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Per un partito comunista di massa che impedisca il «suicidio»

Publie le venerdì 25 luglio 2008 par Open-Publishing

Rifondazione: VII congresso

Per un partito comunista di massa che impedisca il «suicidio»

di Fosco Giannini

Viviamo un paradosso. Mentre nel mondo - a partire dall’America Latina, passando per l’Africa e l’Asia - le forze antimperialiste, comuniste, rivoluzionarie crescono impetuosamente e ridicolizzano la profezia di Fukuyama ("la storia è finita e il capitalismo, essendo natura, ha vinto per sempre"), in Europa queste stesse forze subiscono, da un ventennio ed oltre, un attacco durissimo da parte della cultura e dalla classe dominante.

L’impoverimento culturale e l’attitudine ormai consolidata ad un galleggiamento tattico privo di orizzonti, impedisce a queste forze - è il caso dei comunisti in Italia - di indagare e comprendere il fenomeno, che trova certamente una delle basi materiali nello stesso processo di costituzione del neoimperialismo europeo, in questa Unione europea del capitale transnazionale che ha un assoluto bisogno, per imporsi nel quadro mondiale e reggere il conflitto interimperialista, di subordinare a sé il movimento operaio complessivo, di costruire - utilizzando i lavoratori immigrati - un vasto esercito industriale di riserva, di far chinare la testa al movimento sindacale e di addomesticare le forze comuniste e di sinistra.

Obiettivi in gran parte raggiunti. Questo attacco di classe da parte del capitale ha contribuito notevolmente a produrre in Italia una profonda pulsione - tra le forze comuniste- all’ auto-delegittimazione e all’auto-dissolvimento, politico e culturale, sino a derubricare la stessa "questione comunista". Questa pulsione eterodiretta ha iniziato, in prima istanza, a corrodere il Pci, poi iniziato a corrompere il Prc, attraverso il lungo processo di decomunistizzazione avviato da Bertinotti e dal vasto gruppo dirigente a lui fedele.

Ora, la spinta al superamento definitivo del partito e del progetto comunista trova le sue corpose basi materiali nella proposta della costituente di sinistra di Nichi Vendola. Ma giunti a questo punto occorre riflettere : perché, dopo la Bolognina, un’area minoritaria del Pci- Pds - assieme a Dp e ad altre forze - decide di rendersi autonoma e tentare la via - difficile - della ricostruzione di un partito comunista, il futuro Prc? Perché decide di non restare all’interno del partito di Occhetto - ancora di sinistra, ancora di massa - come corrente comunista interna ?

La risposta è semplice: sceglie quella via - anche elettoralmente ardua - essenzialmente perché capisce che per il rilancio di una soggettività comunista avente l’ambizione di uscire da sinistra dalla crisi del socialismo reale e dalla socialdemocratizzazione e poi dall’occhettizzazione del Pci; con l’ambizione di riproporre una teoria ed una prassi comuniste all’altezza dei tempi e dello scontro di classe; con l’ambizione di presentarsi non come una coazione a ripetere, una pura proiezione del proprio passato, ma come una forza anticapitalista e rivoluzionaria che solo a partire dalla totale adesione alle grandi e inedite contraddizioni sociali poteva credibilmente riproporre la trasformazione sociale e un processo di transizione al socialismo, di una cosa aveva prioritariamente bisogno: della propria, piena, autonomia culturale, politica ed organizzativa.

Se i comunisti del Pci post Bolognina fossero rimasti una corrente interna al Pds tale autonomia non vi sarebbe stata e la speranza di una rifondazione comunista non si sarebbe accesa. Su tante, qualificanti, strategiche e spesso nuove questioni sociali, infatti, il partito comunista - per un obiettivo elettorale - non può mediare (e la Federazione è una forma strutturata della mediazione) con la sinistra non comunista italiana (di carattere spesso moderato e non di classe), pena la rinuncia drammatica al proprio progetto e al proprio senso d’esistere. Si parla spesso di Federazione di sinistra, in Italia, come se questa fosse un’esperienza inedita.

Sappiamo bene, invece, che esperienze di questo tipo sono già state praticate in Europa e in tutti i casi a venirne fuori con le ossa rotte sono stati i partiti comunisti, a conferma che attraverso le cessioni di sovranità sono essi a pagare il prezzo sociale e politico più alto. Le grandi difficoltà che vivono i comunisti spagnoli all’interno dell’Izquierda Unida (che tanto spesso è stata evocata proprio dai compagni "ferreriani") sono lì a dimostrarlo.

Dunque: la costituente di sinistra di Bertinotti e Vendola, negando di fatto l’autonomia comunista, nega la stessa possibilità di un rilancio di un partito comunista rifondato e all’altezza dell’odierno scontro di classe. Ma il punto è che anche le varie e nebbiose proposte di sinistra "federata" o "coordinata", "immersa nel sociale e nei movimenti "("salvando" il Prc, naturalmente) che emergono dalla prima mozione mettono fortemente a rischio quel bene supremo dell’autonomia che rimane la base imprescindibile per rifondare e ricostruire una forza comunista con vocazione di massa.

Il punto è, ci pare, che si va interiorizzando una concezione dell’unità a sinistra (necessaria, ma da costruire sul campo, nelle lotte e senza svendite delle varie autonomie, comuniste e di sinistra) come "inevitabile" precipitazione organizzativistica e parapartitica, nella quale la cessione di parti anche decisive, strategiche, della sovranità culturale sono considerarate il prezzo da pagare all’unità. Ma in questo quadro, la consunzione del partito comunista è una cronaca annunciata.

La necessità del rilancio della lotta anticapitalista, contro le destre e contro il governo Berlusconi chiede, decisamente, altro: che si ricostituisca un partito comunista di massa, non governista e legato ai movimenti di lotta.