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Perchè in Palestina ha vinto Hamas

Publie le lunedì 6 febbraio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Guerre-Conflitti Elezioni-Eletti medio-oriente

di Giulietto Chiesa

Bisogna aver visto Qalqilia per capire perché le elezioni parlamentari palestinesi sono state vinte in modo schiacciante da Hamas. Bisogna fare uno sforzo d’immaginazione, molto difficile per noi che abbiamo libertà di movimento e possiamo contare sulla nostra vita privata, sulla piccola o grande proprietà che abbiamo messo insieme, o su un lavoro più o meno decente che ci garantisce un reddito. Per noi che abbiamo l’acqua e che sappiamo che nessuno può chiudere i nostri rubinetti o prendersi i nostri pozzi. Qalqilia è - in Cisgiodania - una città di 40 mila abitanti completamente circondata dal muro (il Muro) israeliano, salvo un buco d’uscita di circa un chilometro.

Basta prendere le mappe stampate dall’Onu, quelle che indicano la “linea verde” della Road Map , ma mostrano anche come e dove e quanto essa sia stata spezzata dal Muro. Si vede - anche un cieco lo vedrebbe - che gl’insediamenti israeliani sono stati fatti crescere ad arte, non casualmente, in modo da accerchiare, anno dopo anno, i villaggi palestinesi. Qualcuno ha disegnato una strategia, ha creato delle sacche che poi verranno chiuse da un laccio di cemento armato, quando i palestinesi, impossibilitati a vivervi, saranno costretti a andarsene.

Si potrebbe continuare. Ma il dato è chiaro. Abu Mazen e Fatah hanno perduto perché la stragrande maggioranza dei palestinesi sono giunti, loro malgrado, alla conclusione che né il primo né il secondo erano più in grado (o intenzionati) a difenderli. Il verde islamico è solo parte, non decisiva, di questo ragionamento, che si ascoltava incessantemente girando da un seggio all’altro tra Nablus, Jemin, Qalqilia appunto.

Non è un racconto di viaggio quello che voglio fare, ma un ragionamento semplice. Le elezioni in Palestina le abbiamo volute in primo luogo noi. Intendo dire gli europei. Le abbiamo pagate noi, investendovi, solo per queste ultime, circa 220 milioni di euro. Abbiamo stampato noi i bollettini di voto, abbiamo formato noi gli scrutatori e i presidenti dei seggi, e tutto il resto. Loro, i palestinesi, hanno costruito i loro partiti, hanno individuato i loro candidati. E poi sono andati a votare, in massa, uomini e donne, nella storica giornata del 25 gennaio 2006.

Hanno votato come se lo facessero da decenni, con ordine, stando dentro una prigione come lo è la Palestina occupata. Armi ce n’erano e ce ne sono tante, ma non un colpo è stato sparato, non un incidente. Tutti gli osservatori - io ero tra di loro - sono giunti alla stessa conclusione; perfino - molti - con grande stupore. Non se l’aspettavano. Molti hanno detto che questo voto palestinese è un modello e un monito per tutto il mondo arabo, per i nostri amici arabi, che non lasciano votare decentemente le loro popolazioni e con cui noi continuiamo a intrattenere ottimi rapporti.

Per decenni abbiamo sentito ripetere, a destra e a sinistra, che Israele è l’unico stato democratico del Medio Oriente. Dal 25 gennaio 2006 non è più così.

Possiamo, noi europei, disconoscere ora questo voto, e il suo risultato? Non possiamo, perché equivarrebbe a dire al mondo intero che noi consideriamo democratici solo i risultati che ci piacciono, cioè che siamo noi a non essere democratici. Oltre che stupidi per avere organizzato le elezioni al solo fine di perderle.

Cosa possiamo fare ora? Dialogare con il nuovo governo palestinese, quale che sia. Perché è l’espressione della volontà di quel popolo. Sapendo, naturalmente, che adesso tutto è cambiato, per tutti. Per i palestinesi, per Israele, per l’Unione Europea, per gli Stati Uniti. Ora bisogna ricomporre il puzzle, con il massimo di realismo. La prima mossa, intempestiva, scomposta, sbagliata, irresponsabile, è venuta da Washington: “con Hamas non si tratta”. Esempio preclaro che Bush e compagni non possono più essere la nostra guida, in Medio Oriente come altrove.

L’Unione Europea dovrà dare un’altra risposta, si spera che riesca a formularla.

E un’altra risposta significa dire come stanno le cose, senza nascondersi il capo sotto la sabbia delle illusioni. Per esempio smettendo di chiamare, nei suoi documenti ufficiali, nelle sue risoluzioni, “territori”, senza aggettivi, quelli che sono invece “territori occupati”. Perché non è pensabile uno stato palestinese occupato. E, se pensiamo che i palestinesi siano disposti ad accettare questo nonsense, , il risultato del voto dovrebbe avercelo tolto dalla testa. L’Europa dovrebbe (avrebbe dovuto) pubblicare, prima del voto, il documento che i capi missione europei avevano inviato a Bruxelles alla fine dell’anno scorso: dove si diceva, senza equivoci, che Israele sta annettendosi di fatto Gerusalemme est. I palestinesi, molti, avrebbero sentito che qualcuno li difendeva. Invece, su proposta del nostro ministro degli esteri, il Consiglio dei Ministri d’Europa ha deciso di non pubblicarlo: “per motivi di opportunità”. Non perché fosse falso, semplicemente per non dispiacere a Tel Aviv e a Washington.

Altrettanto deve fare Israele. Se Hamas ha vinto è, in primo luogo, responsabilità di Ariel Sharon, che prima ha eliminato dalla scena Arafat, con tutti i mezzi, gran parte dei quali illeciti. Ma poi ha anche delegittimato Abu Mazen, il presidente a responsabilità limitata, concordato tra Fatah, Tel Aviv e Washington. Neanche quello gli andava bene, seppure non fosse capace di levare che qualche flebile protesta di fronte al Muro che avanzava portandosi via altre terre palestinesi, in violazione di tutte le risoluzioni dell’Onu e di ogni ragionevole valutazione degli effetti che avrebbe prodotto. Sharon che puntava a una “bantustizzazione” della Cisgiordania mentre ordinava il ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza. Abu Mazen che non riusciva o ottenere nemmeno che i check points venissero levati dal territorio palestinese, che cessassero le angherie dei soldati israeliani, che le poche merci prodotte dai villaggi palestinesi potessero raggiungere i poveri mercati palestinesi senza marcire tra i blocchi di cemento israeliani che obbligavano al trasbordo da un camion all’altro di ogni chilo di pomodori. Abu Mazen che, dopo avere concordato con la Cia l’organizzazione della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese, le ordinava di ritirarsi nelle sue caserme quando le truppe israeliane entravano nelle città palestinesi e facevano quello che volevano.

Tra qualche mese si voterà in Israele e non si può sapere cosa farà il semplice cittadino israeliano che esce di casa con la paura di saltare in aria mentre sale sull’autobus, o mentre beve un caffè, e che, se ha due figli, li manda a scuola con due mezzi diversi per evitare di perderli entrambi in un solo boato. Un inferno di terrore. Quello che farà la comunità internazionale è cosa limitata, ma importante. Potrà influire sull’esito la presenza in Palestina di una mediazione costruttiva, che consenta a Israele di sentirsi protetto dalla politica e non solo dalle armi, e alla Palestina di sapere che, dopo aver concesso moltissimo, potrà ottenere, gradualmente, qualche cosa.

Questi nuovi dirigenti palestinesi che prenderanno il controllo non sono né sciocchi né improvvisatori. Hanno chiamato la loro lista “Cambio e Riforme”, sono stati eletti perché sono stati buoni amministratori e la gente palestinese li ha visti come non corrotti. E che devono il loro successo anche alla loro franca dichiarazione pubblica che non disarmeranno. Ma non hanno negato la possibilità che se ne possa discutere in condizioni di reciprocità. Restano sulla lista delle organizzazioni terroriste, quella stilata da Washington e affrettatamente sposata da Bruxelles. Ma, a seconda degli accordi, potrebbero uscirne. Dovranno fare politica, cioè accordi, cioè compromessi. L’impressione che hanno dato è di essere sufficientemente duttili. Lo saranno di più se saranno aiutati, invece che essere combattuti prima che possano dimostrare se vogliono il dialogo oppure no.

In ogni caso bisogna provarci perché l’alternativa è il disastro.

di Giulietto Chiesa
da Avvenimenti

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