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I «vergini» campi petroliferi

Publie le domenica 4 luglio 2004 par Open-Publishing

di MANLIO DINUCCI

2 luglio 2004 - «Riguardo al petrolio, l’Iraq è - che si creda o no - in gran parte un territorio vergine»: lo scrive su Newsweek Leonardo Maugeri, vicepresidente delle strategie dell’Eni ( http://www.uruknet.info/?colonna=m&p=3862 ). Degli oltre 80 campi petroliferi scoperti, solo 21 sono stati almeno in parte sviluppati. Di conseguenza, il 70% dell’attuale produzione proviene da appena tre campi: uno a Kirkuk, nel nord del paese, e due a Rumallah nel sud. Questo «sottosviluppo» dei campi petroliferi iracheni deriva dalla loro stessa storia. Nell’Iraq sotto dominio britannico (creato quale «monarchia costituzionale» nel 1921), il loro sfruttamento venne affidato a un consorzio internazionale, la Iraq Petroleum Corp., formato nel 1929 da quattro delle «Sette sorelle» (due britanniche, una statunitense e una francese). Ma la grande depressione del 1929-33, facendo crollare la domanda di greggio nei paesi industrializzati, rallentò la produzione anche in Iraq.

Quando la domanda crebbe nuovamente, le «Sette sorelle», che controllavano tutte le maggiori «concessioni» mediorientali, si accordarono per limitare la produzione complessiva di greggio, privilegiando lo sfruttamento dei giacimenti iraniani, kuwaitiani e sauditi. Nel 1960, dei 35 campi petroliferi scoperti in Iraq, la Iraq Petroleum ne sfruttava solo otto.

Dopo l’espropriazione dei possedimenti delle «Sette sorelle», decisa nel 1961 dalla neonata repubblica irachena, la compagnia petrolifera nazionale sviluppò la produzione portandola da 1,5 milioni di barili al giorno nel 1972 a 3,5 milioni nel 1979. Successivamente, però, la guerra con l’Iran (1980-88), la prima guerra del Golfo del 1991, il successivo embargo e la seconda guerra del 2003 hanno pesantemente colpito l’industria petrolifera irachena.

In tale quadro di «sottosviluppo», è realistico presumere che l’Iraq abbia riserve molto maggiori di quelle sinora accertate (oltre 110 miliardi di barili, le seconde del mondo dopo quelle saudite): probabilmente nel sottosuolo iracheno ve ne sono, oltre a queste, altre per circa 200 miliardi di barili. «La tentazione per gli outsider di accaparrarsi la posta in gioco sarà enorme», conclude Maugeri, ma «sarebbe un tragico errore» in quanto «la storia ha reso gli iracheni eccezionalmente sensibili sul petrolio quale simbolo di orgoglio e autonomia nazionali».

In realtà, anche se Maugeri non lo dice, gli «outsider», ossia i maggiori gruppi petroliferi statunitensi e britannici, si sono già impiantati in Iraq, accaparrandosi il grosso della «posta in gioco», mentre altri (tra cui l’Eni) manovrano con l’appoggio dei rispettivi governi per ottenere il resto. A garantire i loro interessi è un «governo» iracheno formato da uomini appositamente scelti a Washington e Londra. Con un «governo» di questo tipo - stima il Global Policy Forum - le compagnie statunitensi e britanniche potrebbero ottenere profitti fino a 9mila miliardi di dollari in cinque decenni, anche se l’industria petrolifera irachena restasse formalmente nazionalizzata. A spianare la strada ci ha pensato sin dall’inizio il presidente Bush che, con l’Ordine 13303 del 28 maggio 2003, ha assicurato alle compagnie petrolifere statunitensi e britanniche piena immunità per qualsiasi atto compiano in Iraq. E’ stato quindi posto formalmente il petrolio iracheno nelle mani di un «Comitato internazionale di consiglio e monitoraggio», controllato direttamente e indirettamente dagli Stati uniti. E’ quindi evidente che, se verrà decisa (non a Baghdad ma a Washington) la privatizzazione ufficiale dell’industria petrolifera irachena, saranno queste compagnie a fare la parte del leone.

Questa è la posta del nuovo «grande gioco»: il controllo delle riserve petrolifere irachene, quasi certamente le maggiori del mondo, le quali, con un potenziale produttivo che potrebbe uguagliare quello saudita di 10,5 milioni di barili giornalieri, costituiscono - scrive Maugeri - «il fulcro di qualsiasi futuro equilibrio nel mercato petrolifero globale». Nonostante che a Washington abbiano sempre negato che questo fosse lo scopo della guerra e dell’occupazione dell’Iraq, i soldati statunitensi lo hanno avuto chiaro sin dall’inizio. Non a caso, i primi campi costituiti in Iraq per l’assalto a Baghdad li hanno battezzati «Exxon» e «Shell».

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