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Ernesto Che Guevara. Lo spirito della ribellione è ancora vivo

Publie le domenica 7 ottobre 2007 par Open-Publishing
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Dazibao America Latina Storia Gianluca Bifolchi

di Gianluca Bifolchi

Nel maggio del 1998 l’editore Feltrinelli di Milano dava alle stampe "Prima di morire", la trascrizione di due quaderni trovati nello zaino di Ernesto Che Guevara dopo la battaglia di Quebrada del Yuro dell’8 Ottobre 1967, il giorno prima della sua esecuzione sommaria (da cui il titolo del libro).

La copia dei quaderni era arrivata all’editore in un plico partito da La Paz per canali riservati, forse gli stessi che avevano permesso nel 1968 di pubblicare in Italia in anteprima mondiale il "Diario in Bolivia", trovato tra gli stessi effetti personali in cui erano i due quaderni.

Gli appunti integralmente pubblicati in "Prima di morire" sono fitte note di lettura che rispecchiano gli interessi teorici di Che Guevara durante la sua ultima avventura guerrigliera, per lo più citazioni da Mao, Stalin, Marx, Rosa Luxemburg, Lenin, e così via. Qui è lì, secchi e brevi commenti della mano di Ernesto.

Sia le citazioni che i commenti provano, se ce n’era bisogno, l’ ortodossa adesione ideologica di Che Guevara, fino praticamente all’ultimo respiro, alla tradizione marxista-leninista, e non come semplice riferimento ai testi fondamentali, ma anche come rapporto ora critico e ora dialettico, ma sempre organico, alla parabola dei paesi del socialismo reale, URSS in testa. Ci si imbatte di tanto in tanto in qualche stoccatina a Kruscev o a Trotskij, mentre Stalin appare sempre in contesti che vorrebbero suggerire un maggiore spessore teorico e una maggiore maturità rivoluzionaria.

E’ sorprendente, in effetti, che un marxista dalle idee che oggi apparirebbero datate anche agli occhi dei suoi più entusiastici ammiratori — che, senza aver messo Marx in soffitta, hanno per lo meno visto dissolversi l’URSS nella corruzione e nell’inefficienza — emani tutt’ora un fascino ai limiti del mito, proprio in un’epoca in cui la costruzione dei miti è interamente sotto il controllo dei suoi nemici trionfanti, che tuttavia si tengono a una cauta distanza da lui, come per paura di scottarsi.

Non è accaduto così con il suo compagno di lotta, Fidel Castro, oggetto di una pluridecennale campagna di demonizzazione all’insegna della calunnia e della menzogna che, per quanto scoperta e facilmente confutabile con i fatti, ha di certo lasciato il suo segno. Non che a tutti, come accade in Occidente, si presenti spontanea l’associazione mentale di Fidel con la dittatura e la repressione. Al contrario, in tutto quello che una volta si chiamava Terzo Mondo, con l’eccezione ovvia delle aristocrazie creole e dei loro equivalenti coloniali fuori dall’America Latina, Fidel è percepito soprattutto come il leader di un’epopea vittoriosa di riscossa di un popolo oppresso.

Ma questo non fa che rendere ancora più pressante la domanda a proposito di Che Guevara: perché la sua immensa popolarità non ha subito scosse neanche nei giardini dell’Impero? Perché il massimo che si è riuscito a fare con lui è inserirlo in qualche Pantheon depoliticizzato per bravi ragazzi, insieme a Ghandi e Martin Luther King, quando non addirittura John Kennedy (e perché non Jacqueline...?) Non ci sarebbe da stupirsi se prima o poi lo vedessimo ridotto a santino libertario usato in qualche rivoluzione arancione promossa dal National Endowement for Democracy per destabilizzare qualche governo scarsamente collaborativo con Washington.

Perché con Che Guevara ci si comporta come faceva la chiesa cattolica delle origini, che di fronte ai miti pagani troppo radicati nelle credenze del popolo da evangelizzare, ne faceva oggetti di devozione cristiana, creando santuari mariani là dove prima si venerava una dea? E, nel caso di Che Guevara, collegando la sua effige a pallide ed esangui esaltazioni della libertà e dei diritti umani, buone per tutte le stagioni e per tutti i consumi ideologici e propagandistici?

Ho la mia ipotesi che, per quanto banale, vorrei comunque provare a spiegare in due parole. La vita e la morte del Che — e non la sua effige — incarnano lo spirito della ribellione, ed uso questa parola distinguendola dal termine affine di rivoluzione, riferendomi ad un concetto forse più politicamente primitivo ma assai più vitale e incoercibile. La ribellione è personale, mentre la rivoluzione è collettiva. La prima è un sentimento, mentre la seconda è inseparabile da un programma ideologico. La prima è radicata nelle passioni, la seconda giostra con i compromessi dell’intelletto. In quanto momento esistenziale la ribellione è l’atto di sfida all’ingiustizia, rifiutata in modo inflessibile e intransigente, è il ripudio non negoziabile delle mille ipocrisie e accomodamenti con i quali si vuole evitare lo scontro frontale con l’ingiustizia, risparmiandosi incomodi e pretendendo al tempo stesso di mantenere dignità e onore.

Le centrali dell’indottrinamento ideologico in Occidente hanno avuto successo nello sradicare dalle masse l’idea che un cambiamento rivoluzionario fosse possibile e desiderabile, ma hanno segnato il passo nel reprimere lo spirito della ribellione, che sopravvive nel nome e nell’esempio eroico di Ernesto Che Guevara. E finché lo spirito della ribellione vive l’occidente è ancora moralmente e spiritualmente vivo.

A quarant’anni dalla morte di Ernesto Che Guevara, caduto in Bolivia per la causa della libertà dei popoli, i ribelli di tutto il mondo possono ben dirsi tra loro che la partita è ancora aperta.

¡Hasta la Victoria Siempre, comandante Che Guevara!

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