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Nella periferia parigina segregati fra i muri della scuola

Publie le lunedì 3 aprile 2006 par Open-Publishing

Dazibao Libri-Letteratura Francia Chiara Ristori

“Entre les murs”, il romanzo di un insegnante, François Bégaudeau, vincitore del premio France Culture di cui si parla molto in questi giorni. Protagonisti, giovani studenti in una media

di Chiara Ristori

Si chiamano Souleymane, Khoumba, Djibril. Souleymane ha il cappuccio della felpa perennemente calato sugli occhi. Obbligarlo a toglierselo in classe è un affronto, che si ripete ogni mattina. Il suo gesto, la mano che passa davanti al viso, quello di un guerrigliero che si sfila il passamontagna. Sandra, quando va alla lavagna, appoggia un piede sulla pedana della cattedra, svelando l’anello all’ombelico, ed il rotolo di grasso dei fianchi. All’arcata sopraccigliare, non un percing, ma tre punti di sutura. L’ultima agressione è finita in un bagno di sangue.

Fangjie e Ming non parlano una parola di francese. Hanno tredici, quattordici anni al massimo, frequentano la scuola media in un quartiere difficile della periferia di Parigi. Sono i personaggi di un romanzo, vincitore del premio France Culture, di cui si parla molto in Francia in questi giorni: Entre les murs di François Bégaudeau, (edizioni Gallimard-Verticales, 2006, euro 16,90). Sono forse gli stessi ragazzini che sfilano oggi per le strade, accanto a studenti e universitari, a militanti e sindacalisti. Per opporsi al Cpe, contrat-précarieté-exploitation, precarietà e sfruttamanto. O forse no, forse sono fra i casseurs, quelli che non riescono neanche ad integrarsi in una manifestazione di protesta, e ne finiscono esclusi. Troppo violenti, sono violentemente espulsi da un servizio d’ordine talmente efficace, che la polizia quasi non deve più intervenire. Marginali ovunque: fuori dalla società, fuori dalla città, fuori dalla manifestazione.

Il loro quotidiano “dentro”, il “fra le mura” del titolo del romanzo, è il tema che ha scelto di trattare François Bégaudeau: dentro i muri della scuola, della classe, in questo universo carcerario di foucaultiana memoria, all’interno del quale sembra giocarsi il loro avvenire (se non è “già fottuto”). Prof lui stesso, figlio di prof, Bégaudeau è un trentacinquenne bianco e piccolo-borghese, viene dalla provincia bretone. Ha al suo attivo due romanzi che parlano d’amore e di calcio; articoli vari, da vero cinefilo in Les Cahiers du Cinéma, da vero rock-fan in Les Inrockuptibles; e la biografia Un démocrate, Mick Jagger 1960-1969, agiografia laica e delirante del cantante degli Stones, per le neonate edizioni Naïve. Ha scritto Entre les murs dopo molte esitazioni: sarà un soggetto sufficientemente “letterario”?, si chiedeva l’intellettuale allevato alla scuola del nouveau roman, Nathalie Serraute, L’ère du supçon e compagnia. Diffidente sulla possibilità di rappresentare la realtà, il prof che vedeva «da una parte la vita, dall’altra la scrittura», si è deciso a ridurre il reale ai suoi minimi termini: un luogo preciso, un momento preciso. La classe, durante l’ora di lezione. Per registrare e rappresentare una voce nuova - quella dei ragazzini ai quali insegna - su un argomento che interessa veramente tutti, in questo momento: la scuola. Tutte le sere redigeva un resoconto di una paginetta sulla lezione impartita, i commenti, gli scontri, anche fisici. Un’espressione, un gesto, un corpo. Un logo su una t-shirt. Il montaggio di questi frammenti è di fattura cinematografica, il ritmo è rap.

Lo scopo, infine: descrivere il sistema scolastico francese come uno spazio di segregazione e non di integrazione, un luogo in cui - come già denunciava Bourdieu negli anni Sessanta - le ineguaglianze sono ricondotte e aggravate. Ma alla differenza di tanti saggi scritti in tono apocalittico, il libro di Bégaudeau rifiuta i discorsi disfattisti, le minaccie sulla sconfitta imminente di tutta una società.

Perché per uno scrittore (e così dovrebbe essere per tutto il corpo sociale) anche se marginali, questi ragazzi sono totalmente “dentro”: dentro la lingua, dentro la vita. Sono loro, l’energia. Quasi non sanno scrivere, non leggono, non vanno neanche al cinema, ma stanno fabbricando un francese nuovo, quello dell’avvenire: una lingua orale, un “arabo-banlieue-noir africain” misto di rap. E’ la lingua che parlano i personaggi del magnifico film L’esquive di Abdellatif Kechiche, al quale il romanzo rende un dovuto omaggio. Un linguaggio e un modo di porsi nel mondo, che il professore-narratore è tenuto a correggere, a rettificare, a castigare, con punizioni “educative”. Ma dal quale finisce per farsi contagiare, e forse salvare.

I corsi di grammatica e sintassi (esilaranti) sconfinano nella lezione di morale e immancabilmente degenerano (per fortuna!). Inevitabilmente si saldano con l’espulsione dalla classe degli indisciplinati, il cui torto, spesso, è solo quello di fare troppe domande. E quante domande fanno questi ragazzini! «M’siuer, cos’è, il vittimismo, il razzismo, l’omosessualismo, cos’è sta cosa, la misoginia, la metafora, cos’è la Bretagna, cos’è Rimbaud, cos’è un verbo, j’sais pas, moi». Ma da questo linguaggio, da tutti questi errori, di ortografia e di disciplina, da questo loro errare fra un mondo di cose da scoprire e da tentare di capire, il professore amorfo, come la stragrande maggioranza dei personaggi dei romanzi (e dei films) francesi, si lascia progressivamente catturare. Perché questo linguaggio è portatore di vita e di rivolta.

Sul potere sovversivo della parola a scuola (e altrove), in Italia abbiamo avuto un vero capolavoro, una decina di anni fa: Il pieno di super di Rossana Campo Rossana Campo, (Feltrinelli, Universale economica, 1993, euro 6,50). Il linguaggio come ideologia (Sanguineti insegna), le parolacce, le parole escluse, portate avanti da un drappello di terroncelle, ultime della classe relegate come “diverse” nell’angolo dei meridionali. Fanno la rivoluzione a scuola, e nella loro vita, a colpi di «porca puttana fetusa» lanciati alla maestra razzista. E con loro, dalla loro parte, Campo rinnova la narrativa italiana. Ma qui il narratore sta dall’altra parte della barricata: è in cattedra. A sorvegliare e punire è lui, e come lui l’autore del libro.

Allora? Come conciliare una posizione dominante, col fascino esercitato da questi ragazzini, in questo laboratorio della lingua di domani? Tanto più che Bégaudeau, da giovanissimo, ha suonato in un gruppo punk, gli Zabrinsky Point; e che da quando è sceso dal palco per salire in cattedra, ha scritto “il miglior libro di rock del mondo”. Da che parte sta allora, il linguaggio del nostro? Volgarmente parlando, diremo che ha il culo su due sedie. Un esercizio di equilibrio, in fondo, non così facile. Per quanto riguarda il suo narratore, e soprattutto tutti gli altri prof (tutti depressi) la faccenda è risolta con il solito francese neutro, amorfo e in fondo noioso, che imperversa nei romanzi contemporanei.

Ma per i dialoghi, là dove avviene lo scontro in classe e di classe, come rappresentare l’oralità? Come trascrivere la scansione delle frasi, il loro accento, come sentirli senza averli sotto gli occhi, senza vedere i corpi che li portano? Il gergo non basta. Come Rossana Campo, Begaudeau deve ricorrere a degli stratagemmi: il salto sintattico, per esempio. I tics grammaticali. «Ma non ci sono riuscito», si schernisce l’autore.

http://www.liberazione.it/giornale/060401/LB12D680.asp