme

Nel 2000 il fallimento del summit di Camp David, fortemente sostenuto dal presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, portò a tutto tranne che a portare avanti gli accordi presi ad Oslo. I tempi di convocazione del vertice non si dimostrarono maturi . L’approccio differente delle due delegazioni, e dei due leaders in particolare, non agevolò i colloqui. Mentre gli israeliani volevano procedere punto per punto, i palestinesi, ancor prima di negoziare, avrebbero voluto vedersi riconoscere dalla controparte la piena sovranità su Gerusalemme Est. Arafat insisteva che bisognasse rispettare la legalità internazionale ai sensi della quale Gerusalemme Est, comprensiva della Città Vecchia, è intesa come territorio occupato. Barak, infrangendo un vecchio e consolidato tabù israeliano, accettò la divisione della città santa ma era disposto a concedere la piena sovranità palestinese solamente per i quartieri situati a nord-est e sud-est di Gerusalemme permettendo così ai palestinesi di costituire nel villaggio di Abu Dis la capitale del loro futuro Stato. Nel tentativo di trovare una sintesi tra le due richieste, gli americani formularono “soluzioni creative” che non riuscirono però ad appianare le divergenze.

La seconda Intifada

Si concludevano così i colloqui e i tentativi di pace e si aprirono le porte alla seconda intifada che esplose il 28 settembre del 2000. Fu originata dalla visita provocatoria del leader del Likud, Ariel Sharon, alla Spianata delle moschee accompagnato da circa 1.000 poliziotti e uomini della sicurezza. La visita al Monte del Tempio intendeva suffragare la sovranità israeliana sul luogo sacro, oggetto di un interminabile contesa. In soli due giorni di scontri tra i palestinesi, non più armati di soli sassi come nella prima intifada, e le forze di sicurezza israeliane morirono decine di persone.
Malgrado il perpetuarsi delle violenze i negoziati continuarono faticosamente ad andare avanti tra l’ottobre 2000 e il gennaio 2001. Il 16 e il 17 ottobre, a Sharm el- Sheikh, venne convocato un vertice al quale presero parte, oltre alle delegazioni israeliana e palestinese, il presidente degli Stati Uniti Clinton, il re giordano Abdallah, il presidente egiziano Mubarak e il segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan. Barak e Arafat, pur non firmando alcun accordo, si impegnarono a far cessare gli scontri e accettarono l’invio di una missione americana, guidata dall’ex senatore Mitchell, che avrebbe indagato sugli eventi dell’intifada.

Alla Knesset intanto, il 27 novembre del 2000, passò a maggioranza schiacciante (84 voti contro 19) una legge di rango costituzionale che impedisce ogni cessione di sovranità sulla parte orientale di Gerusalemme . La legge non fu però da ostacolo al rilancio delle iniziative di pace, il tabù sciolto da Barak a Camp David rimaneva valido.

Le proposte di Clinton

Il 23 dicembre Clinton, il cui mandato sarebbe scaduto il 20 gennaio 2001, convocò le parti alla Casa Bianca per annunciare le sue nuove proposte per una risoluzione del conflitto . Il Piano prevedeva la cessione del 94-96% della Cisgiordania alla sovranità palestinese e l’evacuazione della maggior parte degli insediamenti israeliani. Il territorio annesso da Israele sarebbe dovuto essere compensato da uno scambio di terre in ragione dell’1-3%. Una forza internazionale, con una presenza militare israeliana per un periodo tra i tre e i sei anni, sarebbe stata dispiegata lungo la valle del Giordano. Per quanto riguarda Gerusalemme, il principio generale era una spartizione in base a criteri etnici: le zone arabe sotto la sovranità dei palestinesi, quelle ebraiche sotto la sovranità israeliana. Questo principio sarebbe valso anche per la Città Vecchia. Per la Spianata delle moschee/Monte del Tempio il presidente americano suggerì la seguente spartizione: sovranità palestinese sull’al-haram ash-Sharif e sovranità israeliana sul Muro del Pianto e sulla zona del Santo dei Santi, ossia l’area tra le due moschee.

Di ritorno a Tel Aviv la delegazione israeliana era entusiasta e certa che l’accordo fosse imminente. Barak decise di accettare il Piano Clinton come base per le trattative ma volle che Arafat facesse altrettanto. Da Gaza il presidente palestinese rispose a Clinton con una lettera nella quale chiedeva maggiori garanzie e spiegazioni sulle sue proposte: “Ho bisogno di risposte chiare per un certo numero di domande riguardanti la percentuale di territori che sarebbero annessi e scambiati, la loro esatta localizzazione, la precisa demarcazione del Muro del Pianto, i suoi confini e la sua estensione, le conseguenze che ciò avrebbe per il principio di sovranità palestinese completa sull’al-haram ash-Sharif.

Vertice di Taba del 2001 e la vittoria di Sharon

Con la mediazione egiziana partirono subito dei colloqui preparatori che portarono ai negoziati di Taba, iniziati il 21 gennaio 2001 e conclusisi il 27 dello stesso mese. Le trattative questa volta non si arenarono sul destino di Gerusalemme, come a Camp David, ma sul problema dei rifugiati palestinesi. I colloqui terminarono con una dichiarazione congiunta in cui si ammetteva di non essere giunti a un accordo ma al contempo Abu Ala e Ben Ami affermarono che comunque “erano stati fatti significativi passi in avanti e che l’accordo non era mai stato così vicino”. Il giorno successivo, il 28 gennaio, Barak decise di interrompere i colloqui con i palestinesi e di dedicare le settimane rimanenti alla sua campagna elettorale, il processo di pace era sospeso a tempo indeterminato. Con la vittoria schiacciante di Sharon, la più netta nella storia democratica di Israele - 62,4% dei voti contro il 37%,6% di Barak, anche se votarono solo il 59,1% degli aventi diritto - , e con la progressiva perdita di autorevolezza di Arafat, il treno della pace aveva finito le stazioni a disposizione.

L’inizio di una nuova Intifada affossa ogni tentativo di pace e scredita Arafat agli occhi di Israele e degli Stati Uniti, pronti ad accusarlo di non prendere posizioni risolutive contro gli attacchi terroristici di cui la popolazione israeliana è vittima. Dal 2001 la rappresaglia israeliana lo ha costretto nel suo quartier generale a Ramallah. Nel 2003, sotto le pressioni degli Stati Uniti, tenta i primi passi per avviare la road map e nomina primo ministro Abu Mazen, che si dimetterà dopo solo 6 mesi per i contrasti con Arafat, non disposto a rinunciare al suo potere e alla sua leadership. Arafat nomina allora Abu Ala.

Gli sviluppi della storia hanno dovuto a questo punto fare a meno del vecchio rais che l’11 novembre del 2004 muore non inaspettatamente, da tempo era malato, ma misteriosamente in un ospedale militare francese vicino Parigi.

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