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Sembrerebbe che la cortina fumogena si stia un poco diradando. Certo, abbiamo tutti gli occhi rossi e la tosse, però, una volta di più, “aquí estamos”. La tempesta nel bicchiere d’acqua torbida della politica non ha annegato nessuno. Il fumo si disperde grazie a fatti come la lettera di Piero Sansonetti sull’Unità di martedì (rarissimo esempio di onestà e sprezzo del pericolo, anche se con Piero mi piacerebbe discutere di cosa effettivamente è stata la “cacciata” di Lama dall’università nel ’77, giusto per amore della storia); oppure a fenomeni come l’ondata di bit che, attraverso siti internet, mailing list, passaparola, giornali di sinistra e sociali, conversazioni e racconti, ovvero la assai misconosciuta “seconda superpotenza mediatica”, ha ricostruito, discusso, precisato, collocato nella sua giusta dimensione l’”aggressione” a Fassino (è quel che facciamo noi, con molta pignoleria, nel numero di Carta in uscita); ancora, grazie a prese di posizione come quella di Ciotti, Zanotelli e Strada.
Ultime ragioni, le meno ragionevoli, del diradarsi della nebbia sono: a) che i media liberisti si stancano presto, producono un gran chiasso e subito dopo se ne dimenticano, perché altre ignobili cause li chiamano (come intervistare l’ex premier israeliano Barak, che in pubblico e su un quotidiano liberale e garantista come il Corriere della Sera rivendica impunemente un omicidio, venendo lodato anche dalla radio di quegli oppositori della pena di morte dipende-da-chi-uccide-e-chi-viene-ucciso, che sono i radicali italiani); b) che Fassino e i Ds, conseguito quel che gli premeva, cioè apparire ovunque come le “vittime” del “pacifismo intollerante”, e soprattutto avendo messo sotto pressione i loro alleati infidi, rinfacciandogli anche i voti in prestito, adesso hanno deciso “abbassare il tono”, per non esagerare e incassare chissà quale percentuale elettorale (secondo loro).
Ma, insomma, forse adesso si può parlare di cose serie, dopo il 20 marzo italiano e mondiale. Lunedì prossimo si è ri-convocato il Comitato Fermiamo la guerra, organizzatore assai complicato della manifestazione. Si spera, per evitare che vada come lo scorso anno, quando la “fine della guerra” fu accolta da un sospiro di sollievo: sia da chi pensava che l’”Impero” avesse “stravinto”, e dunque si trattasse di “radicalizzare” l’opposizione alla guerra scaricando quei pesi morti di moderati che non amano le azioni radicali; sia da chi, all’opposto, non vedeva l’ora di tornare al tran-tran dell’opposizione compatibile, in attesa che un nuovo “governo amico” trovasse ragioni “di sinistra” per bombardare qualcuno in giro per il mondo. E tutti quelli che non avevano né l’una né l’altra pulsione a farla finita con il comitato unitario, e specialmente quelli che sono impegnati a lavorare a Baghdad o a Gaza, restarono soli con se stessi.
Dichiariamo subito, per quel che vale, che, se questa riunione del Comitato Fermiamo la guerra servirà a “fare i conti” dell’”aggressione” a Fassino, noi diremo “andiamo a comprare le sigarette”, come nelle barzellette dei mariti che abbandonano le mogli. Perché, ci permettiamo di insistere, quel milione o giù di lì di persone non meritano di essere adoperate come i carrarmatini di un Risiko pseudo-politico. Oltre tutto, non lo permettono nemmeno, dato che ad ogni occasione in cui la gente che è stata a Genova, a Firenze, a Roma nelle due immense manifestazioni, ecc., ha sentito l’odore di questo gioco, ha semplicemente evitato di farsi vedere. E giustamente.
Ma c’è una ragione molto più sostanziosa, che non il buon gusto di non usare gli altri, per prendersi sul serio. Il titolo che abbiamo scelto per commentare in copertina – nel nuovo numero – quel che è accaduto il 20 marzo in giro per il mondo è di quelli che sembrano un po’ folli: “Cambiare il mondo senza prendere il potere”. Non è solo un omaggio al libro di John Holloway che abbiamo appena pubblicato (con Intra Moenia) e che ai banchetti di Carta al corteo si vendeva come le caramelle. Ci siamo anche detti: sarà il caso, prima o poi, di nominare senza rossore o timidezze quel che – secondo noi, beninteso – sta in effetti accadendo. Se mettiamo in fila gli avvenimenti, dal 15 febbraio dello scorso anno al 20 marzo di questo, vediamo abbastanza facilmente che un asimmetrico braccio di ferro si svolge, nel mondo, e a star perdendolo non sono i milioni che marciano per la pace.
Già alla vigilia dell’attacco all’Iraq tutti poterono constatare che l’amministrazione Bush, e l’infernale e sgangherata macchina del neoliberismo globale, avevano trovato pane per i loro denti, per così dire. Poi, la guerra e la sua “conclusione” fecero appunto pensare a molti che non era servito a niente: tipico strabismo “politico”, che misura il movimento (per la pace o altermondialista non fa differenza, sono la stessa cosa) in base ai suoi “risultati”, alle sue “performance”. Errore molto grave. Il movimento, o società civile, mondiali sono asimmetrici perché non combattono nello stesso ambito politico, culturale e perfino spaziale di coloro che fanno la guerra (cioè privatizzano il mondo con la violenza). Il movimento ricostruisce, dal basso, un’altra politica, sulla base di un’altra cultura, utilizzando diversamente lo spazio naturale e urbano, adottando altri parametri economici, per istituire una nuova legittimità democratica globale e locale.
Così, tutti si stupirono che le bandiere della pace, in gran numero, restassero alle finestre: piccola punta di un iceberg fatto di azioni e relazioni innumerevoli e assai profondamente affondate e ramificate nella società. Di cui fanno a pieno titolo parte, ad esempio, la molteplicità di ribellioni cittadine che abbiamo avuto in Italia contro l’invasione di siti nucleari, autostrade, scippatori di acquedotti, discariche e così via. Era commovente vedere, il 20 marzo, come un anello si fosse saldato, e molti di Scanzano, Rapolla, Civitavecchia, Terlizzi, dell’Alta Murgia avesser trovato naturale venire a manifestare per la pace.
Questo sta accadendo, in modi differenti e con vari gradi di coinvolgimento della società civile, in tutto il mondo. Come altrimenti si spiega quel che è accaduto in Spagna, e che le centinaia di migliaia in corteo a Roma avevano perfettamente intuito, applaudendo chiunque pronunciasse la parola “Madrid”? Lì, l’accumulo di avversione sociale nei confronti di Aznar (non dissimile da quella che esiste oggi in Italia nei confronti di Berlusconi), dovuto a uno stile autoritario nell’informazione e nel rapporto con le nazionalità che fanno parte dello stato spagnolo, le bugie e l’inefficienza nel caso della “Prestige”, le leggi super-liberiste sul lavoro e sull’immigrazione, ecc., è precipitato nel “no” più largamente condiviso, quello alla guerra in Iraq, e dopo che l’avventura bellica aveva prodotto il suo peggior effetto collaterale, la strage di Madrid. Ma, una volta di più, non sono stati i partiti, nemmeno quelli di sinistra, a mobilitare: è stata la gente, con le sue forme di comunicazione, a convocarsi nelle strade nella notte fatale (per Aznar) della vigilia elettorale. I cittadini spagnoli cambiato il governo, oltre che gli equilibri geo-strategici occidentale ed europeo, senza prendere il potere.
E’ questa la domanda che il 20 marzo consegna a chi fa parte del Comitato Fermiamo la guerra. Che, certo, ha uno scopo preciso: la guerra, appunto. Ed è però anche formato, di nuovo in modo asimmetrico, di organizzazioni, associazioni, partiti, sindacati, che, con maggiore o minore o nessuna buona volontà, si sforzano di comprendere come essi stessi sono forme della politica inadatte al movimento e al suo modo di cambiare le cose, di auto-rappresentarsi, di durare, di misurare se stesso e i suoi effetti. A nostro modesto parere, il Comitato Fermiamo la guerra, oltre a assicurare un sostegno forte ai cooperanti che agiscono a contatto con le società civili irachena, palestinese e israeliana, iraniana, kurda (per non parlare dell’Africa), dovrebbe proporsi semplicemente come struttura di servizio dell’enorme diffusione di attività di pace, che, come hanno dimostrato le Carovane che hanno preceduto, preparato e dato senso al corteo di sabato scorso, esistono ovunque e hanno molti bisogni: di documentazione, collegamenti, conferenzieri, informazione, rapporto organizzato con gli enti locali, ecc.
Si riuscirà ad abbandonare la tentazione dell’”avanguardia”, che vede tutto come un campo di forze in cui vi sono pedoni, torri e cavalli da muovere in base a una strategia? Ai molti nonviolenti che si sono scandalizzati per l’”aggressione” a Fassino, e ai molti che credono che “nonviolenza” sia una roba per baciapile, andrebbe fatto notare che la nonviolenza è prima di ogni altra cosa la rinuncia ad usare gli altri, il pieno riconoscimento del loro diritto a decidere per sé e liberamente associarsi e cooperare.