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24 luglio 2006, 09:19

Avrei voluto esserci anch’io a Genova cinque anni dopo: Avrei voluto esserci
per abbracciare Heidi e per respirare aria pura, lontana dagli ambienti
della politica istituzionale, le cui logiche mi sono ormai incomprensibili.
Anch’io ho partecipato al concorso al quale non si vinceva niente se non la
possibilità di condividere un ricordo con altri, di mantenere vivo il
ricordo di quei giorni che molti vorrebbero cancellare.Avrei voluto essere
anch’io fra quelle donne non più giovanissime per abbracciarle, soprattutto
avrei voluto esserci per abbracciare Heidi.
Non so se il mio "racconto" al quale, peraltro, non ho nemmeno dato un
titolo sia entrato in finale e sia stato pubblicato, forse si, forse no, ma
poco importa, per me è stato importante scriverlo, il concorso organizzato
dal Comitato Verità e Giustizia per Genova è stato il pretesto per tirare
fuori quello che mi portavo dentro da cinque anni.
Vorrei condividerlo con voi

GENOVA LUGLIO 2001, IO NON DIMENTICO
(Sezione Racconti. Autore Adriana De Mitri)

Genova 2001, io non dimentico, non si può dimenticare, nemmeno volendo, se
si ha un minimo di coscienza, un minimo di consapevolezza, se si ha quel
pizzico di empatia che ci impedisce di pensare ai fatti nostri e ci fa
sentire parte del tutto.
Non si può dimenticare.

Son passati cinque anni e sembra ieri, sembra ieri…”Sai mamma vado a Genova
con i miei amici, ci vediamo su a Bologna e poi andiamo insieme…”
Così mi dice Paola, 23 anni, disposta a interrompere le vacanze nel suo
Salento, per esserci, per poterlo raccontare…e che posso risponderle… “va
bene”.

Sono fiera di lei, ormai vicina alla laurea, sta attraversando una fase che
mi inorgoglisce, la fase dell’impegno, della contestazione, della presa di
coscienza.
“Sai mamma, io vado a Genova” …me lo dice sommessamente, temendo un rifiuto
che sa che non può arrivare.

E’ giusto che abbia voglia di andarci. E’ normale per me preoccuparmi, ma
non posso opporle un rifiuto, non posso e, soprattutto, non voglio.
Piuttosto vorrei andarci anch’io, ma ho una bambina di 79 anni a cui badare,
mentre la mia bambina, quella vera, ormai può volare da sola.

Ha voglia di esserci, Paola, ed è giusto che ci sia.
Per protestare contro un mondo che dimentica gli ultimi, un mondo che ha
perso di vista i veri ideali, un mondo che persegue macabramente le logiche
perverse del profitto.

Ha voglia di esserci, Paola, ed è giusto che ci sia.
La lascio andare non senza preoccupazione. La seguo da lontano, come ho
fatto ogni volta che, bambina, mi ha chiesto di poter andare in bici. Da
sola. A giocare a tennis. Da sola. Di fare finalmente “qualcosa”. Da sola.
Per guadagnare una tappa nella sua crescita, un evento che la rendesse
orgogliosa di aver fatto un altro passo avanti.

E’ il 19 di luglio. È la Festa dei Popoli. Paola mi chiama raggiante e mi
dice che è bellissimo che è un trionfo di colori e di allegria, “mamma qui
è bellissimo, stai tranquilla, va tutto bene”…

Va tutto bene, ma io non sono proprio tranquilla, in verità c’è qualcosa che
mi preoccupa. Sono preoccupata per la macabra danza di morte che ho visto in
tv: Black bloc che danzano la loro marcia di morte. Ce l’hanno scritto in
faccia chi sono e cosa rappresentano, ma, chissà perché, arrivano
indisturbati e nessuno se ne preoccupa.

È il 20 luglio, Paola, mi dice che è tutto tranquillo.”Lanceremo palloncini
colorati oltre la zona rossa…”
E io seguo tutto spasmodicamente in televisione, soprattutto sulla Sette, l
’unica tv che dà la diretta. Vedo cose che non mi piacciono, vedo le Forze
dell’Ordine , la cui imponente presenza mi aveva addirittura rassicurata,
che stranamente cominciano a lanciare fumogeni e lacrimogeni contro i
manifestanti, davanti a una Giovanna Botteri meravigliata e spaesata che li
segue dicendo “ ma scusate, perché…. che cosa state facendo”.

C’è qualcosa che non va, qualcosa che non torna.
Forze dell’Ordine che non fanno il servizio d’ordine e che, invece di
proteggere, cominciano a caricare i pacifisti. Vedo scene di una violenza
inaudita, riportate in tv senza alcun commento, come se fosse normale
inseguire una ragazza che scappa impaurita, fosse normale picchiarla
violentemente dietro la nuca lasciandola tramortita, o morta, per terra…
poteva essere mia figlia, …inaudito, tutto ciò che vedo in tv è
sconvolgente, a quel punto ho paura. Per tutti quei ragazzi, per mia figlia
che non riesco più a sentire. Poi verso le quindici o le sedici, non
ricordo, arriva una notizia: “è morta una ragazza, non abbiamo dati
precisi, ma sappiamo che è morta una ragazza”.

Sono sconvolta, non so cosa fare, chiamo Paola al cellulare, ma non
risponde.
Mi sento soffocare dal terrore. Poi, dalla tv una voce “Non si tratta di una
ragazza, è morto un ragazzo”… è morto un ragazzo, mi sento sollevata…
improvvisamente mi vergogno del mio sollievo. Mi vergogno del mio sollievo
ancora oggi.

Non potrò mai dimenticare Carlo che aveva 23 anni, esattamente come mia
figlia Paola.

Non potrò mai dimenticare quella violenza sconsiderata, che non trova
ragioni se non nella volontà di criminalizzare un intero movimento e il
legittimo e non violento dissenso da questi espresso.
Doveva passare un messaggio chiaro e forte, un messaggio volto a scoraggiare
ogni forma di protesta e, soprattutto, c’era la volontà precisa di dare una
visione distorta della realtà.
Ma qualcosa, per fortuna, non ha funzionato.

I malvagi, voglio chiamarli banalmente così, non hanno fatto i conti con le
migliaia di telecamere presenti a Genova, con i cento, mille e mille occhi
elettronici che hanno filmato la verità e hanno impedito che si costruissero
infami menzogne, hanno impedito che si creassero i presupposti per
giustificare repressioni violente di qualsiasi forma di protesta civile, che
si arrivasse a stigmatizzare come terrorismo qualsiasi forma di protesta
civile.

Genova luglio 2001, sono passati cinque anni, ma il ricordo è vivo dentro
di me.
E non solo il ricordo. Genova mi ha cambiato la vita, ha cambiato la vita di
mia figlia, che da Genova è tornata senza un graffio, ma con ferite
profonde.

Genova mi ha fatto capire che non smetterò mai di indignarmi, dovessi
campare cent’anni non arriverò mai al punto di farmi saggiamente i fatti
miei.
Mi porto dentro quella vergogna, la vergogna di aver provato un sentimento
del quale non si può andar fieri. Il sollievo dettato dalla consapevolezza
che non toccava a me soffrire, ma a qualcun altro.

E’ proprio su questo che dovremmo lavorare, dovremmo imparare a soffrire
anche quando il dolore non ci appartiene. Soffrire, indignarci anche per
qualcosa che non ci riguarda da vicino.
Si chiama empatia, il più bello dei sentimenti, quello che potrebbe salvare
il mondo.
Ormai raro in un mondo in cui, come cantava De Andrè, il dolore degli altri
vale sempre a metà.

A Carlo Giuliani, ad Heidi Giuliani, ai ragazzi di Bolzaneto, a tutti quelli
che erano a Genova. A Paola.

Adriana De Mitri