Home > ... > Forum 6430

> Lettera aperta agli studenti francesi da un vecchio ragazzo del “maggio”

16 marzo 2006, 17:37

Lettera aperta agli studenti francesi 2^parte

Mi permetto di approfittare, epperò “a carte scoperte” (dichiarando il gioco, il che rende limpido l’espediente comunicativo) del carattere apparentemente “sghembo” di questa “Lettera aperta” agli studenti francesi -ribellatisi contro una legge che rilancia e santifica una proliferazione colossale del precariato; lotta, movimento che va dilagando e si è trovato un epicentro altamente simbolico, Sorbona occupata e barricate sul Boul’Mich’, con annessi e connessi, che anche volendo non possono non diffondere, come la madeleine della Recherche proustiana, un profumo di remake - per dire alcune cose che probabilmente risultano a prima vista un po’ astruse a lettori e lettrici ventenni, in Italia o in Francia o altrove.

Cose, che possono risultare un po’ “esoteriche”, strizzate d’occhio tra addetti ai lavori. Vero: ma si deve scrivere solo perché chi legge si rassicuri, trovando ciò che sa già, o suppone sapere, trattandolo come il cane di Pavlov; oppure per stupire, angosciare, “stressare”, sgomentare? Certo, per lo più così si fa, cosi’ si fa “in alto” - si fa “dall’alto in basso”. Cosi’ si fa, in primo luogo, nell’immensa “cronaca nera” in tempo reale assestata dai media, così come in tanta fiction “nerissima”, da incubo: si fa cosi’, nella definizione dei confini fra cronaca, fiction, “reality-show”, genere “fantastico”... Come osserva Debord, nella una “follia del capitale”, al di là di una certa soglia, «il vero diventa una figura del falso». Che si fa, si concorre all’abbassare l’attività del pensare all’esibizione alterna di un «latinorum» esoterico, buono a mettere-in-soggezione, vero e proprio «terrorismo intellettuale» che semina sgomento, mobilita forse, ma solo in forme di “psicosi collettive”, che mette in uno stato di vertiginosa frustrazione e di dipendenza per inibire immediatamene ogni fermento di autonomia, di critica, di messa-in-comune? O si partecipa di una riduzione del pensare a “pensiero-propaganda”, forma estrema di un pensiero ridotto a slogan da spot pubblicitari, quale quella che trionfa, con minime eccezioni, negli arenghi dello spettacolo “porno” del confronto pre-elettorale?

Ho pensato dunque di approfittare del gioco e delle regole per diree in parole nude e crude una serie di cose lanciate non certo come tesi, al limite neanche come congetture, diciamo... come “pulci nell’orecchio” destinate alle orecchie di “addetti-ai-lavori” che non sono “studenti della Sorbona” e neanche i loro coetanei in Italia, bensì militanti, e anche militanti che «pensano pubblicamente». Resta, d’altra parte, che queste cose non sarebbero in effetti ininteressanti nemmeno per i “Cari studenti”...

Messe così “le mani avanti”, aggiungo qualche domanda che sarebbe - ripeto- un po’ stolto liquidare come “criptica”. Concludevo la prima parte di questa lettera, domenica, invitando a dimenticare il Novecento, a dimenticare Seconde, Terze e anche quarte e quinte Internazionali, e anche le ideologie di sostituzione. E’ possibile? Prima di dire come, e in che direzione, conviene dire che la peggiore delle superstizioni sarebbe ritenerlo fatalmente impossibile. Mai dire mai... Bisognerebbe pensare una articolazione duale.

1. L’istanza immanente, che Marx aveva chiamato «comunismo critico», vederla come esodo, come qualcosa che non ha un inizio peraltro sempre differito, che prima non c’è poi c’è poi magari muore. Vederlo invece come movimento (diciamo, asintotico), significa poter dire che non è per domani, è da oggi, qui, altrove: e al contempo, che non è che la cosa si definisce per un (una) “fine”, «un regime, uno stato di cose da instaurare, una formula, una ricetta, un piano di riorganizzazione della società», come scrive Marx: e potremmo allungare, col senno di questi anni, la lista di “ciò che non è”, che non «chiamiamo comunismo»: potremmo aggiungere che non è un Eden, un paradiso perduto, una patria esotica lontana, un rimpianto, un qualcosa che un qualche Dio ci aveva promesso, e di cui siamo stati proditoriamente defraudati... Non è un’utopia, una identità, un patrimonio, cioé qualcosa di “proprietario”... Si potrebbe dirlo un movimento “asintotico”, e un’ «idea direttrice» come definisce Foucault, per esempio, l’abolizionismo carcerario. Potremmo pensarlo come una facoltà, un fare: in questo senso, da qui e ora, e senza possibili atti di nascita, copyright, certificati di decesso...

2. Poi c’è la vita materiale, le condizioni dell’esistere, le “infrastrutture contestuali del vivere”. Ecco, lì si dovrebbe essere aperti al coro - plurale, come la biodiversità... - delle forme, dei modi d’azione, delle resistenze e delle offensive e controffensive, degli obiettivi, delle sperimentazioni, e anche inevitabilmente attenti al non eludibile rapporto di forza. L’articolazione di questa “dualità” non è quella fra uovo oggi e gallina domani. Non quella tra cosiddetto “pragmatismo”, terreno difensivo, “sindacalistico” e piano cosiddetto nobile, e al contempo sempre differito, sfuggente, inafferrabile, della “rivoluzionarietà possibile”...

Né quello tra “il pane” e “le rose”. Pensare un orizzonte di fuoriuscita radicale dalle logiche costitutive di questo mondo, è anche l’unica scommessa possibile per sfuggire a quella che - e pazienza se può sembrare “apocalittismo” - a me sembra un fine corsa senza scampo verso uno “sfacelo mentale”, sentimentale, etico... diciamo, antropologico. Perché se è vero come è vero che ciò che si chiama “la Storia” è un lungo fiume di sangue appena interrotto qua e là, è anche vero che questo era bensì atroce, ma (faccio qui volutamente il cinico a fini euristici...) “allora” ognuno sapeva solo delle sue sofferenze, e di quelle del suo prossimo locale...

Oggi, la forma stessa di questo capitalismo (che è stato definito come “cognitivo”, e che per parte nostra diremmo: “sistema capitalistico-statale integrato, biopolitico, illusionistico, tossicomane, psicosomatico, criminogeno/penale...) comporta il fatto che l’orrore universale è - in tempo reale, con un andirivieni tra sguardo d’insieme e dettaglio, fino al “singolare” e all’attimale - sotto-gli-occhi-di-tutti! Ciò che è inedito, e di cui non si possono calcolare le conseguenze a catena, in reazione a catena, è che “tutto” - una Babele infinita di “locali”, di lingue, “valori”, criteri, pesi, misure, memorie - è compresente sullo stesso palcoscenico; e che in più sono compresenti passati, futuri, “remake”, ibridi... Nuovo, inedito, sconosciuto, è che si è scatenata una competizione a morte fra tutti e tutti, fra ciascuno e ciascuno, per dimostrare che il suo Esperanto personale, la sua aritmetica privata.... la sua legittimità assoluta (di vittima innocente etc.) dev’essere “universalmente” riconosciuta.

E questa competizione a morte, al contempo e paradossalmente, rende tutti uguali come l’Unico in serie (produzione di serie di “unicità” esclusive...., di Totalità, di Assoluti..., che omologa ferocemente, rendendo tutti dipendenti come tossici da uno stesso Moloch), e spinge d’altra parte ad una volizione di annientamento di ogni altro “concorrente”. Le due cose sono direttamente proporzionali, facce dello stesso processo. Il piano del “fare comune autonomia” non può dunque darsi che come esodo: e quello preliminare, prioritario (e anche più fattibile) è cominciare a chiamarsi fuori da questa corsa. Forse potremo pensare che c’è scampo (e lavorare per questo) il giorno che uno dei soggetti sottoposti, sopraffatti, sommersi, a chi gli chiede: «Cosa vuoi, implori, reclami, desideri?» - risponderà, come si narra di Diogene ad Alessandro Magno: «Nulla. Che ti levi dalla vista poichè mi copri il sole».

Che un soggetto dica, risponda: «Non reclamo da alcuno e men che mai dalla legalità dello Stato alcun riconoscimento. Alcuna “giustizia” in nome e per conto mio. Non c’è alcun “Altare” di alcuna “patria”, alcuna medaglia che possa interessare noi altri, visto che non abbiamo in comune alcuna lingua». Che alle profferte di quel tipo si risponda, come il Bartheleby di Melville, «I prefer not to». Semmai - questo, piuttosto, sì - aggiungendo «Sciur padrun da li beli braghi bianchi, föra li palanchi, fora li palanchi!» Detto in napoletano: «Posa e sord..». Ecco, solo di questo possiamo discutere. Solo questo ci attendiamo eventualmente da voi, e vi reclamiamo... Su questo, la discussione ricomincia. C’è un lungo elenco da tener presente: precarietà, migranza, specificità dei soggetti più assoggettati alle forme più estreme di quella volizione di possesso/distruzione che è la logica del sistema…E giusto che ci siamo, ci piacerebbe - ma siamo costretti a rinviarlo ad una prossima volta - dire due parole su quello che nel frattempo (mentre gli studenti francesi, cacciati ormai dalla Sorbona, si scontravano con lo Stato di polizia di Sarkozy e di De Villepin per le strade di Parigi) accadeva per quelle di Milano…

Oreste Scalzone www.liberazione.it