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31 marzo 2006, 22:44
I FATTORI CHE GUIDANO IL CALO DEL TASSO DI DISOCCUPAZIONE
La disoccupazione di massa è una delle maggiori incognite che i governi di molti stati europei si trovano oggi ad affrontare. In Francia, ad esempio, questo tema è molto sentito, tanto che sta provocando un clima di profonda sfiducia verso le autorità che si occupano della politica economica sia a livello nazionale che europeo, così come un profondo disagio sociale tra la popolazione.
Anche in Italia, nella seconda metà degli anni 90, la lotta alla disoccupazione è stata sempre in cima alla lista degli obiettivi dell’agenda economica dei vari governi che si sono succeduti.
Oggi, una prima analisi degli indicatori sul tasso di disoccupazione, parrebbe indicare che questo obiettivo sia stato pienamente raggiunto e che mentre molte altre nazioni sono ancora alle prese con questo problema, in Italia si possa guardare alla situazione del mercato del lavoro con diffuso ottimismo.
Il tasso di disoccupazione che nel 1998 era superiore all’11%, oggi si attesta al 7,6%, che in termini di forza lavoro sta a significare che in 8 anni il numero degli occupati è aumentato di più 2 milioni di unità.
Generalmente tassi di crescita dell’occupazione così sostenuti si osservano durante fasi di forte sviluppo dell’economia. In particolare la variabile fondamentale dovrebbe essere costituita dagli investimenti. Un sostenuto aumento degli stessi dovrebbe cioè tradursi in uno spostamento verso l’alto della curva di domanda di lavoro e quindi in un aumento della popolazione lavorativa. Nel momento in cui, una vasta parte della forza lavoro non occupata ha accesso ad un reddito base mensile, è altamente probabile che essa vada ad impiegarne parte dello stesso per aumentare il proprio livello di consumi o, alternativamente, può decidere di non impiegare oggi queste risorse monetarie, ma destinarle a consumi futuri. Questa scelta provocherebbe un aumento dei risparmi e di conseguenza poiché secondo le comuni identità contabili I=sY, si dovrebbe osservare un successivo aumento degli investimenti.
L’espansione delle due fondamentali variabili della domanda aggregata, avendo un impatto positivo sul prodotto interno, dovrebbe quindi condurre ad una sua, alquanto marcata, espansione.
L’analisi del quadro italiano contrasta fortemente con queste conclusioni e andando ad osservare l’andamento delle variabili coinvolte nel processo appena descritto, si rimane abbastanza sconcertati. A fronte dei 2 milioni di posti di lavoro creati si osserva una crescita media degli investimenti molto bassa e nell’ultimo anno questi si sono addirittura ridotti dello 0,6% (Eurostat).
Ancora più desolante il quadro dei consumi delle famiglie. Questi sono cresciuti ad tassi via via decrescenti per attestarsi nel 2005 ad un modesto (+0,2%). Questo dato inoltre va analizzato congiuntamente a quello del credito al consumo che nel nostro Paese si sta espandendo ad un ritmo del 15% annuo, fattore che ci spiega come gli italiani stiano utilizzando sempre più questo strumento per ovviare a budget familiari sempre più limitati. Ovviamente il PIl non poteva che mostrare un andamento analogo con crescita media del TOT negli ultimi 8 anni.
Vi sono vari fattori che possono essere chiamati in causa x spiegare una tale divergenza tra la crescita dell’occupazione e la crescita reale del prodotto interno.
Uno di questi è costituito dal fatto che dei due milioni di nuovi occupati, 635000 derivano dall’emersione di lavoratori sommersi, dato che preso singolarmente è molto positivo, ma che non contribuisce ad una crescita strutturale del Paese, in quanto tali lavoratori si trovavano già inseriti nel sistema produttivo. Tale circostanza, tuttavia, non è sufficiente a spiegare la stagnazione del prodotto nazionale.
Gli ultimi dati Istat sull’occupazione sembrano dar voce a quanti sostengono la tesi di quanti affermano che i nuovi posti di lavoro, riguardando essenzialmente forme contrattuali estremamente flessibili, non rispecchiano un’effettiva espansione della domanda di lavoro e non permettono ai nuovi occupati di migliorare sostanzialmente i propri standard di vita. Dalla riduzione delle unità lavorative emerge, infatti, che in molti casi l’ammontare orario complessivo sia stato frazionato fra più lavoratori.
Bisogna però anche considerare che negli anni precedenti questo indicatore presentava valori sempre positivi e che alcuni studi riferiscono che, l’utilizzo delle nuove forme contrattuali previste dalla legge Biagi è piuttosto limitato ed in molti casi tali assunzioni si trasformano poi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
La quadratura del cerchio va dunque ricercata in un altro aspetto che oltre ad avere l’effetto di deprimere la domanda aggregata va anche a minare la produttività delle aziende italiane, come dimostra il dato sulla competitività del nostro sistema paese che è crollata di oltre Tot posizioni.
Secondo le stime dell’Istat l’inflazione dall’introduzione dell’euro non ha mai superato i 3 punti percentuali mentre le famiglie italiane sembrano percepire un’inflazione molto più elevata. Non è fra gli obiettivi di questo articolo analizzare quale delle due voci in capitolo rappresenti meglio la realtà, in quanto si dovrebbero chiamare in causa argomenti tecnici legati alla metodologia con il quale l’istituto di statistica nazionale calcola il livello dei prezzi.
Ciò che è innegabile è che ci sono state numerose categorie di lavoratori (in particolare quella dei lavoratori dipendenti) che sono state colpite dall’inflazione più di altre, questa affermazione trova fondamento anche dai dati sul potere d’acquisto dei salari italiani presentati dall’ultimo rapporto Eurostat secondo il quale negli ultimi tot anni nel nostro paese l’aumento del potere d’acquisto è stato compreso fra lo 0 ed il 7%, a seconda della categoria considerata, a differenza del 25% in Francia e Gran Bretagna e del 12% Germania.
E altamente probabile quindi che molte aziende stiano assumendo nuovi lavoratori a fronte della caduta del salario reale e che in molti casi si stia operando ove possibile una sostituzione capitale-lavoro utilizzando con maggiore intensità il fattore della produzione più a buon mercato, senza però ricavare vantaggi dal lato della produttività, in quanto ad investimenti sul lato del lavoro corrispondono riduzioni dal lato del capitale e dell’innovazione tecnologica.
Per far ripartire l’economia occorre che essa riceva stimoli sul fronte della domanda mentre bassi salari associati a scarsa competitività sui mercati nazionali la deprimono sia dal lato interno che da quello estero.
In queste condizioni l’aumento dell’occupazione non va a caratterizzare un processo virtuoso, bensì rappresenta un dato fuorviante di un sistema malato.
I FATTORI CHE GUIDANO IL CALO DEL TASSO DI DISOCCUPAZIONE
La disoccupazione di massa è una delle maggiori incognite che i governi di molti stati europei si trovano oggi ad affrontare. In Francia, ad esempio, questo tema è molto sentito, tanto che sta provocando un clima di profonda sfiducia verso le autorità che si occupano della politica economica sia a livello nazionale che europeo, così come un profondo disagio sociale tra la popolazione.
Anche in Italia, nella seconda metà degli anni 90, la lotta alla disoccupazione è stata sempre in cima alla lista degli obiettivi dell’agenda economica dei vari governi che si sono succeduti.
Oggi, una prima analisi degli indicatori sul tasso di disoccupazione, parrebbe indicare che questo obiettivo sia stato pienamente raggiunto e che mentre molte altre nazioni sono ancora alle prese con questo problema, in Italia si possa guardare alla situazione del mercato del lavoro con diffuso ottimismo.
Il tasso di disoccupazione che nel 1998 era superiore all’11%, oggi si attesta al 7,6%, che in termini di forza lavoro sta a significare che in 8 anni il numero degli occupati è aumentato di più 2 milioni di unità.
Generalmente tassi di crescita dell’occupazione così sostenuti si osservano durante fasi di forte sviluppo dell’economia. In particolare la variabile fondamentale dovrebbe essere costituita dagli investimenti. Un sostenuto aumento degli stessi dovrebbe cioè tradursi in uno spostamento verso l’alto della curva di domanda di lavoro e quindi in un aumento della popolazione lavorativa. Nel momento in cui, una vasta parte della forza lavoro non occupata ha accesso ad un reddito base mensile, è altamente probabile che essa vada ad impiegarne parte dello stesso per aumentare il proprio livello di consumi o, alternativamente, può decidere di non impiegare oggi queste risorse monetarie, ma destinarle a consumi futuri. Questa scelta provocherebbe un aumento dei risparmi e di conseguenza poiché secondo le comuni identità contabili I=sY, si dovrebbe osservare un successivo aumento degli investimenti.
L’espansione delle due fondamentali variabili della domanda aggregata, avendo un impatto positivo sul prodotto interno, dovrebbe quindi condurre ad una sua, alquanto marcata, espansione.
L’analisi del quadro italiano contrasta fortemente con queste conclusioni e andando ad osservare l’andamento delle variabili coinvolte nel processo appena descritto, si rimane abbastanza sconcertati. A fronte dei 2 milioni di posti di lavoro creati si osserva una crescita media degli investimenti molto bassa e nell’ultimo anno questi si sono addirittura ridotti dello 0,6% (Eurostat).
Ancora più desolante il quadro dei consumi delle famiglie. Questi sono cresciuti ad tassi via via decrescenti per attestarsi nel 2005 ad un modesto (+0,2%). Questo dato inoltre va analizzato congiuntamente a quello del credito al consumo che nel nostro Paese si sta espandendo ad un ritmo del 15% annuo, fattore che ci spiega come gli italiani stiano utilizzando sempre più questo strumento per ovviare a budget familiari sempre più limitati. Ovviamente il PIl non poteva che mostrare un andamento analogo con crescita media del TOT negli ultimi 8 anni.
Vi sono vari fattori che possono essere chiamati in causa x spiegare una tale divergenza tra la crescita dell’occupazione e la crescita reale del prodotto interno.
Uno di questi è costituito dal fatto che dei due milioni di nuovi occupati, 635000 derivano dall’emersione di lavoratori sommersi, dato che preso singolarmente è molto positivo, ma che non contribuisce ad una crescita strutturale del Paese, in quanto tali lavoratori si trovavano già inseriti nel sistema produttivo. Tale circostanza, tuttavia, non è sufficiente a spiegare la stagnazione del prodotto nazionale.
Gli ultimi dati Istat sull’occupazione sembrano dar voce a quanti sostengono la tesi di quanti affermano che i nuovi posti di lavoro, riguardando essenzialmente forme contrattuali estremamente flessibili, non rispecchiano un’effettiva espansione della domanda di lavoro e non permettono ai nuovi occupati di migliorare sostanzialmente i propri standard di vita. Dalla riduzione delle unità lavorative emerge, infatti, che in molti casi l’ammontare orario complessivo sia stato frazionato fra più lavoratori.
Bisogna però anche considerare che negli anni precedenti questo indicatore presentava valori sempre positivi e che alcuni studi riferiscono che, l’utilizzo delle nuove forme contrattuali previste dalla legge Biagi è piuttosto limitato ed in molti casi tali assunzioni si trasformano poi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
La quadratura del cerchio va dunque ricercata in un altro aspetto che oltre ad avere l’effetto di deprimere la domanda aggregata va anche a minare la produttività delle aziende italiane, come dimostra il dato sulla competitività del nostro sistema paese che è crollata di oltre Tot posizioni.
Secondo le stime dell’Istat l’inflazione dall’introduzione dell’euro non ha mai superato i 3 punti percentuali mentre le famiglie italiane sembrano percepire un’inflazione molto più elevata. Non è fra gli obiettivi di questo articolo analizzare quale delle due voci in capitolo rappresenti meglio la realtà, in quanto si dovrebbero chiamare in causa argomenti tecnici legati alla metodologia con il quale l’istituto di statistica nazionale calcola il livello dei prezzi.
Ciò che è innegabile è che ci sono state numerose categorie di lavoratori (in particolare quella dei lavoratori dipendenti) che sono state colpite dall’inflazione più di altre, questa affermazione trova fondamento anche dai dati sul potere d’acquisto dei salari italiani presentati dall’ultimo rapporto Eurostat secondo il quale negli ultimi tot anni nel nostro paese l’aumento del potere d’acquisto è stato compreso fra lo 0 ed il 7%, a seconda della categoria considerata, a differenza del 25% in Francia e Gran Bretagna e del 12% Germania.
E altamente probabile quindi che molte aziende stiano assumendo nuovi lavoratori a fronte della caduta del salario reale e che in molti casi si stia operando ove possibile una sostituzione capitale-lavoro utilizzando con maggiore intensità il fattore della produzione più a buon mercato, senza però ricavare vantaggi dal lato della produttività, in quanto ad investimenti sul lato del lavoro corrispondono riduzioni dal lato del capitale e dell’innovazione tecnologica.
Per far ripartire l’economia occorre che essa riceva stimoli sul fronte della domanda mentre bassi salari associati a scarsa competitività sui mercati nazionali la deprimono sia dal lato interno che da quello estero.
In queste condizioni l’aumento dell’occupazione non va a caratterizzare un processo virtuoso, bensì rappresenta un dato fuorviante di un sistema malato.
Raffaele Fargnoli
www.lavoce.info