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Factotum, il mito Bukowski riveduto e corretto

Publie le domenica 2 aprile 2006 par Open-Publishing

Dazibao Cinema-video - foto

di Pasquale Colizzi

«E io? 110 chili, eternamente sperduto e confuso, gambe corte, torso da scimmione, tutto petto, niente collo, testa troppo grossa, occhi annebbiati capelli spettinati, un metro e ottanta di relitto umano». Eccolo Charles Hank Henry "Chinaski" Bukowski, scrittore d’America, quella delle strade sbagliate, delle donne perdute, dei lavori da un giorno o una settimana, delle stanze ammobilitate, dei sussidi di disoccupazione, delle sbronze piene totali e prolungate.

Di Hank "gambe di elefante" - «l’unica cosa bella che ho» - fama tardiva montata in fretta mentre consumava la seconda parte della sua vita in una casa con giardino a San Pedro, costa californiana, Ben Gazzara ci aveva regalato una rappresentazione cinematografica (di maledettismo un po’ stucchevole) nell’81, nel film Storie di ordinaria follia di Marco Ferreri.

Dimenticabile. Chinawski stesso aveva scritto una sceneggiatura nell’87, Bar fly, diretta da Barbet Schroeder. Il "moscone da bar", quello che imbocca la porta del locale la mattina e ci esce alla chiusura, una giornata passata a bere aggrappato al bancone, era stato Mickey Rourke. Allora si trattò di sovrapporre (ancora senza successo) un personaggio chiaramente autobiografico alla biografia di un attore dalla testa calda e il bicchiere facile.

Ma non si racconta per luoghi comuni uno scrittore "puro", l’alcol a fiumi che irrigò la sua malinconia, la sensibilità, il duro lavoro per non lavorare, l’ironia, la timidezza e la sfacciataggine, la paura e la ricerca della solitudine, le scopate e la sua ossessione per la morte. Factotum poteva imboccare una strada diversa dai film precedenti, percorrendone una più efficace. Così ha fatto Bent Hamer (Kitchen Stories): basandosi sull’omonimo libro autobiografico e su alcune raccolte di poesie, il regista scandinavo ha diretto un Matt Dillon che (l’aveva dimostrato con Crash) cerca di strapparsi dal petto l’etichetta di eterno giovane, per aspirare a ruoli più pieni. In quello di Hank l’attore si è calato con il giusto distacco, senza restituire la figura dello scrittore maledetto baciato dalla "santità", che vive come predestinato al futuro successo, all’affermazione.

Ha aiutato una messa in scena molto essenziale, povera, tuttavia dignitosa. Del resto Linda, l’ultima giovane compagna dello scrittore ha sfatato il falso mito (uno dei tanti) che lo voleva un alcolizzato sporco e dimesso. Beveva, certo, ogni volta che poteva. Si definiva «un alcolizzato che ha deciso di scrivere per non lavorare» ma sempre, nei limiti del possibile, con pantaloni e camicia puliti. In quelle "piccole camere dove ha vissuto in drammatica e forse polemica povertà" (Fernada Pivano). Sottesamente disperata, come sul filo della nevrosi, commuove anche la sgangherata spontaneità del personaggio intepretato da Lili Taylor, la Jan grande bevitrice che Charles lascia e prende. Quella che con un malrovescio fa volare dallo sgabello di un bar. Bukowski non picchiava le donne, gli piaceva scoparsele. E infatti le spiega: «Ho cercato di fare di te una donna e invece sei una stramaledetta puttana».

"Factotum", secondo romanzo del ’75, racconta dei mille lavori che Chinaski riuscì a perdere anche in pochi minuti. Nel film c’è una ristretta selezione pescata tra l’impiego in una fabbrica di biscotti per cani, di sottaceti, una ditta di abbigliamento femminile, in un magazzino di biciclette, di pezzi di ricambio per automobili, di impianti di luci al neon, di freni, come magazziniere e come tassista, come autista della Croce Rossa, come spedizioniere, raccoglitore di pomodori, addetto alle pulizie in un giornale. Scriverà altrove: «La vita mi faceva semplicemente orrore. Ero terrorizzato da quello che bisognava fare solo per mangiare, dormire e mettersi addosso qualche straccio. Così restavo a letto a bere. Quando bevi il mondo è sempre la fuori che ti aspetta, ma per un po’ almeno non ti prende alla gola».

La sua ribellione, il disprezzo per il conformismo, la critica viscerale contro il perbenismo (e non, magari, contro il benessere), forse li ebbe in dono geneticamente. O forse in parte si svilupparono come risposta all’odiato padre che lo picchiava selvaggiamente. Nato ad Andernach, in Germania, nel 1920, Hank si trasferì con la famiglia a Los Angeles quando aveva due anni. Lì cresce in una casa confortevole, senza nessun tipo di affetto da parte dei genitori. Un’acne acuta gli provocò dei crateri vistosissimi sul volto. Cominciò a bere a tredici anni e così continuò. Una notte, quando il padre tentò di strofinargli la faccia nel suo stesso vomito, gli mollò un pugno e se ne andò di casa.

Finì per accamparsi sulle panchine e nei dormitori. Finchè a trentaquattro anni si trovò in fin di vita in un ospedale di Los Angels per un’emorragia allo stomaco. Leggette "Vita e morte all’ospedale dei poveri" nella raccolta di racconti "Storie di ordinaria follia". In quelle dieci pagine si può racchiudere la sua personale anarchica visione della vita, la solidarietà con gli ultimi (mai scadendo nel pietismo), l’ironia, il fatalismo, la scrittura come necessità («non dono prezioso»), il lucido "progetto alcolico".

Un impiego però riuscì a tenerselo. Lavorò dai 39 ai 50 anni in un ufficio postale (esperienza che racconta nel primo romanzo, "Post Office" del ’71). Nel ’66 John Martin, amministratore di una ditta di cancelleria, gli pubblicò tre poesie stampate su volantini, 30 dollari a poesia. Due anni dopo Martin lasciò il suo lavoro per fondare la Black Sparrow Press e Bukowski smise di incasellare posta. Fecero la fortuna l’uno dell’altro. Per uno che non frequentava o conosceva nessuno dell’ambiente letterario, Hank si era già creato una misteriosa fama tra le riviste underground che ogni tanto pubblicavano qualche suo scritto.

Appena potè, non mancò di omaggiare il suo mito: curò la ristampa di tutti i libri di John Fante, scrittore di origine abruzzese suo coetaneo, allora paralitico e dimenticato da tutti. Adesso Hollywood li celebra sullo schermo, con due film che escono contemporaneamente (l’altro è Chiedi alla polvere di Robert Towne, con Colin Farrell e Salma Hayek). Sulla sua tomba a San Pedro ancora continuano a portare sigari e birra. Capitava che carcerati gli chiedessero suoi libri e lui li spediva con soddisfazione. Li negava, spesso, a studenti universitari, «che invece potevano comprarseli».

Bukowski venne solo una volta in Europa, nell’80. In Francia, per farsi cacciare ubriaco da una trasmissione televisiva in diretta. Nei luoghi della sua nascita, in Germania, dove le femministe gli organizzarono delle piazzate assurde. Forse non gli avevano mai perdonato certe frasi: «Mentre gli uomini guardavano le partite di footbol e bevevano birra...loro decidevano se prenderci, scartarci, scambiarci, ucciderci o semplicemente lasciarci...qualunque cosa facessero, finivamo soli e picchiati nel cervello». Le amava, ma senza un vero trasporto: «dovevo assaggiare le donne per conoscerle...sennò non riuscivo a inventarle». Le apostrofava ironicamente, come quando disse all’ex moglie, pacifista impegnata: «Lo so che vuoi salvare il mondo. Ma non potresti cominciare dalla cucina?».

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