Home > Intellettuali e comunismo

Intellettuali e comunismo

Publie le sabato 20 agosto 2005 par Open-Publishing

Dazibao Movimenti Storia Francia Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

Prendiamo quindi i postsessantottardi, quelli acceduti all’esercizio della pontificazione. Non sto polemizzando su quelli diventati, riconosciuti socialmente o anche quelli semplicemente guru di un gruppuscolo. Negli anni ’80 trionfa l’effetto choc della scoperta più o meno progressiva di quella che qualcuno potrebbe chiamare la grande illusione. Comincia come per caso a livello largo, un po’ dopo la morte di Mao Tsedong, il processo alla banda dei Quattro con la condanna a morte (non eseguita) di Qianqing che invoca il diritto alla rivolta permanente per abbattere l’imperatore, l’orrore progressivo per l’esito dei Khmer rossi e quindi il polpottismo. In Francia precipita nella nuova filosofia, leggermente abietta. Non per l’aspetto, che rende più pericolosi individui prima maoisti e successivamente divenuti, via Althusser, marxisti-leninisti. No, è il fatto di mettere in crisi tutto - e questo potrebbe essere ancora un passo avanti - ma soprattutto Glucksmann ripropone immediatamente una mistificazione perfettamente stalinista, ribadendo una logica rigorosamente binaria. Perché se l’orrore - e solo quello - è il comunismo, allora non si può che diventare liberali o socialdemocratici.

Siamo ancora nella coppia oppositiva comunismo-anticomunismo da guerra fredda, che è la cosa che potevano dire all’unisono Voice of America e Radio Mosca. Ma questa idea riduttiva del comunismo aggrada tanto a Berlusconi quanto al professor Luciano Canfora. Uno può dire che il comunismo è (scherzo) quelli che mangiano i bambini, e allora il primo dice guardate che orrore, l’altro replica no i bambini bisogna proprio mangiarli, è necessario, ma in fondo sono d’accordo. Sto banalizzando, ovviamente. Invece i nuovi filosofi ne traevano immediatamente la conseguenza che è la rivoluzione che fa male alla salute mentale ed etica, ed è proprio lì, nel messianesimo, la radice del male. Ma io penso che di messianisti ce ne sono tanti, da Adam Smith a Benjamin (sublime), agli autori della Costituzione americana che promette la felicità, ma non proprio Karl Marx*.

Non è stato mica lui a promettere il paradiso sulla terra, quello è un verso di Heinrich Heine vogliamo il paradiso su questa terra. Dove si trova una riga, dove il dottor Marx abbia scritto una cosa del genere, che magari è bella in un poeta, ma sarebbe terribile in un manifesto per la critica e per l’azione.

*Economia e crisi

Faccio una domanda ai miei antichi maestri. Si può dire che al momento del dibattito attorno ai cosiddetti classici dell’economia, Ricardo, Smith, Maltus, Marx, valeva la formula dell’economia come la scienza che nasce per risolvere il problema di risorse limitate e bisogni crescenti (e si pensava soprattutto all’incremento della demografia)? Oggi, invece, le risorse possono essere limitatissime e decrescenti (a cominciare dalla biosfera), e questo cambia il dato ma, al contempo, vediamo un surplus di bisogni? La capitalizzazione è stata formidabile eppure si vede che qualcosa è andato cambiando. Non è vero che la sua dinamica si soddisfa; invece, la sua passione per il consumo, per il denaro, è senza fondo. Non è vero che il suo modello è la sazietà ma la bulimia: è un’economia tossicomane. Mica c’è un big brother: se si potesse estendere il modello fordista di produzione dei beni di consumo, potrebbe anche andare bene, ma il modello della diffusione dei beni di consumo durevoli, che ha funzionato come volano dell’economia negli anni ’60 in Europa e in una piccola parte del mondo, come impatta sulla dimensione demografica dei sei miliardi di persone? E’ chiaro che il crollo catastrofico ecologico sarebbe l’esito prevedibile, dunque si punta ad altre modalità. L’eroina diventa il paradigma delle merci, merci riservate a pochi e per gli altri, chi è tagliato fuori dal consumo, potrebbe valere l’ipotesi dello sterminio.

Noi eravamo più versati sul terreno della critica del lavoro, ma la critica del feticismo della merce nel senso ripreso dalla scuola di Francoforte e dai situazionisti, ce l’abbiamo presente. In qualche modo uno può dire che già l’automobile è una catastrofe, le ferrovie sono una catastrofe, i neoprimitivisti dicono che in fondo la caduta è cominciata da quando c’è stata la stanzialità, il passaggio da cacciatori ad agricoltori, e poi in qualche modo la parola, il computo, i numeri... Uno può pensare che forse, senza anacronismi, si vivrebbe meglio come si vive nel Tibet, però diciamocelo: pur nel suo carattere alienato e feticistico, quando l’automobile entra nella vita di tanti, uno per un po’ trova soddisfazione. Ma ormai c’è il proporre continuamente uno spasmo nella forma del doppio legame.

Le sigarette che dicono fumami, guardami che bel pacchetto, tu devi morire. Come la promessa attraverso l’ingegneria genetica di correggere le malattie, portare il rischio al limite dello zero o ritardare le frontiere della morte, eppoi ti dicono loro stessi le società che invecchiano, i pesi morti, le genti che vegetano, i vecchi che ancora devono assistere i loro genitori, l’accanimento terapeutico. Ti propongono i telefonini e poi contemporaneamente devi comprare gli accessori per non farti venire il cancro e se poi non cambi subito la marca diventa un’ossessione. Non sto facendo dell’anticonsumismo, ma viene dato sempre un doppio codice, sul mercato vero e proprio, e su quello politico delle correnti sociali, di questa industria della paura, del terrore dell’autoterrore. Non siamo un po’ uno specchio di questo assurdo, di questa economia politica dell’assurdo, in cui l’idea penale è l’unica idea forte, l’unico pensiero forte. Non sto facendo un discorso di inserire dosi di psicocritica, ma, per dirla con Deleuze, tra critica e clinica. Potremmo interpretare tutto questo come un impazzimento psicopatologico che non poteva succedere. Datiamola al 1492, al paradosso della poesia di Pascarella con le caravelle che arrivano, vedono uno tra l’erba e gli dicono ’a bellomo, chissei, e lui chi ho da essere sono un servaggio. E’ chiaro che prima esistevano tanti mondi con le loro temporalità e potevano coesistere senza incrociarsi l’una accanto all’altra, i maya, l’impero celeste, i romani. Quando li metti tutti in comunicazione e si è fatta l’imago mundi, la mondializzazione comincia e quindi c’è il cozzo, l’incompatibilità, si deve o sottomettere o essere sottomessi.

Quando poi questo, negli ultimi 25 anni, si velocizza senza che i tempi fondamentali del cervello umano cambino e allora possono anche venire idee reazionarie, alla Ceronetti o in chiave severiniana, ma anche in chiave critica di questa corsa nihilista del capitale. Ti viene in mente l’apocalisse o allora più che della rivoluzione bisognerebbe parlare con Cesarano di sovversione come nuova forma radicale da porre. E’ quello che io vedo più sottoposto ad un rischio di apocalisse è proprio il mentale, soggetto alla forza della mondializzazione e dei suoi effetti sulla produzione di soggettività, dei modi di vita, delle passioni.

http://orestescalzone.over-blog.com/article-720537.html