Home > Ilva di Taranto, terza vittima in 5 giorni
di Giulio Di Luzio
Ancora una morte sul lavoro a Taranto. Ancora all’Ilva, il terzo caso in cinque giorni (e nello stesso reparto, il Dbs1) di incidente grave. Si muore come in una guerra civile. Ma è solo una grandissima fabbrica (e non un luogo di lavoro), è proprio il caso di dire, di acciaio. Praticamente l’unica rimasta in Italia. Una città di "ferro e fuoco" dove lo stillicidio degli incidenti non fa più notizia. Non a caso, l’Osservatore Romano ha scritto «una quotidiana catena di morte che sembra non interrompersi».
«Occorre, con urgenza, una serie di interventi di controllo, coordinati e capillari - continua - nella prospettiva d’una diffusa cultura della sicurezza, della responsabilità che favorisca l’applicazione corretta della normativa antinfortunistica vigente». Anche Fim, Fiom e Uilm parlano di «urgenza» e subito hanno dichiarato uno sciopero di tutto il settore. Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom, ha dichiarato: «Fermate la strage. I responsabili ne paghino penalmente tutte le conseguenze». In un’altra "città di morte", Perugia, che in questi giorni ha dovuto registrare molti lutti in edilizia, lo sciopero è stato esteso proprio ieri a tutte le categorie. Il 16 settembre la città si fermerà in blocco.
La notizia della morte di Giuseppe Di Leo, ventiquattrenne di Mottola, nel tarantino, travolto ieri da una trave che gli è piombata a addosso da un’altezza di oltre venti metri nel reparto treno nastri, ha avuto l’effetto di far esplodere la rabbia operaia. Il polo siderurgico di Taranto si è immediatamente fermato. Gli operai di reparto sono usciti e si sono avviati verso il palazzo della Provincia per un’assemblea improvvisata.
La siderurgia italiana, ormai, considerando anche l’impianto di Piombino, produce più incidenti sul lavoro che laminati di acciaio. Nei prossimi giorni, poi, i sindacati definiranno una piattaforma rivendicativa a livello nazionale sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro per avviare immediatamente un confronto a tutto campo con le rispettive controparti».
L’operaio deceduto ieri a Taranto, stava percorrendo il lungo capannone per la rituale timbratura del cartellino al termine della giornata di lavoro, quando un’improvvisa collisione tra due carri-ponte ha fatto precipitare giù una trave d’acciaio. E’ morto sul colpo. Vani tutti i tentativi di soccorrerlo. Tutti i sistemi di sicurezza sono completamente saltati, mentre l’azienda recita il consueto copione, rigettando qualsiasi addebito. Così si muore nel più grande siderurgico d’Europa, quell’Ilva di Taranto capace di raccontare la sua storia attraverso l’imbarazzante bollettino delle morti bianche e della mattanza operaia nei suoi reparti nocivi. Si muore così, a soli 24 anni e un contratto a tempo indeterminato faticosamente raggiunto. Poche ore è giunto nel capoluogo ionico il Presidente della Regione, Nichi Vendola, visibilmente scosso dall’accaduto: «La morte di questo ragazzo - ha dichiarato a caldo - è un delitto di classe. Non firmerò nessuna intesa coi vertici dell’Ilva, se non sarà garantito il diritto alla vita». Insieme a Vendola, il presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido. Giungono alcuni parlamentari, tra cui Antonio Gaglione della Margherita. Toni accesi e un senso di impotenza nell’assemblea che è subito seguita.
Solo mercoledì ci stava rimettendo la pelle il giovane Luca Vigliotta, finito in ospedale con una gamba fratturata, mentre i confederali richiamano tutti a quell’unità tra Fiom, Fim e Uilm, persa per strada negli ultimi tempi. Il tema del confronto verte sull’applicazione delle pratiche operative, vecchi e preziosi arnesi di autotutela operaia attuate con rigore dalla passata generazione di operai Ilva, ma ormai appesi al chiodo di fronte ai diktat della direzione e ai tempi di lavoro imposti da capi e capetti, che invalidano il ruolo stesso del sindacato e dei delegati alla sicurezza, spesso messi con le spalle al muro. Un processo di esclusione, questo, che certamente si rafforzerà dopo la decisione dell’azienda di affidare a una ditta esterna i controlli sull’applicazione delle norme di sicurezza. Nei reparti, denunciano molti operai, c’è un clima di intimidazione e ritorsione e qualcuno ricorda che proprio i carri-ponte del reparto treno nastri erano già stati oggetto di discussione per il loro precario funzionamento.
Al suo ingresso all’Ilva Nichi Vendola è subito attorniato dagli operai. Tutti aspettano da lui parole che consentano di delineare un nuovo possibile rapporto tra la fabbrica e la città: «La mia non è una dichiarazione di guerra - dice con toni più pacati - ma un monito. O ci fermiamo tutti quanti oppure anche la Puglia democratica e civile, e non solo questi operai, non potrà più accettare altre giornate laddove dovessero ripetersi. Il tema del diritto alla vita e della sicurezza in fabbrica deve essere al centro delle relazioni non solo tra sindacato e Ilva, ma tra istituzioni e grande fabbrica. Mi rivolgo alla dirigenza e chiedo se non sia giunto il momento di imprimere una volta radicale seria». Proprio oggi la direzione dovrà decidere se reintegrare in fabbrica i nove lavoratori, tra cui due delegati Fiom, sospesi lo scorso 10 luglio con la "motivazione" di aver lasciato la postazione di lavoro in situazioni di emergenza per la propria incolumità personale. «Si è trattato di un attacco all’articolo 14 della 626 sulla sicurezza - commenta un sindacalista- ma qui ormai tutto ci è negato». Tre incidenti, di uno mortale, in cinque giorni: un vero e proprio bollettino di guerra: «Ormai è chiaro - ha dichiarato Giorgio Cremaschi, segretario generale della Fiom - all’Ilva è una strage. Questa strage va fermata. Gravissime sono le responsabilità delle direzioni aziendali. Giustamente i lavoratori dell’Ilva hanno fermato la fabbrica, ma questa non è che una prima risposta». La Fiom ha deciso inoltre per il prossimo 23 settembre di convocare a Piombino tutti i delegati del settore siderurgico sul tema della sicurezza. Si costituirà infine parte civile nel procedimento giudiziario per la morte di Giuseppe Di Leo.
Ma ieri anche ad Assisi hanno dovuto fare i conti con gli incidenti sul lavoro, dove un operaio albanese è caduto da un’impalcatura da oltre 6 metri, rimanendo ferito in modo serio. E nel vicentino 22enne è morto nel crollo del tetto di un capannone.




