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La fine del New York Times, un mito nei guai dall’Iraq alle intercettazioni

Publie le martedì 3 gennaio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Stampa

La fine del New York Times - Dopo le rivelazioni sullo scoop ritardato per non mettere Bush in difficoltà una nuova crisi di credibilità.

New York Times, un mito nei guai dall’Iraq alle intercettazioni

da L’Unita’

Prima o poi tutti i miti crollano. Il New York Times si dibatte per evitare la fine del suo primo modello, il Times di Londra. Nei tempi d’oro dell’impero britannico il London Times era chiamato «il tonante». Scagliava i suoi fulmini di volta in volta contro governo e opposizione.

Oggi è uno dei tanti quotidiani di Rupert Murdoch, il magnate australiano dell’editoria, e spesso propone ai lettori lo stesso menu della stampa popolare: sesso, violenza, storie piccanti sulla famiglia reale.

Il New York Times ha creato un problema al presidente George Bush quando il 16 dicembre ha rivelato che i servizi segreti intercettano le comunicazioni dei cittadini americani, ma si è attirato nuove critiche quando ha ammesso di avere ritardato la rivelazione di un anno.

Cosa succede nel più importante giornale americano? Il New York Times è una corazzata a prova di siluri, ma il comandante sembra incerto sulla rotta. Arthur Sulzberger Junior, ultimo rampollo di una dinastia di editori, ha virato bruscamente a sinistra, ma nei momenti decisivi ha spostato la barra a destra sotto la pressione congiunta del governo e di potenti gruppi di interesse. Voleva che tra gli inviati speciali ci fosse un nero, e ha assistito alla resistibile ascesa di Jayson Blair, che portava in redazione notizie false quanto le ricevute delle sue note spese.

Si è opposto all’invasione dell’Iraq, ma ha lasciato che la giornalista Judith Miller diventasse il megafono di una campagna di disinformazione sull’esistenza di armi di sterminio.
Il New York Times ha 1200 giornalisti, 16 redazioni nella principale zona di diffusione intorno a New York, 11 nel resto degli Stati Uniti e 26 all’estero.

Vende 1,2 milioni di copie al giorno, con punte di 1,6 la domenica. Nell’ultimo anno la diffusione è leggermente diminuita e la pubblicità è aumentata meno del previsto. I profitti sono più esigui. A fine anno gli azionisti hanno ricevuto un dividendo di 11 centesimi di dollaro per azione, invece dei 33 centesimi del 2004. Nel corso del 2005 l’editore ha sborsato 12 milioni di dollari in buone uscite per eliminare 200 posti di lavoro.

In settembre ha annunciato altri 500 esuberi, tra cui 45 giornalisti della testata principale e 35 del Boston Globe, il secondo quotidiano del gruppo.

L’11 settembre 2001 ha segnato una svolta nella storia degli Stati Uniti e del loro giornale più prestigioso. Il New York Times ha ricevuto 7 premi Pulitzer, il numero più alto di tutti i tempi, per i suoi servizi sull’attacco di Osama Bin Laden e sulla risposta di George Bush. Nello stesso tempo ha perso lettori nella comunità ebraica, che lo aveva sostenuto per anni. Decine di migliaia di ebrei hanno disdetto l’abbonamento quando è stata pubblicata in prima pagina una foto dei dimostranti palestinesi che contestavano la marcia di solidarietà con Israele nel 2002.

Alcuni articolisti prestigiosi, come Christopher Hitchens, hanno inviato lettere di protesta al direttore per le cronache dall’Iraq, in cui gli autori di attentati contro gli americani vengono definiti «insorti» invece che «terroristi». Per sottolineare il proprio dissenso l’editorialista Thomas Friedman usa sistematicamente il termine «terroristi islamici».

In questo ambiente avvelenato è scoppiato nel 2003 lo scandalo dei falsi scoop di Jayson Blair. Il direttore «sovversivo», Howell Raines, è stato forzato alle dimissioni, insieme con il capo redattore centrale Gerald Boyd. La correzione di rotta sull’Iraq è stata graduale ma inesorabile. Nel 2004 il consiglio di amministrazione ha nominato un garante, Daniel Okrent, sostituito dopo 18 mesi da Byron Calame.

La pagella compilata a fine anno è stata prevedibilmente severa. Okrent ha concluso che il New York Times era sbilanciato a sinistra su argomenti come il matrimonio gay, mentre le corrispondenze dall’Iraq erano «insufficientemente critiche nei confronti dell’amministrazione Bush». Era il minimo che potesse dire. Il 16 maggio 2004, il giornale si era scusato con i lettori per aver pubblicato «notizie fuorvianti» sull’esistenza di armi di sterminio in Iraq. Secondo l’espressione del garante «alcuni articoli sostenevano le tesi del Pentagono in modo così aggressivo che quasi si vedevano spuntare le stellette militari sulle spalle dei redattori».

La propaganda spacciata per informazione era firmata da Judith Miller, ma il nuovo direttore Bill Keller non prese provvedimenti fino a quando nel 2005 scoppiò lo scandalo del Ciagate e i rapporti con la Casa Bianca vennero alla luce. Greg Mitchell, commentatore della rivista «Editor and Publisher», ha definito «crimini contro il giornalismo» gli articoli di Judith Miller.

Direttore ed editore, in cerca di credibilità, hanno respinto le pressioni del presidente Bush che in novembre li ha convocati per convincerli a rinviare ancora una volta la pubblicazione del servizio sulle intercettazioni, ma in questo modo si sono esposti a nuove polemiche.

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