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FRANCIA, COSTITUZIONE EUROPEA E "MODELLO SOCIALE" EUROPEO: ANALISI GIURIDICA DI UN’IMPOSTURA POLITICA

Publie le venerdì 1 aprile 2005 par Open-Publishing

Dazibao Europa Referendum

di: Serge Regourd tradotto dal francese da Karl&rosa
professore di Diritto pubblico presso la facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Tolosa 1

Il dibattito sul progetto di costituzione europea illustra ancora una volta, ma sotto una luce particolarmente cinica, le "astuzie della dialettica": gli stessi che magnificano rumorosamente le virtù del "modello sociale europeo" e di un’Europa sociale partecipano ad un’azione di smantellamento del modello suddetto.

In che consiste - o consisteva - questo modello? In una sintesi fra principi di libertà fondanti il sistema di democrazia liberale costruito su un’economia di mercato da una parte e, dall’altra, i valori di uguaglianza che sono stati fondamento dell’intervento pubblico e la relativa sottrazione alle logiche del mercato e del profitto di un certo numero di attività caratterizzate dalla loro portata, di interesse generale.

E’ questa collocazione fuori del mercato che, in particolare, ha prodotto le logiche dette, nel diritto francese, di servizio pubblico. E’ - o era - legittimo ragionare in termini di "modello europeo" nella misura in cui tutti gli Stati dell’Europa Occidentale avevano sottoscritto una logica dei servizi pubblici, degli interventi pubblici caratteristici dello Stato-provvidenza, comparabile, qualunque fosse la diversità terminologica propria della diversità linguistica degli Stati in questione: l’Educazione, la Salute, i Servizi sociali ma anche i grandi Servizi in rete - trasporti ferroviari, aerei, poste, telecomunicazioni, distribuzione del gas, dell’elettricità - erano organizzati dappertutto nel quadro di interventi pubblici, il più spesso sotto forma di imprese pubbliche in posizione di monopolio.

Anche i sistemi radio-televisivi erano stati organizzati secondo questa logica di servizio pubblico. Occorre rilevare che la formula ormai tradizionale relativa ad un "servizio pubblico alla francese", o ad una "concezione francese del servizio pubblico" che mira a designare una singolarità della Francia in questo campo, per meglio stigmatizzarla, é assolutamente sbagliata: tutti gli Stati europei hanno conosciuto perimetri e modi d’organizzazione del servizio pubblico comparabili. Le sole sfumature riguardavano le forme giuridiche più specifiche di certi paesi o, ancor più, il carattere più o meno decentralizzato - o centralizzato - dei modi d’organizzazione.

La vera specificità francese in questo campo é relativa al discorso politico collegato, o se si preferisce all’esplicitazione dei fondamenti e delle finalità politiche dei servizi pubblici. Mentre la maggior parte degli altri paesi europei hanno fatto in qualche modo dei servizi pubblici senza saperlo, come il Signor Rossi faceva della prosa, rispondendo empiricamente a bisogni sociali che non potevano essere abbandonati alla pura logica del mercato, la Francia si é caratterizzata per una rivendicazione teorica e concettuale del servizio pubblico, alimentata sia dalle costruzioni dottrinarie dei "giuristi-sociologi" che proprio dalla relazione stabilita sul terreno fra servizio pubblico dell’insegnamento e dibattito sulla laicità [1].

Per farla breve, la questione della Repubblica, concettualizzata fin dalla III Repubblica, integra quella dei servizi pubblici. Cio’ che, a partire da allora, si é qualificato in Francia come "Patto Repubblicano" fra le principali forze politiche riguarda precisamente la collocazione fuori del mercato di un certo numero di attività sociali. Ma questo concetto francese é ben conforme a cio’ che la vulgata contemporanea qualifica come "modello sociale europeo".

Dissociata da un tale modello, la costruzione comunitaria é stata fondata, fin dall’origine, su un concetto propriamente liberista del mercato Europeo. Fin dal 1957, il trattato di Roma é organizzato intorno a quattro libertà fondamentali che non hanno mai cessato di strutturare i testi e le politiche conseguenti: libertà di circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone. Il discorso politico-mediatico dominante fa sempre, quando si tratta di identificare le origini politiche dell’Europa all’indomani della seconda guerra mondiale, una confusione fra questa Europa propriamente economica, istituita sotto il nome di Comunità Economica Europea (CEE) e un’altra Europa, propriamente politica: il Consiglio d’Europa, costituito molti anni prima, intorno all’applicazione dei principi democratici e della protezione dei diritti e delle libertà dei cittadini degli Stati membri nel quadro della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo (1950).

I trattati successivi a quello di Roma, in primo luogo l’Atto Unico (1986), hanno accelerato ed approfondito questa dinamica propriamente liberista con il passaggio al "mercato unico", poi con il trattato di Maastricht (1992) e la "moneta unica".
L’insolente prevalenza delle logiche dell’Europa mercantile ed il suo "deficit democratico" - denunciato perfino dalla Signora Thatcher!... - hanno evidentemente convinto i suoi promotori della necessità di darle una dimensione politica, pena la privazione di ogni legittimità. E non é contestabile che i trattati successivi hanno tenuto conto, accanto a disposizioni puramente economiche, di un certo numero di preoccupazioni di natura politica ed istituzionale. Ma il deficit democratico e sociale non é stato ripianato, malgrado le stravaganti promesse fatte nel contesto del referendum di Maastricht pîù di 10 anni fa...[2]

Frattanto, le interpretazioni ed applicazioni del diritto dei trattati hanno considerevolmente confortato ed accentuato le tendenze liberiste della costruzione comunitaria. I "chiarimenti" giurisprudenziali della Corte di Giustizia delle Comunità che hanno potuto riguardare il trattamento dei servizi pubblici - Servizi di interesse economico generale (SIEG) nella terminologia comunitaria - appaiono ormai come oasi lontane nel deserto del diritto della concorrenza ed il diritto derivato sotto forma di direttive si presenta come un diritto di liberalizzazione che dissolve sistematicamente l’organizzazione dei servizi pubblici degli Stati membri, in tutti i servizi in rete: trasporti, energia, comunicazioni, poste. [3]

E’ in questo contesto globale di liberalizzazione a marce forzate, di generalizzazione del diritto della concorrenza e di apertura dei mercati, di ristrutturazioni e delocalizzazioni di imprese sotto la pressione di queste logiche concorrenziali che si presenta il progetto di Costituzione Europea. Il progetto iniziale si propone proprio per quel che é: "costituzionalizzare" lo stato di diritto liberista che fin dall’origine ha caratterizzato la costruzione europea.

Su questo punto, conviene render giustizia ai difensori di questo progetto. Esso non opera una rottura reale riguardo al passato, non capovolge la natura dell’Europa in questione. Costituisce semplicemente una nuova tappa, che scolpisce nel marmo costituzionale, come é stato detto da molti commentatori, questo modello liberista. Ma questa tappa non ha soltanto una portata formale o simbolica, essa é carica di conseguenze sul terreno giuridico e, corrispettivamente, su quello politico. Si tratta di una tappa ulteriore verso un’integrazione di tipo federale, ma di un federalismo imposto artificialmente ai popoli europei, sulla base di imperativi economici e mercantili, che vengono ad ipotecare ogni possibilità di un’"Altra politica" da parte degli Stati membri sul piano nazionale: "La Costituzione ed il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione, nell’esercizio delle competenze che le sono attribuite, prevalgono sul diritto degli Stati membri" ricorda l’articolo I.6 del progetto, e più del 70% dell’attuale legislazione di uno Stato come la Francia costituisce già la semplice trasposizione del diritto comunitario. Agli "obblighi europei" fanno regolarmente ricorso i responsabili politici per giustificare scelte di politiche pubbliche contestate dalle opinioni pubbliche. Ma, sottoscrivendo essi stessi all’elaborazione di tali obblighi, che altro fanno questi dirigenti se non giocare ai "pompieri piromani"?

Nell’attuale dibattito, i difensori del progetto sostengono, ancora una volta, che grazie a questo testo l’Europa accederebbe ad una reale dimensione politica - corrispondente alla natura costituzionale del testo - che costituirebbe un "progresso" democratico e sociale. Ne minimizzano e ne occultano, invece, le caratteristiche intrinsecamente liberiste. Eppure queste ultime costituiscono l’essenziale del contenuto del progetto (II) mentre le sue virtù "democratiche" sono, ahimé, molto contestabili (I)

I - La riduzione progressiva dei "progressi" democratici

I supposti "progressi democratici" corrispondono, da una parte, ai progressi istituzionali nei processi decisionali, dall’altra, e soprattutto, all’inserimento della Carta dei Diritti fondamentali, salutato come un formidabile cambiamento qualitativo dell’Europa. Ma nel primo caso si tratta solo di progressi modestissimi, mentre il secondo é un’illusione o perfino un regresso.

A) Una terapia istituzionale modestissima per correggere il deficit democratico. Anzitutto ci si puo’ chiedere quali siano le virtù democratiche di un testo di 448 articoli, di un volume quindici volte superiore a quello del testo della Costituzione francese, corredato di due allegati, 36 protocolli, 39 dichiarazioni, la cui redazione complessa scoraggia la lettura, perfino in diagonale, dell’onesto cittadino comune. Ma, oltre a queste difficoltà formali, é evidentemente il contenuto dei dispositivi istituzionali che provoca i commenti. I responsabili del Partito Socialista favorevoli al "SI’" sottolineano soprattutto la rivalutazione dei poteri del Parlamento Europeo, che sarebbe riconosciuto come potere legislativo in pieno esercizio. Il Parlamento Europeo gode certo di un miglioramento della sua sorte: la procedura detta di "codecisione" che lo associa all’elaborazione della legislazione europea é estesa a un maggior numero di materie: da 32 a quasi 80. Ma su queste materie (articolo I-20) il Parlamento continua a non poter approvare i testi che desidera, perché perfino in questa situazione ottimale si limita a "codecidere" con il Consiglio dei Ministri, dispone, per cosi’ dire, solo di una facoltà di impedire - "e non di una reale facoltà di decidere" - nel senso delle prerogative individuate da Montesquieu in poi. Occorre soprattutto sottolineare che il Consiglio dei Ministri conserva l’esclusività di questa competenza legislativa in molte delle materie più importanti, come le questioni fiscali, sociali, di politica estera, sicurezza etc.

Escluso da queste materie, inoltre, il Parlamento europeo continua a non disporre di un reale potere di bilancio e non puo’ intervenire in materia di introiti, mentre la genesi dei Parlamenti nazionali in Europa - e quindi dell’organizzazione democratica " é stata legata al principio del "consenso all’imposta" da parte della rappresentanza dei cittadini. Ma, ancora più nettamente, il progetto di Costituzione (art.I.26-2) riafferma il principio del monopolio dell’iniziativa legislativa a vantaggio della Commissione, l’organo integrato, espressione di quel potere tecnocratico tanto spesso denunciato: "Un atto legislativo dell’Unione puo’ essere adottato solo su proposta della Commissione".

Il discorso promozionale sui "progressi democratici" che caratterizzano il ruolo del Parlamento ha sottolieato anche che esso disporrebbe ormai del potere di nomina del Presidente della Commissione. In realtà, l’articolo I.27-1 prevede che "il Consiglio d’Europa ( ), a maggioranza qualificata, propone al Parlamento Europeo un candidato alla funzione di presidente della Commissione". Se costui "non ha la maggioranza, il Consiglio d’Europa propone, entro una nuova scadenza di un mese, un nuovo candidato". Dunque il Parlamento Europeo non é competente nella scelta del Presidente della Commissione ma solo nella conferma o nel rifiuto della conferma delle scelte del Consiglio d’Europa. Tanto più per gli altri membri della Commissione, scelti "di comune accordo" dal suo Presidente e dal Consiglio d’Europa, mentre al Parlamento Europeo si chiede solo "un voto d’approvazione".

Aldilà dei poteri del Consiglio d’Europa e del Consiglio dei Ministri, che esprimono l’uno e l’altro la partecipazione degli Stati membri al funzionamento delle istanze Europee, il cuore della "governance", secondo l’espressione europea di moda, resta più che mai la Commissione, sprovvista di ogni legittimità democratica: é essa (art.I.26-1) che "promuove l’interesse generale dell’Unione e prende le iniziative adatte a questo scopo. Essa veglia sull’applicazione della Costituzione ed sulle misure adottate dalle istituzioni in base ad essa. Sorveglia l’applicazione del diritto dell’Unione sotto il controllo della Corte di giustizia dell’Unione Europea etc.".

Quando si conoscono le strette relazioni mantenute dai membri della Commissione con gli organismi rappresentativi dei grandi interessi economici multinazionali, c’é da interrogarsi sul carattere democratico dell’"interesse generale" cosi’ affidato alla Commissione: Romano Prodi, Mario Monti, Pascal Lamy e molti altri loro colleghi hanno assiduamente frequentato le potenti lobbies padronali come il gruppo di Bilderberg, il T.A.B.D. (Transatlantic Business Dialogue) o la Commissione Trilaterale. E’ dunque da queste lobbies che David Rockefeller, cofondatore dell’ultima e del gruppo di Bilderberg ha potuto, ad esempio, sviluppare la tesi secondo la quale "Qualcosa deve sostituire i governi, ed il potere privato mi sembra l’entità adeguata per farlo" [4].

Di fronte ad una tale concezione, come non dare un senso alle dichiarazioni di Pascal Lamy che si rivolge, per esempio, a nome della Commissione, ai membri del T.A.B.D. in questi termini: "Constatiamo grandi sforzi per mettere in atto le vostre raccomandazioni nel quadro della partnership economica transatlantica e ci sono progressi sostanziali nelle molte materie sulle quali avete attirato la nostra attenzione. In conclusione, faremo il nostro lavoro sulla base delle vostre raccomandazioni" [5].

Il ruolo prevalente della Commissione si esercita ugualmente nei confronti dell’altro preteso formidabile "progresso democratico" che costituirebbe il diritto di petizione (Articolo I. 47-4). Certo, un milione di cittadini di un numero significativo di Stati membri possono esercitare questo diritto di petizione, ma quest’ultimo consiste solo nell’"invitare la Commissione a sottoporre una proposta appropriata ai fini dell’applicazione della Costituzione"!... Da una parte, si tratta solo di un "invito" rispetto al quale la Commissione conserva un potere discrezionale, dall’altra, e soprattutto, nell’ipotesi più favorevole, in base alla quale un tale invito avesse un effetto, non potrebbe essere altro che quello di confortare l’applicazione della Costituzione cosi’ com’é ed evidentemente non quello di modificarla.

D’altronde la Commissione dispone di un potere di blocco paragonabile quando si tratta delle "cooperazioni rinforzate" che potrebbero voler mettere in atto almeno un terzo degli Stati membri (articolo I. 44 e III. 419).

Quanto, infine, a coloro che pensano alle logiche della democrazia in termini di decentralizzazione e di prevalenza del ruolo delle Collettività territoriali, dovranno rassegnarsi ad ammettere la loro assenza nel testo costituzionale, che si limita a segnalare l’esistenza del "Comitato delle regioni".

Ma bisogna riconoscere che, dal punto di vista democratico, é la Carta dei Diritti fondamentali, che costituisce la parte II del progetto, che scatena l’entusiasmo più beato dei suoi sostenitori.

B) La carta dei Diritti fondamentali: Dall’illusione alla regressione.
Per ogni onesto conoscitore del diritto delle libertà pubbliche, la prima questione che si pone a proposito di questa carta é: a cosa puo’ servire? Cosa aggiungerà ai sistemi nazionali già esistenti? Tutti gli Stati membri dell’Unione Europea dispongono, per definizione, di un sistema di protezione dei diritti e delle libertà considerato completo e risultante ad un tempo dalle loro Costituzioni nazionali e dai loro impegni internazionali nei patti relativi ai diritti dell’uomo ed in particolare dalla Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo in seno al Consiglio d’Europa. Quest’ultima gode di una procedura particolarmente sofisticata alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, fondata su un diritto di ricorso individuale dei cittadini degli Stati membri contro le autorità del loro Stato e la cui giurisprudenza é sempre molto apprezzata. Se si ragiona sul caso della Francia, a partire da una celebre decisione del Consiglio Costituzionale, nel 1971, il "blocco di costituzionalità" implica tutti i grandi testi di definizione dei diritti e delle libertà: dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, corrispondente alla prima generazione dei diritti, politici e individuali, fino al Preambolo della Costituzione del 1946, corrispondente alla seconda generazione dei diritti economici e collettivi, passando per i "principi fondamentali riconosciuti dalle leggi della Repubblica" [6]. D’altronde, dopo che l’articolo I. 9 ha indicato che "l’Unione aderisce alla Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo" ma che questa adesione "non modifica le competenze dell’Unione come sono definite nella Costituzione", l’articolo II. 111-2 precisa chiaramente che "la presente carta non crea nessuna competenza né compito nuovo per l’Unione". L’articolo II. 112-2 aggiunge che "i diritti riconosciuti dalla presente carta" si esercitano nelle "condizioni e nei limiti definiti dalle altre parti della Costituzione".

Ma una lettura più attenta delle diverse disposizioni della Carta fa apparire in realtà che, aldilà dell’illusione, si tratta di un regresso quanto alla concezione dei diritti e delle libertà in questione. Secondo il modello del Preambolo della Costituzione del 1946 in Francia, conforme a questo proposito alla concezione fondante della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, i diritti sanciti in materia sociale corrispondono ad una concezione dei "diritti-crediti", trattati come prestazioni, garanzie che il potere pubblico deve assicurare ai suoi cittadini, crediti costitutivi precisamente dello "Stato-provvidenza" e opposti ad una concezione liberista dei diritti, concepiti come semplici facoltà individuali riconosciute agli individui, che il potere pubblico deve rispettare. A questo proposito, é sintomatico che nella carta molti diritti che hanno un’incidenza sociale sono presentati a partire dalla formula: "L’Unione riconosce e rispetta" (per esempio, il diritti delle persone anziane ad avere una vita dignitosa. - art. II.85 -, idem art.II. 86 per i portatori di handicap.) che non esprime alcuna garanzia a carico dei pubblci poteri.

Lo stesso (art.II. 94) per "il diritto d’accesso alle prestazioni previdenziali e dei servizi sociali" che l’Unione "riconosce e rispetta" senza altre precisazioni di natura giuridica, dato che queste prestazioni possono consistere, al di fuori di ogni logica di solidarietà, in un accesso mediante assicurazioni private e poiché il riconoscimento dell’accesso non significa affatto la sua garanzia, contrariamente, per esempio, alle disposizioni della Costituzione Francese derivata dal Preambolo del 1946, che formulano "il diritto di ottenere dalla collettività mezzi di esistenza adeguati" e la "garanzia per tutti’ da parte della Nazione della "protezione della salute, della sicurezza materiale".

In modo caricaturale, "il diritto al lavoro" si vede sostituito, secondo la stessa logica, dal "diritto di lavorare" e dalla "libertà di cercare un impiego" (Art. II. 75-1 e 2). Se il diritto all’Educazione é riconosciuto (Art.II 74), esso comporta in modo esplicito solo "la facoltà di seguire gratuitamente l’insegnamento obbligatorio" (comma 2), messa sullo stesso piano della "libertà di creare degli istituti di insegnamento". (Comma 3). L’assenza di ogni ispirazione sociale si esprime ancora, ma sotto un’altra forma trattandosi del diritto a ricorrere ad "azioni collettive" (Art II. 88) mediante la non-distinzione fra "lavoratori e datori di lavoro" sottoposti allo stesso regime per queste azioni "compreso lo sciopero"!...

Tutto questo non impedisce ai sostenitori del "si’", che si richiamano ad un’"Europa sociale", di lodare le virtù della Carta esibendo come un trofeo strappato dopo una dura lotta la menzione, nella carta, dei servizi pubblici - più esattamente servizi di interesse economico generale - apparizione quasi miracolosa che sarebbe fonte di redenzione per i servizi pubblici che finora, d’accordo, sono stati tanto maltrattati dall’Europa liberista.

In realtà, il provvidenziale articolo II.96 si accontenta di indicare, secondo la formula tipo già ricordata, che "L’Unione riconosce e rispetta l’accesso ai servizi di interesse economico generale come previsto dalle legislazioni e pratiche nazionali, conformemente alla Costituzione". Ora, cio’ che i decenni passati illustrano in modo accecante é che le legislazioni e le pratiche nazionali in questa materia continuano ad essere modificate, ridotte, amputate per la loro sottomissione al diritto comunitario della concorrenza ed alle direttive di liberalizzazione che lo attuano. Non é significativo a questo proposito che i servizi pubblici non solamente on siano menzionati nel Preambolo di questa carta - che invece non dimentica di integrare la circolazione dei capitali o delle merci - ma che essi non figurino neppure fra i "valori" dell’Unione, né nella lunga lista di "obiettivi dell’Unione" esposti nei primi articoli della parte I?

Per raggiungere questi obbiettivi, cio’ che l’Unione "offre ai suoi cittadini", oltre ai grandi riferimenti rituali a "libertà, sicurezza, giustizia", é prevalentemente "un mercato interno dove la concorrenza é libera e non falsata" (Art.I 3-2), formula che in qualche modo costituisce il principio e la fine di questa testo e che struttura tutta la parte III, relativa alle "politiche" dell’Unione.

II - La Costituzionalizzazione delle norme economiche liberiste

Dopo che per molti mesi i propagandisti del progetto in causa non hanno smesso di sottolineare la sua natura propriamente costituzionale, per meglio marcare il mutamento qualitativo compiuto da un’Europa economico-mercantile ad una autenticamente politica, gli interrogativi e le inquietudini suscitate nell’opinione pubblica li hanno portati a rivedere il documento ed a minimizzare la natura di questo testo, indicando che era solo un trattato come i precedenti, anzi un semplice regolamento interno [7] di cui l’Europa si doterebbe. Questa rettifica di comunicazione non deve ingannare: sul piano formale, il testo in questione avrà, se ratificato, un valore superiore all’insieme degli atti giuridici degli Stati membri, ivi comprese le loro Costituzioni nazionali, delle "leggi europee", superiori queste ultime alle legislazioni nazionali, e, sul piano materiale, questo testo procede a definizioni e ripartizioni di competenze fra poteri pubblici e autorità comunitarie. Risponde bene, aldilà delle singolarità proprie della costruzione europea, ai criteri di una Costituzione sui generis [8]. Ma la controversia sul soggetto puo’ sembrare accademica, poiché l’essenziale é altrove: in effetti non si tratta di una costituzione di diritto comune: mentre l’oggetto materiale delle costituzioni é solo quello di garantire l’organizzazione e il funzionamento dei pubblici poteri, di ripartire le competenze, di regolare i rapporti istituzionali fra potere legislativo, potere esecutivo e cittadini, il progetto in questione rifiuta ogni neutralità politica ed istituzionale e definisce esso stesso la natura delle politiche che dovranno essere attuate in base ai più espliciti precetti dell’economia liberale, o più esattamernte neoliberale [9]. Sotto questo aspetto, questo progetto costituisce una rottura, non della natura dell’Europa in corso di costruzione, ma sul terreno dei rapporti fra l’economico e il politico, fra cio’ che tradizionalmente veniva designato come i perimetri del "dominium" e dell’"imperium", ove l’organizzazione giuridico-costituzionale poteva, per sua natura, intervenire solo nel secondo. A questo proposito si compie un ribaltamento istituzionale, che segna un’evoluzione del capitalismo di cui lo stesso Marx non aveva previsto l’insolenza: l’esplicitazione costituzionale della strumentalizzazione delle sovrastrutture politiche ad opera delle esigenze del mercato. Che significato dare, ad esempio, alle ingiunzioni date agli organi dell’Unione all’articolo III. 157: "Il Parlamento Europeo ed il Consiglio si sforzano di realizzare l’obiettivo della libera circolazione dei capitali fra Stati membri e paesi terzi nella misura massima possibile", ingiunzioni conformi al dogma liberista secondo il quale "le restrizioni, tanto al movimento di capitali quanto ai pagamenti fra gli Stati membri e fra gli Stati membri ed i paesi terzi sono vietate" (Art.III.156).

Come, in queste condizioni, la sorte dei servizi pubblici potrebbe sfuggire agli imperativi categorici della Ragione mercantile?

A) I servizi pubblici, capri espiatori del diritto comunitario
L’esistenza dei "Servizi di interesse economico generale" é confermata dall’articolo III. 122, dopo la menzione citata prima nella carta dei diritti fondamentali. L’Unione e gli Stati membri "vegliano affinché questi servizi funzionino sulla base di principi ed in condizioni economiche e finanziarie che permettano di assolvere alla loro missione". Viene precisato che "la legge europea stabilisce questi principi e fissa queste condizioni". Queste disposizioni si intendono evidentemente "nel rispetto della Costituzione" e, in particolare, "senza pregiudizio degli articoli I. 5, III.166, III. 167, III. 238".

Secondo i dirigenti del Partito Socialista favorevoli alla Costituzione, questa disposizione costituirebbe "per la prima volta" una consacrazione dei servizi pubblici nel diritto comunitario ed esprimerebbe dunque uno di questi famosi "progressi" motivo della loro adesione. Non si sa se un tale giudizio é dovuto alla malafede propria di un certo marketing politico o più semplicemente ad una reale ignoranza del diritto comunitario. Comunque sia, le menzioni dei servizi di interesse economico generale esistevano già nei testi precedenti, ad esempio all’articolo 16 del Trattato di Amsterdam, ma, soprattutto, il regime di questi servizi é rigorosamente immutato rispetto a quello che risulta dallo stato del diritto antecedente. Questo regime, fissato essenzialmente all’articolo III. 166-2, non é che la riproduzione dell’articolo 86-2 del trattato CE che ha costituito il motore stesso della dissoluzione dei servizi pubblici: secondo questo regime, i servizi detti di interesse economico generale sono soggetti, per principio, al diritto comune della concorrenza e solo a titolo di deroga o di eccezione, le cui condizioni sono strettamente e rigorosamente controllate dalla Corte di giustizia delle comunità, possono sfuggirvi per conservare i tratti istitutivi che avevano loro storicamente conferito le legislazioni e le pratiche nazionali come attività fuori mercato: "Le imprese incaricate della gestione dei servizi di interesse economico generale sono soggette alle disposizioni della Costituzione, in particolare alle regole della concorrenza, nella misura in cui l’applicazione di queste disposizioni non ostacola il compimento, di diritto o di fatto, della particolare missione che é loro affidata", e "lo sviluppo degli scambi" "non deve esserne influenzato in una misura contraria agli interessi dell’Unione".I limiti della presente analisi non permettono di sviluppare la sorte riservata ai servizi pubblici dal diritto comunitario, che riconosce solo "missioni" di servizio pubblico che pesano sulle imprese che lo gestiscono (essendo ogni modo di organizzazione considerato, ipso facto, come un’impresa, anche nel caso di servizi non personalizzati di collettività pubbliche).

L’identità stessa di servizi pubblici risulta svuotata da questa concezione del diritto comunitario secondo cui il principio é la concorrenza, limiti da regolamenti specifici possono essere imposti solo come palliativi o deroghe per garantire prestazioni "minime" o "di base" ai cittadini esclusi dall’offerta mercantile ordinaria. Questa concezione, corrispondente alla definizione del "servizio universale" formulata da numerose direttive della liberalizzazione, si traduce, per esempio, in materia di telefonia, interamente liberalizzata, nell’obbligo di mantenere una cabina in ogni comune. La logica fondamentale di questa concezione - che un Ministro dell’Industria, di destra, Franck Borotra, aveva avuto l’onestà di qualificare come "miserabilista" - é che tutti i servizi devono essere garantiti da imprese alle quali i poteri pubblici possono soltanto imporre, in certi casi, il rispetto di regole specifiche o assicurare finanziamenti specifici, esigendo di dissociare l’autorità organizzatrice del servizio dall’impresa che lo presta. [10]. Quanto alla disposizione dell’articolo III. 122 che prevede una legge europea in questa materia, essa non potrebbe occultare il fatto che da molti anni i difensori del servizio pubblico hanno insistito perché fosse varata una "direttiva-quadro" sui servizi di interesse economico generali alla quale la Commissione si é sempre opposta, proprio perché non vuole definire i SIEG né, corrispettivamente, fissare i loro limiti rispetto ai SIG (Servizi di Interesse Generale) non economici finora (sanità, educazione, cultura) ma che rappresentano un mercato che in qualche misura ha la vocazione per essere anch’esso attratto dal diritto della concorrenza.

A proposito di "progresso" anche qui é lecito interrogarsi per sapere se non si tratta piuttosto di un regresso: l’ormai "esecrabile Trattato di Nizza" aveva messo i servizi pubblici fra i "valori comuni" dell’Unione. Non é più questo il caso, lo si é detto, nel progetto di Costituzione.

Per il resto, le esigenze costituzionali continuano ad essere declinate in termini di "liberalizzazione dei servizi". L’articolo III. 147 prevede che "la legge-quadro europea stabilisce misure per realizzare la liberalizzazione di un determinato servizio", ma aldilà di questo principio di liberalizzazione, l’articolo III. 148 aggiunge che "gli Stati membri si sforzano di procedere alla liberalizzazione dei servizi oltre la misura obbligatoria in virtù della legge-quadro europea, se la loro situazione economica generale e la situazione del settore interessato lo consentono. La Commissione indirizza agli Stati interessati delle raccomandazioni a questo scopo" : non si puo’ essere più chiari !...

B) Il mercato "libero e non falsato" come fondamento della legittimità politica europea.
Insieme allo sradicamento dei servizi pubblici come li avevano costruiti il modello sociale europeo e fondati le logiche dello Stato-provvidenza, il modello neo-liberale attuato dalla costruzione europea rifiuta i finanziamenti pubblici la cui natura falsa il sacrosanto principio della libera concorrenza. L’articolo III. 167 ricorda che "sono incompatibili con il mercato interno gli aiuti accordati dagli Stati membri o con risorse dello Stato in qualsiasi forma, che falsano o minacciano di falsare la concorrenza". Ma queste esigenze del mercato interno si adeguano, invece, all’assenza di qualsiasi armonizzazione fiscale e sociale. Queste ultime sono dimenticate dal progetto di Costituzione ed ogni velleità in questo senso resta soggetta alla regola dell’unanimità degli Stati. L’ideale del mercato libero e non falsato non teme d’incorporare anche logiche di dumping fiscale e sociale tali da incoraggiare la delocalizzazione di imprese. A questo riguardo il progetto non manca di sottolineare che "le restrizioni alla libertà da parte del cittadino di uno Stato membro di stabilirsi sul territorio di un altro Stato membro sono vietate", precisando che questo "divieto si estende egualmente alle restrizioni riguardanti la creazione di agenzie, succursali o filiali" da parte dei cittadini di uno Stato membro sul territorio di un altro Stato membro (Art. III. 137).

Il progetto di direttiva detta "Bolkestein", di cui gli stessi sostenitori della Costituzione non possono che denunciare i pericoli, appare cosi’ solo un’escrescenza caricaturale delle logiche su cui si basa il progetto di Costituzione. L’insieme della parte III di quest’ultimo é ritmato dai ripetuti riferimenti alla libertà di circolazione, in particolare delle merci, dei servizi e dei capitali (menzionati fin dalla parte I al titolo delle "libertà fondamentali" art.I. 4), del mercato dove la crescita é libera e non falsata, della competitività [14]. Questi "valori" elevati a norme costituzionali colpiscono tutti i settori. Non ci si stupirà che le politiche industriali siano concepite riguardo all’imperativo della "competitività", conformemente a un "sistema di mercati aperti e concorrenziali", che mira ad "accelerare l’adeguamento dell’industria ai cambiamenti strutturali" (Art. III. 279), il che costituisce un quasi-incoraggiamento alle delocalizzazioni (tanto che questo stesso articolo prescrive espressamente in questa materia "l’esclusione di ogni armonizzazione delle disposizioni legislative e normative degli Stati membri" comma 3). Ma le politiche in materia di impiego sono affrontate a partire dallo stesso prisma: si tratta di "promuovere una mano d’opera qualificata, formata e suscettibile di adeguarsi e dei mercati del lavoro adatti a reagire rapidamente all’evoluzione dell’economia" (Art. III.203). Un’altra maniera di prescrivere la flessibilità dell’impiego e la necessità di alleggerire il diritto sociale, conforme, in Francia, alle aspettative del MEDEF. Quanto alla politica sociale (Art.III. 209), essa si rimette al "funzionamento del mercato interno che favorirà l’armonizzazione dei sistemi sociali", il che permette di capire che gli stessi sistemi di sicurezza sociale devono restare "compatibili con la Costituzione" (Art. III. 210) se certi Stati membri desiderano "mantenere o stabilire misure di protezione più strette" rispetto alla norma comunitaria.

Perfino il campo della ricerca (Art. III. 248) é affrontato in termini di "competitività" e di "apertura dei mercati pubblici nazionali".

Anche se non si possono trattare qui tutte queste materie, non si puo’ omettere l’articolo III. 314, che basterebbe da solo a fornire l’identità profonda del progetto in causa, riguardante la politica commerciale comune, cioé la posizione dell’Unione nei negoziati commerciali internazionali: "l’Unione contribuisce, nell’interesse comune, allo sviluppo armonioso del Commercio mondiale, alla soppressione progressiva delle restrizioni agli scambi internazionali ed agli investimenti stranieri diretti". Questo programma é proprio quello dell’OMC, attuato precisamente nel quadro dell’AGCS (Accordo Generale sul Commercio dei Servizi) e va perfino oltre: gli investimenti esteri diretti costituiscono l’oggetto del progetto di AMI (Accordo Multilaterale sull’Investimento) in seno all’OCSE, abbandonato grazie al ritiro della Francia. Quest’obiettivo di politica commerciale ultraliberale non figurava nell’ormai "detestabile" trattato di Nizza. Si tratta di un "progresso"? Quest’orizzonte insuperabile del mercato competitivo spiega anche che un articolo (III. 131) sia arrivato a prevedere le disposizioni da prendere "per evitare che il funzionamento del mercato interno non sia influenzato in caso di guerra o di tensione internazionale grave che costituisca una misura di guerra". Durante la guerra, gli affari continuano. D’altronde é significativo che mentre l’insieme del testo é concepito sulla base dei precetti del Patto di stabilità monetaria e del rifiuto dei deficit pubblici, il solo campo nel quale si incoraggia la spesa pubblica é quello militare: "Gli Stati membri s’impegnano a migliorare progressivamente le loro capacità militari" (Art. I. 41-3). Ma é vero che, a proposito del postulato della regolazione sociale del mercato, si rinviano gli Stati alle loro funzioni regie minime, come dice l’articolo I. 5, fin dalla presentazione di questo progetto: l’Unione "rispetta le funzioni essenziali dello Stato, precisamente quelle che hanno per oggetto di garantire la sua integrità territoriale, di mantenere l’ordine pubblico e di salvaguardare la sicurezza nazionale".

La semplice lettura attenta di un tale progetto non puo’ lasciare dubbi quanto alla sua natura profonda e, se l’adesione dei liberisti sembra legittima, si resta invece confusi dalla posizione di coloro che pretendono di difendere un’Europa sociale e di garantire la perennità dei servizi pubblici sulla base di un tale testo. Calcoli politici esterni al testo, corredati per alcuni da una certa ignoranza dello stesso, per altri da un’autentica convinzione liberista che non osa dirsi tale finiscono tutti per tessere la trama di una reale impostura politica.

Si capisce allora che la difesa di questo testo sia largamente staccata dal suo contenuto e prenda la strada della propaganda più grossolana per screditare molto più che per "discutere" le posizioni contrarie. Quando Jack Lang sostiene: "Dire si’ al trattato é più che mai dire a Bush che non lo lasceremo fare, Dire no é portare un sostegno di più a questo guerrafondaio, é fare il gioco dell’imperialismo americano" [12], ignora che l’articolo I. 41 dice che la politica di sicurezza e di difesa comune dell’Unione Europea "é realizzata nel quadro della NATO" per gli Stati che ne sono membri (comma 2) e che "gli impegni e la cooperazione in questo campo restano conformi agli impegni sottoscritti in seno alla NATO" (comma 7)? Organizzazione, occorre ricordare, posta sotto l’autorità di un ufficiale superiore americano, che fa riferimento all’autorità del Presidente preso di mira da Lang?

E quando Strauss-Kahn scrive che "mai un trattato europeo aveva assegnato alla costruzione europea obiettivi cosi’ vicini a quelli dei socialisti" [13], la sua concezione dei "socialisti" lascia interdetti, una concezione che non rifiuterebbe né Sellière (ex presidente del MEDEF, corrispondente alla Confindustria, NdT) né Madelin (esponente della corrente ultraliberista della maggioranza governativa, NdT), ferventi sostenitori degli obiettivi in questione.

E’ vero che, in mancanza di argomenti seri, le grandi firme mediatiche che orchestrano il dibattito pubblico hanno, ancora una volta, utilizzato gli argomenti più sottili, ed i più elaborati, in favore di questo progetto. Alain Duhamel ha fatto l’ipotesi, intellettualmente molto stimolante, secondo la quale i sostenitori del No "sono favorevoli a qualcosa di più dirigista dell’odierna Cina comunista" [14] e, altrettanto finemente, Alexander Adler ha emesso la sentenza secondo la quale "la battaglia per il Si’ sarà evidentemente la grande battaglia per la libertà del nostro continente e, lo spero, la grande sconfitta di tutti gli altromondisti che hanno insieme il candore e l’impudenza di dichiararsi "antiliberisti", diciamo più semplicemente nemici della libertà" [15]. Quanto ad Alain Minc, con una posizione ancora più sfumata, egli ha diagnosticato che questi antiliberisti sono davanti alla Costituzione Europea nella posizione di individui "accanto a un bidone di benzina con i fiammiferi in mano" [16].

La violenza mal trattenuta di queste diatribe é in ogni caso il sintomo del fatto che la Costituzione Europea é l’evidenziatore di un’autentica divisione politica fra i liberali di tutte le obbedienze da una parte e quelli che restano fedeli al "modello sociale" inerente, in Francia, al "Patto Repubblicano" richiamato nell’introduzione.

Serge Regourd
Professore di Diritto pubblico
Università Tolosa 1 - Scienze Sociali

[1] Fra le molte pubblicazioni riguardanti l’argomento, cfr. i rapporti pubblici del Consiglio di Stato del 1994: "Servizio, pubblico, servizi pubblici, declino o rinnovamento?" (N°46) e del 1999: "L’interesse generale" (N°50). La Documentazione Francese (EDCE), "Servizio pubblico e legame sociale" (sotto la direzione di S. Decreton) L’Harmattan 1999.

[2] Vedere su questo punto, fra l’altro, il corroborante "bêtisier de Maastricht" Arléa 1997.

[3] Due decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità Europee: Corbeau e comune di Almeln nel 1993 e nel 1995 avevano ripreso una concezione conforme a quella dei servizi pubblici tradizionali convalidando il monopolio postale belga ed i diritti esclusivi di un ente elettrico dei Paesi Bassi. Ma da allora le direttive di liberalizzazione sono intervenute in questa materia riducendone la portata.

[4] « Newsweek International » 1° febbraio 1999.

[5] Bruxelles, 23 maggio 2000. Citato da Raoul-Marc Jennar: "Europe, la trahison des élites", Fayard 2004, che costituisce un’eccellente sintesi di queste questioni.

[6] I "P.F.R.L.R.", che costituiscono la terza fonte costituzionale introdotta dal Consiglio costituzionale nel 1975, corrispondono alle grandi leggi che enunciano le libertà della III Repubblica, come la libertà di stampa (1881), la libertà d’associazione (1991).

[7] Proposta sostenuta da Lionel Jospin in un’intervista al "Nouvel Observateur" 23 settembre 2004

[8] La Costruzione Comunitarianon dipende né dal diritto statale interno né dal diritto internazionale interstatale.

[9] L’economia liberale si adeguava al regime dei servizi pubblici e dello Stato provvidenza precedentemente citati.

[10] Cfr. il rapporto del Consiglio di Stato citato sopra. La concezione citata finisce per rinviare il potere pubblico alle sue funzioni minime di regolamentazione e di cotrollo che caratterizzano lo "Stato gendarme" prima dell’apparizione dei servizi pubblici.

[11] Uno studio lessicologico statistico ha censito 176 menzioni della parola "Banca", 88 menzioni della parola "mercato", 29 volte della parola "concorrenza", 38 volte della parola "commercio" (vedi B.Cassen: "Dibattito truccato sul terreno costituzionale" "Le Monde Diplomatique" febbraio 2005.

[12] « Libération » 5 novembre 2004.

[13] « Libération » 11 novembre 2004.

[14] R.T.L. 15 novembre 2004. Citato da Serge Halimi « Le Monde Diplomatique » Febbraio 2005.

[15] « Le Figaro » 20 ottobre 2004.

[16] « Europe 1 », citato da Serge Halimi. Op. cit.

http://bellaciao.org/fr/article.php3?id_article=13394