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Ma ora la priorità è punire i no global
Un tranquillo fotografo rischia più dei parà che lo arrestarono senza prove. Solo quattro poliziotti accusati per piazza Manin. E la pediatra manganellata aspetta il risarcimento dai giudici civili
di ALESSANDRO MANTOVANI,
Paolo Barbera ha 29 anni, vive in provincia di Milano e lavora come operatore per le tv, pubbliche e private. E’ un ragazzo di sinistra che, per andare al G8 di Genova, era partito solo soletto, con lo zaino in spalla e l la macchina fotografica al collo. Quel 20 luglio di quattro anni fa, poco dopo l’omicidio di Carlo Giuliani, Paolo si trovò davanti i carabinieri paracadutisti del Tuscania che risalivano corso Gastaldi, travolgendo cose e persone con i loro mezzi da guerra. «Sono scappato in un cortile anche per disintossicarmi dai lacrimogeni - racconta - Dentro c’era già altra gente come me.
Abbiamo aspettato cinque minuti e sono arrivati i carabinieri. Prima, da fuori, ci hanno fatto un gesto con le mani tipo: Vi facciamo un culo così'. Ma io sono andato verso di loro con le mani alzate, per dimostrarmi inoffensivo. Quello invece mi ha preso le mani e mi ha messo le manette:Sei in arresto, ti portiamo in galera’. Mentre ero ammanettato ho preso una manganellata e un pugno, poi mi hanno lasciato stare. Gli altri, quelli accovacciati, ne hanno prese un sacco». Gli hanno preso la macchina fotografica e hanno distrutto le foto. «Un carabiniere mi ha colpito col dorso della mano - prosegue Paolo - Diceva di essere arrabbiato perché gli avevano bruciato la camionetta. `L’hanno bruciata a tutti’, ho risposto io, per dire che era un bene pubblico. E lui mi ha dato un altro pugno».
Paolo racconta ancora: «Non ho più le mie foto ma di Genova mi rimane l’immagine di un giardino di fiori, di tutte le specie, forme e colori, perché era un luogo di scambio di idee e di opinioni». L’hanno portato in caserma e poi in carcere a Pavia, dove ha digiunato per protesta per quattro giorni. Alla fine il gip Vincenzo Papillo, per lui come per altri, ha deciso di non convalidare gli arresti perché non c’erano elementi a sostegno delle accuse di resistenza a pubblico ufficiale. E qualche mese dopo il giovane ha deciso di denunciare i carabinieri, con l’assistenza dell’avvocato Riccardo Passeggi.
Quattro anni dopo, nella babele dei processi penali e civili sui fatti del G8, la situazione è ancora capovolta. Paolo ha ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, i pm lo hanno insomma avvertito che intendono rinviarlo a giudizio per resistenza. Nulla di tutto questo è accaduto, invece, agli uomini del Tuscania che risalirono corso Gastaldi al comando del capitano oggi maggiore Guido Ruggeri, che picchiarono e arrestarono arbitrariamente quelle dieci persone. Le indagini su di loro sono rimaste ferme.
E’ paradossale ma non casuale. Dal marzo scorso, infatti, una disposizione del procuratore capo di Genova Francesco Lalla assegna priorità assoluta alla conclusione delle indagini sui manifestanti. Uno dei due sostituti impegnati sul questo fronte, il pm Andrea Canciani, è stato sollevato dal lavoro ordinario, compresi alcuni processi di mafia. E in questi mesi la procura, dopo aver lavorato a pieno ritmo sui filmati, ha riaperto i fascicoli dei circa trecento arrestati di quei giorni. Una cinquantina di manifestanti italiani e stranieri, accusati di devastazione, attendono le richieste di rinvio a giudizio. Le posizioni al vaglio sono oltre un centinaio e le richieste di archiviazione saranno poche.
I procedimenti contro le forze dell’ordine per i fatti di piazza camminano assai più lentamente. Solo un mese fa il pm Francesco Albini Cardona ha inviato gli avvisi conclusivi a quattro agenti del reparto mobile di Bologna che parteciparono alle cariche di venerdì 20 luglio in piazza Manin, dove manifestavano la rete Lilliput e le aree pacifiste laiche e cattoliche che certo non rappresentavano un problema di ordine pubblico. Rimase ferita persino la parlamentare di Rifondazione Elettra Deiana.
Gli autori materiali delle violenze non sono riconoscibili perché erano a volto coperto. I quattro rispondono però dei verbali d’arresto falsi e calunniosi a carico di due manifestanti spagnoli, accusati di essersi lanciati all’assalto con spranghe inesistenti. C’era qualche testimone e il procedimento contro di loro è stato archiviato. Ma saranno archiviate anche le sessanta querele presentate da altrettanti manifestanti che non erano accusati di nulla ma hanno denunciato la polizia. E lo stesso vale per i vari episodi del giorno seguente, sabato 21 luglio, durante il grande corteo sul Lungomare. Sempre la stessa storia: caschi, fazzoletti e passamontagna impediscono i riconoscimenti, a volte i magistrati hanno ritenuto che le decisioni di ordine pubblico non siano penalmente perseguibili e altre volte ancora, semplicemente, non hanno avuto tempo. Perché nessuno ha mai sollevato dal lavoro ordinario i pm che indagano sulla polizia.
Arrivano notizie migliori, tutto sommato, dal tribunale civile, che può condannare il ministero dell’interno a risarcire i danni anche se i responsabili materiali rimangono ignoti. E’ la strada intrapresa da due donne che furono picchiate proprio in piazza Manin. Una di loro è la dottoressa Marina Pellis Spaccini, una pediatra triestina di 55 anni che ogni anno va in missione in Africa con il Cuamm, un’organizzazione non governativa legata alla curia di Padova. Era in piazza Manin «con la rete Lilliput - racconta - e con la nostra storia di medici che lavorano nei paesi poveri. E’ importante agire sul campo ma anche esporre le proprie idee, creare cultura». La presero a manganellate in testa, venne fotografata mentre soccorreva un ragazzo con il volto insanguinato e la foto, pubblicata in copertina da Diario, fece il giro del mondo. Ricorda tutto molto bene: «Nessuno mi aveva mai bastonata in vita mia». Un medico dovrà stabilire se la lesione è compatibile con il manganello d’ordinanza. La dottoressa, assistita dall’avvocato Alessandra Ballerini, ha chiesto centomila euro di risarcimento. «Ma non lo faccio certo per i soldi - dice - Quelli, se me li daranno, andranno via in solidarietà. Ma spero che una sentenza favorevole possa essere un piccolo contributo alla verità».




