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Geldof vende l’anima al diavolo ma non sa far buona musica

Publie le sabato 7 gennaio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Musica-Opera Solidarietà

di Luca Mastrantonio

Assieme a Bob Dylan è stato uno dei clamorosi candidati recenti al Nobel. Ma a differenza di Dylan, omonimo del grande poeta Thomas e cantautore di valore universale, perciò candidato al Nobel per la letteratura, Bob Geldof, che di professione faceva il cantautore ma ora è un promoter economico-musicale, è stato candidato al Nobel per la pace. Da Jan Simonsen, parlamentare norvegese, che considera meritoria del premio la sua opera di sensibilizzazione per la cancellazione del debito in Africa. Una campagna che gli è valsa il titolo di Baronetto e un riconoscimento dalla fondazione Gorbaciov. Per dovere di cronaca, Simonsen ha candidato, sempre al Nobel per la pace, Bush e Blair, per aver avuto il coraggio di portare una guerra in Iraq senza il sostegno dell’Onu, ha detto.

In fondo, se si può esportare la democrazia con le bombe, si può esportare la ricchezza cancellando il debito. Dopo 25 anni di militanza, Simonsen è stato espulso dal partito progressista a seguito di uno scandalo di prostituzione maschile. Ora sta con la destra. Proprio come Bob Geldof che dopo aver flirtato a lungo con Tony Blair - assieme al connazionale inglese Bono Vox - è passato con David Cameron, dei Tories. Sarà un consulente del gruppo «Globalizzazione e povertà globale» istituito dal Partito conservatore. Al tempo, accusava Blair di essere troppo conservatore. Ora che farà, accuserà David Cameron di essere troppo progressista? Sembra che «the man for all season» abbia fiutato l’aria, capendo che il cavallo vincente, a questo giro, è a destra.

Ma cos’è allora, Bob Geldof, un fantino della politica? Un clown al circo dei buoni sentimenti? Un ammaestratore di dinosauri del rock? Bob Geldof... chi è costui, potrebbe chiedersi, donabbondianamente, chiunque entrasse in un negozio di musica per rintracciarne qualche motivo - musicale - dell’esistenza - sempre musicale. Robert Frederick Xenon (o Zenon) Geldof, classe 1954, irlandese, nasce come giornalista musicale fallito, diventa un mediocre musicista punk, compare in un video mitico del rock, diventa spin doctor dei buoni sentimenti. L’alba di questa stella di natura luminosa incerta avviene nel 1977, quando a Dublino viene folgorato dal punk e fonda i Boomtown Rats. La band si trasferisce in cerca di fortuna a Londra, la capitale musicale del Regno Unito. Gli esordi sono caotici, con risse sopra e sotto il palco, il primo album The Boomtown Rats va bene, ma non entra nella Top 10. A parte la voce originalmente sguaiata di Geldof, pessimo chitarrista, il gruppo è anonimo, come la loro carriera. A parte la canzone che lancia l’album The fine art of surfacing, ispirata a un fatto realmente avvenuto a San Diego, California, dove una ragazzina uccide alcuni compagni di scuola: I don’t like mondays (Odio i lunedì). Ma il gruppo perde pezzi per strada, ha un ultimo sussulto con Mondo Bongo (1980) e l’unica performance degna di nota di Geldof è l’interpretazione di Pink nel film di Alan Parker The wall, del 1982, tratto dall’omonimo doppio album dei Pink Floyd. Il 1984 è l’anno della folgorazione. Il punk-rocker scopre la fame nel mondo e se ne innamora. Geldof assiste a un documentario televisivo della Bbc sulla fame in Etiopia e viene sconvolto da quelle immagini. Nasce così la Band Aid, un cast di cantanti riunito in uno studio londinese per interpretare Do they know it’s Christmas?, canzone scritta da Geldof con Midge Ure degli Ultravox, uno dei singoli più venduti d’ogni tempo e l’iniziativa umanitaria più chiacchierata del secolo. Geldof rilancia organizzando il doppio concerto di beneficenza, a Londra e a Philadelphia, il Live Aid del 13 luglio 1985, che conterà anche le reunion di Who e Led Zeppelin. Prima del suo remake con il Live8 nel 2005 - e dopo aver formato con Jovanotti e Bono il triumvirato di «dropt the debt» (cancella il debito), che gli darà quel successo negato alla sua carriera da solista - il flop clamoroso dell’album Deep in the heart of nowhere e poi Sex, age & death. Meglio, il libro di memorie.

Negli annali musicali, dunque, rimane solo I don’t like mondays. Ma sarebbe come inserire Marco Ferradini tra i big della canzone italiana d’autore perTeorema («Prendi una donna, trattala male...») e magari mettergli in mano il concerto di Capodanno a Vienna. E poi, in fondo, I don’t like mondays, a parte il testo, forte, potrebbe non andare oltre I lunedì di Vasco Rossi. Il vero grande assente al Live8 che Geldof ha organizzato al Circo Massimo dell’estate scorsa, il 2 luglio, per fare pressione sul G8. Tra le copiose critiche all’immenso show da world music, il fatto che sul palco ci fossero pochi artisti africani: l’ingenuo Bob rispose: «Ho girato quattordici paesi africani e dovunque amano la stessa musica: Eminem e Will Smith...». Alla fine il suo baraccone mediatico ha registrato, più che defezioni, travagliate adesioni, come quella di Jovanotti e Ligabue, spesso frutto di calcolo mediatico o affezione alla causa. Vasco Rossi, invece, ne è rimasto fuori. Geldof gli ha detto che «per un paio di canzoni non perdi certo la voce», ma forse non ha mai saputo cosa vuol dire vivere delle proprie canzoni, fare il cantante. Non a caso, sul suo sito ufficiale (www-bobgeldof.info) c’è un avviso in primissimo piano: «Questo sito verrà presto cambiato per l’anno nuovo. Ci concentreremo completamente su Geldof come musicista. Se stai cercando su questo sito notizie sugli impegni di Bob in altri settori, devi andare direttamente su altri siti».

A proposito del web, c’è da registrare molto livore nei confronti di questo signor nessuno del rock e del suo baraccone: sul sito di Beppe Grillo - assieme a Geldof uno degli eroi dell’Europa del 2005, secondo il Time - c’è un inno denigratorio al live8: «Odio quel vecchio gufo cocainomane di Bob Geldof, che con un paio di canzoni di scarso successo in 25 anni, riesce a farsi passare da grande rocker. Odio i megaraduni da lui organizzati per cavarsi fuori egli stesso dalla melma dell’anonimato e rinverdire le proprie relazioni strategiche col rock-business». Su www.bellaciao.org si chiedono: «Bob Geldof: Nobel per la pace o per l’autopromozione?». Su www.ilboss.net c’è proprio un manifesto «8live8». E ancora, su www.guerrillaradio.iobloggo.com scrivono: «Bob Geldof ha smesso da tempo di essere santo».

In chiave di analisi economica, è la stessa politica del live8 a essere criticata. Non solo dagli iper-liberisti occidentali, ma dall’Africa stessa. L’anno scorso, a Milano, invitato dall’Istituto Bruno Leoni, è arrivato Franklin Cudjoe (vide il Live Aid a nove anni), giovane economista del Ghana, con studi alla London School of Economics, fondatore di un think tank, «Imani», con sede ad Accra. «Può Bob Geldof salvare l’Africa? Semplicemente no». I 450 miliardi di dollari passati all’Africa negli ultimi trent’anni: non hanno fatto crescere il Pil, sceso anzi di quasi mezzo punto percentuale. «Il problema di Geldof è che considera il debito che vuole cancellare come una fatalità del passato, che i governi si sono inspiegabilmente ritrovati. L’Africa deve invece assumersi una responsabilità, riconoscere i suoi errori, imparare a crescere». I soldi dati dai poveri dei paesi ricchi finiscono ai ricchi dei paesi poveri.

Nel 1985, Life, immaginò la genesi, divina, del Live Aid di Geldof: «Un giorno Dio voleva trovare una soluzione al problema della carestia in Africa e, probabilmente per sbaglio, ha bussato alla porta di Bob Geldof. Quando questo irlandese trasandato ha aperto la porta, dopo qualche perplessità deve aver pensato: Oh, al diavolo, andrà bene anche lui!». Al Daily mirror, recentemente, Geldof ha parlato di angeli e demoni, rispondendo a chi lo accusa di incoerenza: «Io non sono un membro del Partito laburista, e neanche del partito Tory. Ma sono pronto a scendere a patti con il diavolo se mi serve per ottenere quello che voglio. È questo il mio lavoro: essere usato». Come i gigolò di Simonsen. Solo che loro lo fanno per soldi, dichiaratamente, non per sfamare l’Africa. E poi, chi ha una Sympathy for the devil e spesso vende l’anima al diavolo in genere fa buona musica.

da Il Riformista, 3 gennaio 2006