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L’ITALIA IN PERICOLO

Publie le domenica 16 aprile 2006 par Open-Publishing
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Dazibao Governi Elezioni politiche 2006

di Furio Colombo

Una terribile frase italiana, che mi disorientava quando, da bambino, la sentivo dire da adulti che si guardavano prudentemente intorno è: «qui lo dico e qui lo nego». È una espressione intraducibile che rappresenta il peggio dell’opportunismo italiano.

È ciò che sta accadendo adesso, in questo Paese, sotto gli occhi del mondo, dopo la vittoria di Prodi.

In alto e in basso, e persino a sinistra e non solo a destra, si dice o si nega, si afferma e si attende, si contano i numeri giusti ma poi si fa finta di non saperli, si usa l’esiguità del margine (ormai tipico di tutte le democrazie, e consacrato da ben due successive elezioni americane) per dire che la vittoria di Prodi forse è accaduta e forse no, e magari sarebbe meglio trattare.

Trattare che cosa, trattare con chi?

C’è infatti una variazione molto importante al modello nazionale di dire e negare che ha consentito tante decisioni ambigue nella storia italiana.

Berlusconi, il leader battuto (nel voto italiano in casa e nel voto italiano dall’estero) della Casa delle libertà non dice. Nega. In questo unico senso è più moderno. Nega risolutamente di avere perduto, nonostante l’evidenza e cogliendo lo spazio libero che gli viene offerto da un grande silenzio. Come in tanti suoi processi, Berlusconi nega tutto. Esattamente come in tribunale, accusa di broglio chi lo ha battuto. La stampa internazionale nota l’affinità fra processi e politica. La stampa nazionale appare affascinata dalla sua straordinaria capacità di negare. E benché la negazione sia sprezzante e deliberatamente provocatoria, intorno al leader che ha inventato il “sit in” dello sconfitto, una Valle di Susa delle elezioni perdute, si forma un capannello di interlocutori interessati a vedere che cosa si può mediare con lui.

Siamo in presenza di un paradossale abbaglio logico: l’idea che sia bene trattare e progettare scambi con chi ha rifiutato e continua a rifiutare di avere perso le elezioni, persino in presenza della ammissione (purtroppo tardiva) del ministro dell’Interno.

Per avere un resoconto attendibile e definitivo di ciò che è accaduto davvero in Italia, occorre rivolgersi non alla televisione, in cui Berlusconi continua ad apparire come il protagonista, non ai giornali, colmi di retroscena che coprono di cortine fumogene i fatti. Non ai politici, anche del centrosinistra, alcuni dei quali discutono volentieri di scenari di possibile collaborazione saltando il dato: chi ha vinto?

Occorre la voce di un cardinale. Sentite le parole di Mons. Severino Poletto, arcivescovo di Torino, raccolte ieri da La Stampa e dite se non sono l’unica cronaca attendibile di ciò che è appena accaduto in Italia. «C’è stato un evento che ha interessato non soltanto noi, ma l’Italia intera. Una lunga e non serena campagna elettorale, e poi le elezioni politiche di cui già conosciamo i risultati, che in una democrazia matura devono essere accettati e rispettati. I risultati dunque li conosciamo. Attendiamo ora che il nuovo Parlamento si insedi, che il Governo sia formato e si metta all’opera. Ora non è più tempo di parole ma di fatti per dimostrare che governare un Paese significa realizzare il bene comune non con strumentali finalità ma con sincerità di intenti. Bene comune vuol dire soprattutto il bene dei ceti più poveri e svantaggiati della nostra società».

Ciò che consola ma anche tormenta, in queste parole di un cardinale, è la chiarezza con cui la sequenza delle vicende italiane è descritta.

Provate a smentirle. Primo, le elezioni sono finite, sono state vinte, e la democrazia matura le accetta. Secondo, è evidente il messaggio del risultato delle elezioni: governare per il bene di tutti e non con strumentali finalità. Terzo, che cosa si aspetta a dare seguito ai risultati e mettere il Parlamento in condizione di riunirsi e il Governo in condizione di cominciare a governare? Si può essere più chiari?

È un testo (rileggete, vi prego, il virgolettato) che non nasconde l’ansia di un cittadino democratico per lo “stallo” che non esiste. Ma è stato creato con «strumentali finalità» e ci butta in un tempo vuoto e con un pericolo immenso.
Nell’ansia del cardinale c’è una domanda che è anche un ammonimento autorevole: «che cosa aspettate?».

Ma se le parole di Saverio Poletto sono chiare, non prendetele come la controprova che Silvio Berlusconi sia uno stravagante che, per autodifesa interiore, ha scelto di separarsi dalla realtà.

L’uomo è un calcolatore accorto che si muove fuori e lontano dalla «democrazia matura», continuamente mosso da «finalità strumentali».

Questa volta la finalità strumentale è non far finire la campagna elettorale. Se finisce, lui ha perso. Se non finisce, le sue probabilità di rivincita aumentano di giorno in giorno, a mano a mano che si espandono il silenzio istituzionale e il vuoto in cui sono stati lasciati gli italiani.
Ha teso una trappola: discutiamo di possibili accordi.

Deliberatamente butta sul tavolo questioni che hanno mobilitato l’opposizione democratica fino all’ultimo voto. La giustizia, per esempio, e l’umiliante precariato del lavoro.
Cadere nella trappola vuol dire sciogliere le fila di una grande mobilitazione civile, mandare a casa chi si è battuto per vincere anche senza Tv e senza miliardi.

Tutta la gente che non si lascia dire di aver dato l’anima per questa vittoria (senza neppure sapere i nomi di coloro per cui votava, a causa della «porcata» detta nuova legge elettorale) e poi sentirsi annunciare che «si può trattare» prima ancora di sapere che Romano Prodi ha ricevuto l’incarico.

Berlusconi, il candidato battuto, sa fare bene una cosa, con rabbia e dovizia di mezzi: la campagna elettorale. La sta facendo, proprio mentre alla sinistra giungono segnali, (per fortuna solo da parte di alcuni) di benevola smobilitazione. E mentre la vittoria, faticata, rischiata e conseguita, continua a non diventare un incarico di governo.

Berlusconi sta dimostrando di poter continuare a tenere sotto ferreo controllo mediatico la sua metà dell’Italia. Ha perso, ma non gli importa. Lui non è stupido come Al Gore o John Kerry, che hanno pensato prima di tutto alla pace istituzionale del loro Paese. Lui tiene tirata la corda dello scontro, tiene la tensione altissima. Lui stesso, e chi lo rappresenta, rifiutano ogni gesto di accettazione democratica. Fino al punto da fare in modo che manchi al legittimo risultato elettorale del nostro Paese il riconoscimento degli Stati Uniti. È un fatto su cui andrebbe concentrata tutta l’attenzione dei leader della coalizione vittoriosa. Chi sta mentendo all’America, Berlusconi o il suo ministro degli Esteri Fini? Non sarebbe il caso di chiedere un chiarimento all’ambasciatore degli Stati Uniti che è uomo esperto, buon conoscitore del nostro Paese e che certo ha a cuore la profonda amicizia fra i due Paesi, radicata nella storia della nostra libertà, del nostro diritto di decidere col voto?

È vero, la situazione è grottesca, ha venature di ridicolo. Ma una cosa occorre oggi riconoscere, una cosa che su questo giornale abbiamo detto fin dall’inizio. Berlusconi, che adora se stesso ed è davvero convinto di avere sempre ragione, è un pericolo per la democrazia.

In questi lunghi giorni di inspiegabile silenzio istituzionale, lui e i suoi stanno sbarrando la porta al verdetto del voto. Lui vede benissimo il rischio in cui sta buttando l’Italia. Lo calcola. Gli giova che tanti, che dovrebbero essere infaticabili e senza pace come lui, ma in senso opposto, in difesa della democrazia, sembrano non notare il pericolo.

Tre sono i risultati che Berlusconi sta incassando con la sua azione eversiva: tiene in ostaggio il Paese affinché, in un modo o nell’altro, la sua sconfitta venga annullata. Pone una minaccia pesante sul futuro italiano. Tiene i suoi mobilitati e pronti a nuove elezioni, che sono il suo vero progetto, contando sulla smobilitazione di chi ha votato per mandarlo a casa e ha vinto.

Non so rispondere, nelle frequenti interviste con le televisioni europee e americane, alla domanda: perché glielo lasciano fare? È vero, è ricco, è potente, controlla i media, possiede molti giornalisti, è senza scrupoli. Ma perché glielo lasciano fare, visto che ha perso? I colleghi della stampa internazionale notano che, a volte la fermezza di Prodi appare isolata. Lo si lascia a patire l’oltraggio del negato riconoscimento della vittoria (che è una offesa a una bella parte degli italiani). Una delle due campagne elettorali continua a svolgersi furiosamente, dopo avere provocato una spaccatura che si vuole a tutti i costi allargare.

Per mettere fine a questa situazione mai accaduta (un Paese ostaggio del premier battuto) alcuni esortano a “mediare”. Dicono per esempio che bisogna “mediare” sulla giustizia. Bene, da dove cominciamo, dai «giudici infami» o dai «giudici malati di mente»? Dal complotto delle toghe rosse con l’attività criminale delle cooperative, o della riforma Castelli che trasforma i magistrati in impiegati dello Stato sotto controllo del governo?

Ma il Cardinale ha detto bene. I risultati ci sono. Adesso gli italiani si aspettano che si formi il legittimo governo del Paese. Potrà chi deve proclamare ufficialmente i risultati continuare a non farlo? Potrà Prodi restare il vincitore senza incarico di formare il governo? Come racconteremo questi giorni, che dovrebbero essere di normale e civile alternanza democratica, nei nostri libri di Storia, fra qualche anno? Diremo che soltanto il Cardinale Poletto ha letto i risultati, ha constatato che il vincitore era Prodi e che era bene per il Paese consentirgli di cominciare subito a governare?

Possiamo continuare a dire e a negare i risultati delle elezioni politiche italiane del 9 e del 10 aprile 2006?

http://www.unita.it

Messaggi

  • Ciampi e D’Alema alla prova

    by GIUSEPPE CHIARANTE da "Il Manifesto" 15/4/2006

    Condivido pienamente la preoccupazione - che da molti sintomi avverto assai estesa nell’opinione democratica del paese, anche molto più estesa di quanto finora sia trapelato sulla stampa - per le possibili conseguenze negative della tendenza a un lungo rinvio, praticamente sino all’estate, del conferimento dell’incarico di formare il nuovo governo al leader della coalazione uscita vincente dal voto di domenica scorsa.

    Comprendo, naturalmente, la complessità dell’intreccio delle scadenze che si aggrovigliano nel cosiddetto «ingorgo istituzionale»; e capisco molto bene le ragioni di cautela che possono sospingere il Presidente Ciampi ad evitare di prendere proprio alla scadenza del mandato una decisione così importante come la designazione del nuovo premier, lasciandola perciò al suo successore.

    Sembra a me, tuttavia, che nessuna di queste considerazioni può far passare in seconda linea il fatto che il rinvio determina il protrarsi di un vuoto politico che appare tanto più inquietante per l’asprezza delle contrapposizioni che hanno contraddistinto la campagna elettorale appena conclusa: una campagna non a caso apparsa come la più preoccupante per la tenuta della democrazia repubblicana in tutto il lungo periodo che va dal ’46 ad oggi.

    Anche per questo sarebbe un vuoto politico rispetto al quale non è certo un motivo di rassicurazione il fatto che rimangano in carica, per l’ordinaria amministrazione proprio un governo e un presidente del Consiglio che esplicitamente hanno contestato e contestano i risultati delle elezioni.

    A questo proposito ha scritto ieri Valentino Parlato su questo giornale che Berlusconi non è uomo da rassegnarsi facilmente alla sconfitta, e che c’è perciò da aspettarsi che usi il potere di cui dispone finché resterà in carica per cercare di conseguire uno di questi due obiettivi: o portare sino in fondo la campagna per cercare realmente di annullare l’esito delle elezioni o usare questa minaccia per costringere lo schieramento di centro-sinistra a trattare per una soluzione di compromesso. L’offerta di D’Alema di aprire colloqui per la successione al Quirinale sembra dimostrare che almeno nella seconda direzione l’offensiva di Berlusconi ha già aperto una breccia.

    E’ mia convinzione, invece, che sarebbe un grave cedimento per la democrazia italiana se prevalesse la ricerca di ambigui compromessi in nome di una malintesa «unità nazionale».

    E’ bene ricordare, perciò, l’unico precedente di una crisi di questo tipo nella storia dell’Italia repubblicana: quello che si determinò all’indomani del voto referendario del 2 giugno 1946 per la scelta tra monarchia e repubblica, quando le forze monarchiche minacciarono un ricorso contro il risultato a favore della repubblica e Umberto di Savoia parve intenzionato ad appoggiare tale linea, col rischio di creare un clima da guerra civile. Decisiva fu, in quel momento, la fermezza di De Gasperi, allora Presidente del Consiglio. Non solo De Gasperi non si lasciò intimidire, ma con l’appoggio delle altre grandi forze antifasciste, innanzitutto di comunisti e socialisti (fu la premessa del confronto e del voto unitario per la nuova Costituzione) operò perché fosse subito proclamato l’esito del voto che istituiva la Repubblica e perché anche Umberto prendesse atto della scelta compiuta dagli italiani.

    E proprio la limpida fermezza di cui in quel momento diede prova De Gasperi (che pure non era certamente un rivoluzionario e neppure un «ultrà» di sinistra) deve oggi caratterizzare, da parte di tutte le forze sinceramente democratiche, una linea di difesa dell’esito del voto, contro ogni manovra - intrinsecamente eversiva - volta a metterlo in discussione.

    Di questo c’è bisogno per segnare non solo la fine del governo Berlusconi ma il superamento del berlusconismo. Non si può infatti sottovalutare che in questi ultimi anni, e in particolare - non a caso - nel corso della campagna elettorale, molti segni nella vita del paese e negli orientamenti dell’opinione pubblica, hanno dato la sensazione del riemergere della pulsioni limacciose di una vecchia Italia retriva e profondamente asociale.

    Questa tentazione eversiva torna anche oggi ad affacciarsi. Non basta perciò battersi per un cambio di governo.

    Questa battaglia può essere davvero vincente solo se è sorretta da una mobilitazione della coscienza democratica che produca un più robusto senso civico e una più diffusa consapevolezza dei valori di pieno rispetto della legge, di moralità pubblica e di solidarietà che debbono essere fondamento di uno Stato realmente democratico.

    La difficile prova che in questo momento il paese attraversa deve essere l’occasione perché questa mobilitazione caratterizzi il passaggio a una nuova fase della storia dell’Italia repubblicana.

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