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> SPIONAGGIO TELECOM, ATTENTATO ALLA DEMOCRAZIA

24 settembre 2006, 14:41

Una spy story già scritta

Basta consultare gli archivi, non della Telecom ma dei giornali. L’allarme sulla società della sorveglianza il Garante per la privacy, all’epoca nella persona di Stefano Rodotà, l’aveva lanciato per tempo svariati anni fa, ammonendo il parlamento a guardare le trasformazioni tecnologiche come processi rilevanti per il profilo dello stato di diritto e della cittadinanza. Anno dopo anno, le puntuali relazioni del Garante al parlamento introducevano un nuovo lessico politico, anzi tecnopolitico e biopolitico: nell’epoca in cui tutto di noi può essere schedato, dal numero di telefono al corredo genetico, la garanzia dell’habeas corpus deve diventare garanzia dell’habeas data, la tutela della privacy non è più un privilegio ma un diritto fondamentale, la politica deve occuparsene se non vuole che sia la tecnologia, in alleanza con il mercato, a dettare la regola del più forte o del più furbo.

Più tecnologia, più informazioni personali, più invasività nella vita di ciascuno: se la politica non interviene, la deriva è segnata.

L’ultimo scandalo italico, l’agenzia privata di intercettazioni abusive che operava a braccetto con i vertici Telecom nonché avvalendosi di personale e archivi della polizia, dice che quella deriva è diventata rapidamente realtà. Non faccia velo l’incoerenza o la casualità degli spiati - lavoratori, politici, imprenditori, gente di spettacolo, gente qualsiasi: siamo tutti schedati e tutti intercettabili. Non faccia velo neanche il paragone con l’italico passato delle strutture parallele e deviate: il «doppio stato», ha ragione Zagrebelsky, stavolta non c’entra niente. Stavolta lo stato non si duplica ma si scioglie, nel liberismo del «fai da te» che tutto pervade, dall’impresa al lavoro allo spionaggio.

Qualche competenza tecnologica, qualche banca dati accessibile, qualche appoggio nell’azienda regina delle telecomunicazioni e il gioco è fatto. I giochi anzi: dall’insider trading che fa tanto capitalismo finanziario alle schedature dei dipendenti che fanno tanto Fiat di Valletta, perché sia chiaro che lo stile italiano è sempre lo stesso.

Vietare la conservazione e l’uso di questo immondezzaio era il minimo che il governo potesse e dovesse fare «per tentare almeno che il marcio non dilaghi», come dice Prodi. E c’è da sperare che l’urgenza con cui il decreto sulle intercettazioni illegali è stato varato, e la convergenza con l’opposizione, non siano dovuti solo a un riflesso di autotutela della classe politica presa dal panico della violazione della sua privacy. Ma con ciò il caso non si chiude: si apre.

Non è in questione solo l’uso e l’abuso delle intercettazioni, illegali e legali, e la loro diffusione senza remore da parte di un giornalismo più voyeur degli spioni. E’ in questione tutta la materia della raccolta dei dati, della loro conservazione, della loro accessibilità, del loro uso. E non solo dei dati telefonici e telematici, ma di quelli biometrici e di quelli genetici. Se un dipendente Telecom può essere messo sotto controllo per una telefonata, che gli può succedere se il suo capo sa che può ammalarsi di qualche cosa?

Suona la sveglia per una politica fin qui sorda e muta: ed è davvero singolare che Prodi (un’altra gaffe?) bacchetti per inefficienza il Garante, che non ha il potere di legiferare e che al parlamento ha tentato invano di aprire gli occhi e le orecchie.

Nei gloriosi anni d’insediamento della cosiddetta Seconda Repubblica, quando il ceto politico aveva occhi solo per se stesso e la società dei telespettatori veniva educata dai reality show all’idea di avere un occhio o una telecamera in casa. Intanto la tecnologia faceva da sé. Piange lacrime di coccodrillo chi si accorge ora che l’Italia postmoderna cade a pezzi, uno scandalo dopo l’altro.

23.9.06 www.ilmanifesto.it