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Intervista al "grande vecchio" della sinistra comunista: «Il pacifismo è la strada giusta»

Publie le domenica 18 gennaio 2004 par Open-Publishing

Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi Rina Gagliardi

di Rina Gagliardi

Ingrao: «Bertinotti rompe uno schema»

A Pietro Ingrao il ragionamento con cui Fausto Bertinotti ha concluso il convegno veneziano sulle Foibe, svoltosi in dicembre, è piaciuto davvero molto. Domenica scorsa, quando Liberazione ha pubblicato l’ampio testo del segretario di Rifondazione comunista, se l’è letto con cura, ha preso appunti su un taccuino, come sua abitudine, infine si è fatto vivo con noi, manifestando la voglia di svolgere sul nostro giornale una "riflessione a voce alta". Una telefonata a Sandro Curzi, ieri mattina, ovviamente comprensiva degli auguri per il 2004, ed ecco l’intervista che abbiamo realizzato - nella giornata particolare dell’Epifania romana, molto soleggiata e assai gelida, affollata di famiglie e ragazzini non ancora paghi di questo lungo clima festivo. Come sempre, Pietro ci accoglie nella sua casa al quartiere Nomentano con il suo fare affettuoso, caloroso e inflessibilmente "lavorista": appare in ottima forma e più che mai dedito al vizio che lo ha sempre caratterizzato, quello di pensare in grande. «Questo testo di Fausto» mi dice subito «mi pare proprio di grande interesse. Soprattutto, mi appare fecondo per gli sviluppi, il tipo di lotta e il lavoro a cui chiama. Per la densità e la novità delle sue posizioni, insomma, apre molte domande, sollecita un impegno serio di riflessione ed elaborazione, anche in rapporto alla lettura dei processi reali». Molti di questi interrogativi, o forse tutti - anticipiamo uno dei temi principali che compariranno alla fine di questa conversazione - ruotano attorno al tema dell’efficacia del pacifismo e della politica. La domanda del "come" si incide sui poteri reali - e sempre più terribili - del nostro tempo. Ma, prima, ci sono molte considerazioni da fare.

Che cosa ti ha più interessato e stimolato, nel testo di Bertinotti?

In generale, mi ha colpito il ragionamento che propone sul pacifismo e sulla lotta armata. In questo testo, non c’è solo la netta condanna dello stalinismo, ma qualcosa che va oltre: la capacità di rompere uno schema - anche un immaginario - che era profondamente radicato in tutti noi, nella stessa tradizione leninista. Questo schema è quello della rivoluzione come assalto armato al Palazzo d’inverno, come il momento nel quale scatta la necessità dell’ora X, dell’attacco finale al potere. Uno schema politico che è stato celebrato tante volte nell’arte e nella poesia, fino al punto da saldarsi con la storia - la nostra storia del mondo. Penso ai film di Ejzenstein e a tanta parte della cinematografia sovietica. Ma penso anche alla letteratura marxiana precedente: la Comune di Parigi, una vicenda gloriosa che poi è diventata oggetto di immagini, di simboli, di culto. C’era in noi - voglio dire - la persuasione profonda della dura necessità della lotta armata, che era tornata con forza nella tragedia degli anni ’30. E non eravamo affascinati da una frase marxiana (la violenza come "levatrice della storia") di cui eravamo intrisi anche nei momenti più intensi della lotta per il disarmo?

Vuoi dire che per i comunisti di molte generazioni, compresa certo la tua, la dimensione violenta della politica e della rivoluzione è stata un valore, sia dal punto di vista razionale che da quello emotivo?

Voglio dire che per molte e diverse ragioni - prima di tutto qui entrano le biografie, i vissuti, le storie personali, come quella di chi, come me, è interamente cresciuto nel XX secolo - per molti anni non abbiamo avuto una vera distanza critica né dalla violenza né, certo, dalla guerra. Ricordo molto bene lo sgomento che io ho provato al momento del patto di Monaco, ricordo bene l’ira, l’odio vero e proprio verso i "monacensi" e verso Chamberlein, insomma verso quell’imbelle cedimento all’aggressione hitleriana. Un sentimento che poi fu ribadito nel periodo terribile del crollo della Francia, con l’Europa intera che cadeva nelle mani del nazismo. Poi, negli anni successivi, ci furono le cataste di morti, i lager, le torture, fino al 1945. E ci fu, da parte nostra, l’epica della controffensiva e della partigianeria. Un canto come "Bella ciao" non è forse la celebrazione poetica di quest’epica?

...anche un canto come quello dei "maquis" francesi, che chiama alla lotta, esalta il "fardeau" della dinamite e anche il sacrificio supremo ("ami, si tu tombe, un ami sort de l’ombre à ta place" "amico, se tu cadi, un amico sorge dall’ombra al tuo posto") ...
Appunto, ciò che io chiamo "lettura poetica" è questa esaltazione della chiamata alle armi, e anche del cadere per la libertà con le armi in pugno. Questa idea è rimasta stampata nelle mie viscere, se posso dirla così, anche negli anni successivi, quando avevamo scelto fino in fondo in Italia la strada della lotta democratica. Nel fondo di noi stessi, non avevamo rinunciato all’idea di un "momento finale" che prima o poi poteva o doveva arrivare. L’ora X, abbiamo detto. Ma anche la sensazione di vivere su un crinale di frontiera - quante volte abbiamo paventato un golpe, dormito fuori casa, temuto il complotto dei generali? Mi torna in mente un’espressione di Foster Dulles (segretario di Stato degli Usa tra il ’53 e il ’59, durante la presidenza Eisenhower, sostenitore della guerra fredda e di un rigido antisovietismo, Ndr) che certo oggi è dimenticata: parlava dello stato del mondo come di una "danza sull’orlo dell’abisso".

Poi ci fu la gloriosa vicenda del Vietnam, in comune a più di una generazione di comunisti e di rivoluzionari...
Anche il Vietnam, sicuramente, è parte di questa storia di liberazione consegnata alle armi. Scusa se tendo a esibire i miei ricordi. Ma mi torna nella mente l’emozione che provai nel corso di un viaggio proprio in Vietnam, nei primi anni ’70: fui portato a un passo dal fronte di guerra, dormii sotto una tenda, vicino a un soldato che sembrava un bambino, e tante cose, in quella terra, evocavano la sensazione fortissima che c’era una soglia armata ineludibile, per conquistare la libertà...

E oggi?

Non so: forse dobbiamo avere il coraggio di fare un salto? Fausto, questo salto, lo fa: segna uno stacco dall’idea dello scontro armato come liberazione, prospetta linee di un nuovo e radicale pacifismo. Lo fa con una nettezza e una limpidezza - ma oserei dire anche con una semplicità - che raramente ho avvertito. E mi pare molto significativo il modo con il quale intreccia questi temi con la condanna della guerra preventiva di Bush (quella che, segnalo cocciutamente, è per me la grande novità del III millennio) insieme con una ripulsa altrettanto netta del terrorismo. Da parte mia, vorrei solo porgli alcune domande che proprio questo ragionamento mi ha sollecitato.

Falle, queste domande
C’è una questione che Fausto non esplicita. In un’epoca in cui la guerra è a tutto campo e non è più, come nel crudo secolo che ci sta alle spalle, una scelta "obbligata" ma, come appena stavamo dicendo, si fa "preventiva", come si risponde all’aggressione armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell’aggressore? Qui torna una parola - il "resistere" - che mi è costata un incidente per me piuttosto sgradevole: un’intervista alla Repubblica in cui, poiché parlavo della necessità per il popolo iracheno di "resistere", ero indicato nel titolo come un amico di Saddam Hussein. Ma quali sono, se ci sono, le alternative alla "resistenza"? Come si affronta l’ingresso concreto della violenza delle armi nella nostra vita?

In questa tua più che logica domanda, mi pare sottovalutata la questione della forza tremenda, gigantesca, che hanno acquistato gli apparati della guerra - parlo di quelli nordamericani, ovviamente, che sono più potenti, distruttivi e terrorizzanti dell’insieme del resto del mondo. Mentre fino a un certo punto - nel secolo scorso - si poteva non solo "resistere" ma anche e soprattutto vincere (il Vietnam che tu stesso ricordavi è stata una lotta vincente, sia dal punto di vista politico che militare), oggi questa possibilità non è data - per lo meno, la sproporzione appare, allo stato, incolmabile. Una delle ragioni più importanti per cui torna il terrorismo, e si affacciano pratiche come quelle degli attentati suicidi, non è proprio questa impossibilità di vincere sul terreno dello scontro militare?

Io sono ben persuaso che il terrorismo non è la risposta da opporre alla guerra - e apprezzo molto, nel testo di Bertinotti, anche questa condanna, che può sembrare ovvia, ma non lo è per nulla. E’ vero però che noi non abbiamo ancora elaborato una strategia di risposta al terrorismo: anche al terrorismo che si pone di fronte a un avversario, come gli Stati Uniti che, certo, hanno messo in piedi uno strapotere così soffocante. La mia non è una polemica, è un assillo: quale strada possono percorrere questi milioni di persone, questi popoli, per respingere la violenza americana? C’è, o no, un obbligo di resistere, anche con le armi? C’è un diritto di difesa che non deve o non può rinunciare al loro uso? Quello che sto cercando di dire, è che non abbiamo lavorato abbastanza su questo tema - anche se e quando la nostra ricerca pacifista è cominciata da anni. Ho partecipato alla prima marcia Perugia-Assisi, quella di Capitini e Lombardo Radice: continuo a pensare oggi come allora che il pacifismo sia la stella di un nuovo mondo, e mi colpisce che il segretario di un partito, il quale affonda alcune delle sue radici nel leninismo, indichi oggi nitidamente e imperiosamente quella strada pacifica. Il fatto è che a noi, alla nostra generazione, è apparso ineluttabile quel percorso di liberazione dallo sfruttamento capitalistico, di uscita dalla soggezione, che una parte del mondo non poteva non compiere attraverso la lotta armata. Mia moglie Laura, che era una persona mite, nella mia casa aveva posto su un cassettone della nostra stanza, bene in vista su tutto, il ritratto di "Che" Guevara...

...un simbolo glorioso non solo della rivolta armata, però, ma anche di una sconfitta. Non credi che, tra le risposte ineludibili, ci debba essere la riaffermazione della politica? Della politica come "arma" che sconfigge la logica della guerra?

Ci credo o almeno ci spero. E con altri - Oscar Luigi Scalfaro, per esempio - ho chiamato in campo un testo tutto "politico" come la Costituzione Repubblicana. Ho chiesto pubblicamente se l’articolo 11 della Costituzione - che, per l’Italia, ripudia ogni guerra che non sia di difesa - sia valido ancora o invece no. Non ho avuto risposta. Mandiamo i nostri soldati a morire a Nassiriya, li esaltiamo e li celebriamo come martiri, li salutiamo commossi quando tornano nelle loro bare. E poi? Io continuo a chiedere: l’articolo 11 è valido o no, nei confronti della nuova guerra americana? Chiedo a me stesso e anche ai miei amici, ai giovani dei grandi cortei, a cui ho partecipato, e quali sono i luoghi, gli enti, le istituzioni che possono agire, in concreto, per respingere e inibire questa nuova pratica della guerra?

I tuoi dubbi e i tuoi interrogativi, mi pare, ruotano tutti attorno ad un unico tema, l’efficacia della politica. O mi sbaglio?

Non ti sbagli. Voi di Liberazione - faccio un altro esempio - avete fatto e continuate a fare, giustamente l’esaltazione dei movimenti. Ci sto, come sapete. Ma, testardamente, continuo a proporre il tema: come si incide sui poteri? Come si incide sulla politica data? Io sono "vecchio", non solo anagraficamente. Non ci credo che la politica sia morta...

...o perduta, come dice Marco Revelli
No, la politica c’è. Anche gli americani fanno politica, la loro politica: non usano solo l’esercito, le armi. E non sono nemmeno un blocco compatto; sono un paese complesso, articolato. E noi dobbiamo apprendere meglio a pesare anche su questo colosso chiaro-oscurato, su questo globo complicato in cui viviamo. Non è questo forse un punto-chiave anche per il domani della nuova Europa che è in cantiere, e di cui pensiamo e speriamo di essere un attore forte, importante? E quando, domani, andremo a votare su questa Unione, non saranno le questioni di cui abbiamo ora discusso insieme veri e propri punti-chiave su cui dobbiamo discutere e chiamare a pronunciarsi la gente di questa Penisola, di questo estremo lembo europeo che da millenni si sporge verso quella soglia dell’Asia oggi in fiamme?