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"Ma quale identità, oltre il partito c’è il nulla": Salviamo ciò che esiste per riprenderci il domani

Publie le martedì 24 giugno 2008 par Open-Publishing

Rifondazione: VII congresso

Viaggio nei congressi di Rifondazione/1 Cintura di Torino, dove vince la mozione 1 (Ferrero-Grassi-e altri/e)

"Ma quale identità, oltre il partito c’è il nulla": Salviamo ciò che esiste per riprenderci il domani

di Stefano Bocconetti, Torino

Là dove vince Ferrero. Un breve, brevissimo viaggio - superificiale come tutti i viaggi - in quel pezzo d’Italia che prima era «il territorio della Fiat», così come lo era dell’Olivetti. Ora è ancora un po’ della Fiat ma è anche tante altre cose: università, banche, scuola, design, ricerca, cinema. Il Piemonte, insomma. Viaggio, brevissimo viaggio in questo "pezzo" di Rifondazione dove la mozione firmata dall’ex ministro della Solidarietà sembra affermarsi. Certo, mancano ancora i congressi cittadini, manca ancora qualche sezione di quelle che "pesano", ma la tendenza è quella. In qualche caso, marcata.

E che partito si sta disegnando? Ridisegnando? Per il cronista la risposta è difficile, complicata. Ti accorgi che c’è un mix di nostalgie e speranze, difficile anche solo da raccontare. Tanto vale far parlare i protagonisti, allora. Alberto Deambrogio è, appunto, uno di loro. E’ il segretario regionale di Rifondazione. A raccontare che tipo di dirigente sia, prima ancora delle parole, ci pensa la sua storia personale. E forse - almeno un po’ - anche il modo come è arredata la sua stanza. Immagini, poster, foto che raccontano della Val di Susa, le lotte che lui stesso ha dato una mano a costruire. Ma anche immagini delle occupazioni dei sem terra brasiliani, battaglie di terre lontane. Immagini dove non c’è una sola falce e martello. Sì, forse una, ma è in un manifesto di Rifondazione.

E la sua storia è un po’ in sintonia con queste immagini. Viene da Casale Monferrato (e dice che «non è facile farsi accettare a Torino, anche in un partito di sinistra, se si viene dalla provincia»), ed ha «incrociato» Rifondazione tardi. Molto tardi. Aveva già fatto l’università, era tornato a casa e assieme ad amici aveva costruito una delle tante associazioni di cui è piena la sua regione. Un po’ luogo di ritrovo, luogo di discussione, un po’ organizzazione politica di base. Loro pensavano, discutevano su come cambiare una sinistra che non li soddisfaceva. Poi l’incontro con Rifondazione, l’impegno nel partito. La scelta di diventarne un dirigente. E consigliere regionale. Prima ancora che lo prevedesse lo Statuto, però, lui aveva già deciso che questo suo incarico sarebbe stato a tempo. Fra un po’ se ne andrà, insomma, andrà a fare altro. E non ha molta paura del futuro, visto che di anni ne ha solo quarantadue.

Lui, insomma, li conosce i «movimenti», le vertenze territorio per territorio. Lui, nella sua cittadina, ha dato una mano a costruire una sede unitaria per la sinistra. Per questo - no, non si inalbera perché è tranquillo, pacato, riflessivo e anche molto simpatico - la prende male se gli chiedi come faccia uno con la sua storia a sposare una tesi «neoidentitaria», come si dice oggi. Quella di chi non vede il partito come fine ultimo, ma quasi. «Sbagli - dice - e sbagli di grosso». Anche per lui Rifondazione è solo un mezzo. «E sia chiaro - aggiunge - non sto parlando di un partito qualsiasi, sto parlando di quella Rifondazione che ha scelto di innovarsi, di sperimentare. Di innovare».

Lui non sa che fine debba fare il partito domani, ma sa che oggi ce n’è bisogno. «Perché qui da noi, più che altrove, in controluce si può leggere nettamente il rapporto che c’è fra lotte sociali e voto». La sinistra, Rifondazione, insomma, ha retto solo laddove era stata protagonista di vertenze, di battaglie. A lui interessa questo, niente altro. Non gli interessano, insomma, le «mummie», non gli interessa un partito che vive solo di simboli o di ricordi. «A me il partito serve per ricominciare, nei territori, le vertenze, le aggregazioni. Mi serve per riprovare a costruire pratiche sociali unitarie». Vorrebbe organizzare le comunità locali.

Domanda: ma non ti sembra un controsenso, provare ad essere animatori di movimenti che devono essere «autonomi», plurali - lui stesso lo sottolinea - e poi mettere in piedi un partito nel quale quelle comunità non possono riconoscersi? Perché magari si definiscono in un altro modo, perché sono cattolici, ambientalisti, animalisti, socialisti o qualunque altra cosa? Non è un controsenso suscitare battaglie unitarie e poi costruire un partito che, anche nella migliore delle ipotesi, non potrà rappresentare tutti i protagonisti di quei movimenti? «Sbagli anche in questo caso. Io sono rispettoso dell’autonomia politica, culturale di chi ho davanti. Sono rispettoso al punto tale che trovo sbagliata, sbagliatissima la storia della "costituente" di sinistra di cui parla Vendola. Perché lo sanno tutti che andrà a finire con la nascita di un nuovo soggetto politico. E allora, ti chiedo: chi è che ha una concezione antica? Io che mi impegno a garantire la pari dignità di tutte le posizioni o chi pretende di ridurre ad una tutte le differenze?».

Ma ad Alberto Deambrogio non va di fare polemiche. Gli interessa di più insistere sul «come ripartire» dopo la sconfitta. «Abbiamo bisogno di nuove pratiche politiche. Subito, ora. Da sperimentare nei territori».
Ed eccoli, allora, queste territori. Castellamonte è un piccolo centro, ad una quarantina di minuti da Torino. Un po’ dopo l’aeroporto di Caselle. Un nome che potrà non dire molto ma è un centro significativo. Anche se si vuole "leggere" Rifondazione, quel che avviene lì dentro. Perché qui il partito - età media alta, altissima - è fatto soprattutto di pensionati che una volta erano alla catena di montaggio. Alla Fiat soprattutto ma anche nelle altre fabbriche dell’indotto. Oggi, la cittadina è quasi irriconoscibile.

Qui, adesso, chi è che dà lavoro è quasi solo l’azienda pubblica dell’acqua. Centinaia di dipendenti. Anche la sezione del Prc è nuova, tre o quattro anni. Pulita, riverniciata, ordinata. Non proprio efficiente magari: la macchinetta del caffè è andata da ormai due anni. Qui, gli anziani si riuniscono una volta a settimana, il venerdì, la sera. E non prendono caffè, un grappino magari sì, ma niente caffè. E poi, sul tavolo, trovi le copie di Liberazione vecchie di mesi, quando ancora usciva nel formato grande. Comunque, la stanza nel giorno del congresso è piena. Non sono tantissimi, ma le sedie sono tutte occupate. E qualcuno resta anche in piedi.

Si consumano le operazioni burocratiche, la verifica dei presenti, il loro diritto al voto. Operazioni che fanno un po’ sorridere in una stanza dove si conoscono tutti. Da una vita. Poi, la sala ascolta con attenzione quel che hanno da dire i presentatori delle varie mozioni. Ascoltano, chiedono chiarimenti. Ma si vede che ne hanno già discusso fra di loro. La pensano più o meno tutti allo stesso modo. E la pensa allo stesso modo anche un altro anziano, che prima di cominciare la discussione porta al tavolo della presidenza la sua lettera di dimissioni. Con sù attaccata con una attach la tessera di Rifondazione. Non se la sente più di continuare in un partito diviso in correnti, di un partito che sente lontano.

Gli altri qui se lo aspettavano, hanno provato a convincerlo ma non c’è stato nulla da fare. E allora si va avanti. Si chiamino Mario Peretti, Walter Morando, Ezio Raffeghelli, Giovanni Vautero e tanti altri. Il loro è un fuoco di fila. Raccontano aneddoti della campagna elettorale e spiegano che si è perso - almeno qui si è perso - perché non c’era la falce e martello nella scheda elettorale. Dicono che loro non faranno mai parte di un partito che non abbia quel nome e quel simbolo. Dicono che «prima di tutto», prima delle alleanze e delle analisi, c’è la sopravvivenza del partito. A questo bisogna dedicarsi.

Fra di loro c’è anche una ragazza, diciottenne. Rachele Contaro. Non prende la parola, non parla al congresso. Come tanti suoi coetanei sta cercando un lavoro, sta cercando qualcosa da fare finite le scuole superiori. Non ha molta voglia di parlare. Se insisti con mille cautele, però, ti spiega che per lei il partito non è un’entità astratta. «Non so come dirti: a me serve un partito. Che esista, che ci sia. Che magari mi aiuti nelle mie, nelle nostre battaglie. Che mi aiuti a cambiare la mia condizione». Quasi le stesse parole, userà anche un’altra donna.

Giacometta Papas, l’unica che sia intervenuta nel dibattito. Anche lei chiede innanzitutto di salvare il partito. Non ha identità da salvaguardare, non ha simboli da preservare. Chiede una sorta di partito di servizio. «Qui la gente non ce la fa, tanti non ce la fanno. Mi serve un partito per ricominciare ad organizzare queste persone, dargli uno strumento per provare a cambiare».

Tanti non ce la fanno. Per tanti è difficile, difficilissimo. Come per quella ragazza che non ha i quindici euro per pagare la tessera di Rifondazione. Sembra assurdo ma è così. Poi si vota: alla mozione Vendola neanche un voto, uno a quelle di Pegolo. Gli altri, tutti gli altri votano la mozione di Ferrero. Tutti e sei i delegati saranno della prima mozione.

Andranno al congresso di federazione a difendere le ragioni di un partito che deve riscoprire la sua natura operaia. Che deve difendere i suoi simboli. Che, se serve, deve fieramente difendere le ragioni della sua esistenza. Lo dicono tutti e chiaramente. Il resto viene dopo: anche la vicenda dell’acqua. Che qui, nonostante quello che si possa pensare, costa più che a Torino. Perché anche se si è a due passi dalle montagne è inquinata e prima di essere distribuita nelle case deve essere depurata. Una battaglia che può aspettare, però, prima c’è il partito.

Renato Patrito, è anche lui un dirigente di Rifondazione. E’ torinese, lavora all’assessorato provinciale alla solidarietà sociale, è tesoriere della federazione. Spesso, in questo periodo, va in giro per congressi a spiegare le ragioni della mozione Ferrero. Questi discorsi, i discorsi di un congresso come quello di Castelmonte un po’ lo mettono in imbarazzo. O almeno non sono i suoi discorsi. Certo, lui dice che comunque compito di un gruppo dirigente è quello di portare sul «terreno dell’innovazione» tutto il corpo del partito. Anche chi vive con lo sguardo rivolto al passato.

E lui all’innovazione ci crede. Crede anche in un progetto unitario. Che metta assieme la sinistra. Il problema - dice - «è che fuori da Rifondazione c’è il deserto». Esattamente il «deserto dei Tartari», dove invece di un nemico immaginario tutti aspettano un «amico». Ugualmente virtuale: la Sinistra democratica, i Verdi, i dirigenti dei metalmeccanici. «Fuori da Rifondazione, non c’è nulla, lo vogliamno capire o no?». E allora, non si può disperdere questo partito, questa comunità sull’altare di qualcosa che non esiste. Se non nelle fantasie di qualche dirigente romano.

Tornando a Torino, Renato Patrito continua a parlare. E ti accorgi che anche per lui le cose non sono così semplici, non sono tutte bianche o nere. Lui, come tutti, sperava in un altro risultato. Che avrebbe potuto avviare un’altra stagione di rapporti a sinistra. «Qualche volta però - dice - bisogna andare a lezione dalla realtà. E la realtà ci dice che fuori da Rifondazone non c’è nulla». Il risultato di questa analisi, allora, è uno solo: bisogna salvare l’unica cosa che è rimasta. Salvarla e continuare a tarsformarla. Ma innanzitutto salvarla.

Forse, ma questo non lo dice, anche a costo di dare spazio a chi sembra aver cancellato gli ultimi dieci anni di Rifondazione. A chi ha già pronta una ricetta facile facile. Tornare davanti alle fabbriche, tornare a dare qualche volantino e così, come d’incanto, tutto sarà risolto. «Le cose non stanno esattamente come dici - riprende il segretario regionale, Alberto Deambrogio - ma al fondo delle cose che dici c’è un minimo di verità». La verità di una sinistra, non solo di un partito, che ancora non è riuscita a superare, ad innovare la sua cultura originaria. C’è una sinistra, non solo un partito, che ancora pensa che Torino sia una città operaia, solo operaia. E da qui fa discendere tutto il resto, le sue analisi, le sue battaglie. «C’è una sinistra ancora molto alla ricerca di una sua identità», aggiunge Deambrogio. Tutta la sinistra, anche le nuove espressioni.

Perché forse non è un caso che qui, a Torino, ci siano i centri sociali più chiusi. Più settari. Non è un caso che qui sia più difficile che altrove parlare di ambiente, di differenza di genere, di diritti. Di povertà, che non sia solo quella economica. Lui, e tanti con lui, credono che per superare tutto ciò ci voglia più Rifondazione. Più partito. I mesi dopo il congresso diranno se avevano ragione.

Liberazione