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Giuliana Sgrena : la mia verità

Publie le domenica 6 marzo 2005 par Open-Publishing
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Dazibao Guerre-Conflitti USA medio-oriente

In macchina Nicola Calipari parlava, parlava, era incontenibile, una
valanga di frasi amiche, di battute. Ho provato finalmente una
consolazione calorosa che avevo dimenticato. Nei primi giorni del
rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero infuriata. Uno dei miei
rapitori mi ha raccontato della maglietta di Totti. Era esterrefatto,
diceva di essere tifoso della Roma. Mi hanno fatto vedere un
telegiornale, la Jihad annunciava la mia prossima esecuzione. Ero
terrorizzata. Mi hanno detto: «non siamo noi»

di Giuliana Sgrena

Sto ancora nel buio. E’ stata quella di venerdì la giornata più
drammatica della mia vita. Erano tanti i giorni che ero stata
sequestrata. Avevo parlato solo poco prima con i miei rapitori, da
giorni dicevano che mi avrebbero liberato. Vivevo così ore di attesa.
Parlavano di cose delle quali soltanto dopo avrei capito l’importanza.

Dicevano di problemi «legati ai trasferimenti». Avevo imparato a capire
che aria tirava dall’atteggiamento delle mie due «sentinelle», i due
personaggi che mi avevano ogni giorno in custodia. Uno in particolare
che mostrava attenzione ad ogni mio desiderio, era incredibilmente
baldanzoso. Per capire davvero quello che stava succedendo gli ho
provocatoriamente chiesto se era contento perché me ne andavo oppure
perché restavo. Sono rimasta stupita e contenta quando, era la prima
volta che accadeva, mi ha detto «so solo che te ne andrai, ma non so
quando». A conferma che qualcosa di nuovo stava avvenendo a un certo
punto sono venuti tutti e due nella stanza come a confortarmi e a
scherzare: «Complimenti - mi hanno detto - stai partendo per Roma». Per
Roma, hanno detto proprio così.

Ho provato una strana sensazione. Perché quella parola ha evocato
subito la liberazione ma ha anche proiettato dentro di me un vuoto. Ho
capito che era il momento più difficile di tutto il rapimento e che se
tutto quello che avevo vissuto finora era «certo» ora si apriva un
baratro di incertezze, una più pesante dell’altra. Mi sono cambiata
d’abito. Loro sono tornati: «Ti accompagniamo noi, e non dare segnali
della tua presenza insieme a noi sennò gli americani possono
intervenire». Era la conferma che non avrei voluto sentire. Era il
momento più felice e insieme il più pericoloso. Se incontravamo
qualcuno, vale a dire dei militari americani, ci sarebbe stato uno
scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto.
Dovevo avere gli occhi coperti. Già mi abituavo ad una momentanea
cecità. Di quel che accadeva fuori sapevo solo che a Baghdad aveva
piovuto. La macchina camminava sicura in una zona di pantani. C’era
l’autista più i soliti due sequestratori. Ho subito sentito qualcosa
che non avrei voluto sentire. Un elicottero che sorvolava a bassa quota
proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. «Stai tranquilla, ora ti
verranno a cercare...tra dieci minuti ti verranno a cercare». Avevano
parlato per tutto il tempo sempre in arabo, e un po’ in francese e
molto in un inglese stentato. Anche stavolta parlavano così.

Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilità e
cecità. Avevo gli occhi imbottiti di cotone, coperti da occhiali da
sole. Ero ferma. Ho pensato...che faccio? comincio a contare i secondi
che passano da qui ad un’altra condizione, quella della libertà? Ho
appena accennato mentalmente ad una conta che mi è arrivata subito una
voce amica alle orecchie: «Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti
preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla sei libera».

Mi ha fatto togliere la «benda» di cotone e gli occhiali neri. Ho
provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per
le parole di questo «Nicola». Parlava, parlava, era incontenibile, una
valanga di frasi amiche, di battute. Ho provato finalmente una
consolazione quasi fisica, calorosa, che avevo dimenticato da tempo. La
macchina continuava la sua strada, attraversando un sottopassaggio
pieno di pozzanghere, e quasi sbandando per evitarle. Abbiamo tutti
incredibilmente riso. Era liberatorio. Sbandare in una strada colma
d’acqua a Baghdad e magari fare un brutto incidente stradale dopo tutto
quello che avevo passato era davvero non raccontabile. Nicola Calipari
allora si è seduto al mio fianco. L’autista aveva per due volte
comunicato in ambasciata e in Italia che noi eravamo diretti verso
l’aeroporto che io sapevo supercontrollato dalle truppe americane,
mancava meno di un chilometro mi hanno detto...quando...Io ricordo solo
fuoco. A quel punto una pioggia di fuoco e proiettili si è abbattuta su
di noi zittendo per sempre le voci divertite di pochi minuti prima.

L’autista ha cominciato a gridare che eravamo italiani, «siamo
italiani, siamo italiani...», Nicola Calipari si è buttato su di me per
proteggermi, e subito, ripeto subito, ho sentito l’ultimo respiro di
lui che mi moriva addosso. Devo aver provato dolore fisico, non sapevo
perché. Ma ho avuto una folgorazione, la mia mente è andata subito alle
parole che i rapitori mi avevano detto. Loro dichiaravano di sentirsi
fino in fondo impegnati a liberarmi, però dovevo stare attenta «perché
ci sono gli americani che non vogliono che tu torni». Allora, quando me
l’avevano detto, avevo giudicato quelle parole come superflue e
ideologiche. In quel momento per me rischiavano di acquistare il sapore
della più amara delle verità.

Il resto non lo posso ancora raccontare.

Questo è stato il giorno più drammatico. Ma il mese che ho vissuto da
sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza. Un
mese da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni più
profonde. Ogni ora è stata una verifica impietosa sul mio lavoro. A
volte mi prendevano in giro, arrivavano a chiedermi perché mai volessi
andar via, di restare. Insistevano sui rapporti personali. Erano loro a
farmi pensare a quella priorità che troppo spesso mettiamo in disparte.
Puntavano sulla famiglia. «Chiedi aiuto a tuo marito», dicevano. E l’ho
detto anche nel primo video che credo avete visto tutti. La vita mi è
cambiata. Me lo raccontava l’ingegnere iracheno Ra’ad Ali Abdulaziz di
"Un Ponte per" rapito con le due Simone, «la mia vita non è più la
stessa», diceva. Non capivo. Ora so quello che voleva dire. Perché ho
provato tutta la durezza della verità, la sua difficile proponibilità.
E la fragilità di chi la tenta.

Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero
semplicemente infuriata. Dicevo in faccia ai miei rapitori: «Ma come,
rapite me che sono contro la guerra?!». E a quel punto loro aprivano un
dialogo feroce. «Sì, perché tu vai a parlare con la gente, non
rapiremmo mai un giornalista che se ne sta chiuso in albergo. E poi il
fatto che dici di essere contro la guerra potrebbe essere una
copertura». E io ribattevo, quasi a provocarli: «E’ facile rapire una
donna debole come me, perché non provate con i militari americani?».
Insistevo sul fatto che non potevano chiedere al governo italiano di
ritirare le truppe, il loro interlocutore «politico» non poteva essere
il governo ma il popolo italiano che era ed è contro la guerra.

E’ stato un mese di altalena, tra speranze forti e momenti di grande
depressione. Come quando, era la prima domenica dopo il venerdì del
rapimento, nella casa di Baghdad dove ero sequestrata e su cui svettava
una parabolica, mi fecero vedere un telegiornale di Euronews. Lì ho
visto la mia foto in gigantografia appesa al palazzo del comune di
Roma. E mi sono rincuorata. Poi però, subito dopo, è arrivata la
rivendicazione della Jihad che annunciava la mia esecuzione se l’Italia
non avesse ritirato le sue truppe. Ero terrorizzata. Ma subito mi hanno
rassicurata che non erano loro, dovevo diffidare di quei proclami,
erano dei «provocatori». Spesso chiedevo a quello che, dalla faccia,
sembrava il più disponibile che comunque aveva, con l’altro, un aspetto
da soldato: «Dimmi la verità, mi volete uccidere». Eppure, molte volte,
c’erano strane finestre di comunicazione, proprio con loro. «Vieni a
vedere un film in tv», mi dicevano, mentre una donna wahabita, coperta
dalla testa ai piedi girava per casa e mi accudiva.

I rapitori mi sono sembrati un gruppo molto religioso, in continua
preghiera sui versetti del Corano. Ma venerdì, al momento del mio
rilascio, quello tra tutti che sembrava il più religioso e che ogni
mattina si alzava alla 5 per pregare, mi ha fatto le sue
«congratulazioni» incredibilmente stringendomi fortemente la mano - non
è un comportamento usuale per un fondamentalista islamico -,
aggiungendo «se ti comporti bene parti subito». Poi, un episodio quasi
divertente. Uno dei due guardiani è venuto da me esterrefatto sia
perché la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle città europee e sia
per Totti. Sì Totti, lui si è dichiarato tifoso della Roma ed era
rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo
con la scritta «Liberate Giuliana» sulla sua maglietta.

Ho vissuto in una enclave in cui non avevo più certezze. Mi sono
ritrovata profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io
sostenevo che bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi
ritrovavo nell’alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di
finire sequestrata per colpa del mio lavoro. «Noi non vogliamo più
nessuno», mi dicevano i sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno
di sangue di Falluja dalle parole dei profughi. E quella mattina già i
profughi, o qualche loro «leader» non mi ascoltavano. Io avevo davanti
a me la verifica puntuale delle analisi su quello che la società
irachena è diventata con la guerra e loro mi sbattevano in faccia la
loro verità: «Non vogliamo nessuno, perché non ve ne state a casa, che
cosa ci può servire a noi questa intervista?». L’effetto collaterale
peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava
addosso. A me che ho rischiato tutto, sfidando il governo italiano che
non voleva che i giornalisti potessero raggiungere l’Iraq, e gli
americani che non vogliono che il nostro lavoro testimoni che cosa è
diventato quel paese davvero con la guerra e nonostante quelle che
chiamano elezioni.

Ora mi chiedo. E’ un fallimento questo loro rifiuto?

http://www.ilmanifesto.it/oggi/art3.html