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IRAQ : L’IMPERIALISMO AMERICANO IMPANTANATO Intervista a Gilbert Achcar
Publie le martedì 8 giugno 2004 par Open-PublishingGilbert Achcar sull’imperialismo nel pantano
IRAQ
L’IMPERIALISMO AMERICANO IMPANTANATO
Intervista a Gilbert Achcar*
La Brèche, giugno 2004
[NOTA: G. Achcar: libanese d’origine, si è stabilito in Francia dal 1983. E’ docente di Scienze politiche all’Università di Paris-VIII. Collabora regolarmente a Le Monde diplomatique (si veda nel numero di aprile “Il nuovo volto della politica americana nel Vicino Oriente”). Ha pubblicato: Le choc des barbaries. Terrorisme et désordre mondial (Complete, Pa-rigi, 2002; nuova ed. 2004) e L’Orient incandescent. Le Moyen-Orient au miroir marxiste (Page deux, Losanna, 2003). Quest’ultimo libro può essere ordinato al prezzo scontato di Fr. 25 (anziché Fr. 36) scrivendo alla redazione di La Brèche: redaction@labreche,ch tel. 021 621 89 87 c.p. 1000 Lausanne 20 CCP 17-2472692, www.labreche.ch ]
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Introduzione ( a cura di Jean-François Marquis, della redazione di La Bréche, organo del Movimento per il Socialismo MPS della Svizzera)
L’invasione dell’Iraq da parte delle truppe americane il 20 marzo del 2003 avrebbe dovuto, secondo chi la ha istigata, rispondere a due motivazioni: eliminare un presunto arsenale di armi di distruzione di massa e arrecare la libertà e la democrazia al popolo iracheno, schiacciato dalla tirannide di Saddam Hussein.
A un anno di distanza, le armi di distruzione di massa sono una menzogna ormai provata. Abu Ghraib e le relative torture sono diventate il simbolo della “libertà” portata dall’occupante: esse illustrano lo stretto legame tra imperialismo, dominazione coloniale, disumanizzazione dei dominati, razzismo, torture e massacri. Il fatto che lo stesso genere di sevizie siano normali nelle prigioni americane (2,1 milioni di detenuti, il 10% in più di qualsiasi altra “democrazia”, Financial Times, 29 maggio 2004) non fa che confermare l’intreccio che esiste tra guerra imperiale e guerra sociale. La multiforme resistenza irachena, che esprime un larghissimo sentimento popolare, democratico, viene repressa con estrema violenza. Stando al ministero iracheno della Sanità, i soli scontri successivi al 5 aprile hanno provocato più di 1.168 morti e 2.350 feriti (Le Monde, 26 maggio 2004). In un anno, sono stati arrestati circa 43.000 iracheni, perlopiù senza motivazioni, e solo 600 di questi sono stati deferiti a un tribunale (Financial Times, 12 maggio 2004).
I sempre più febbrili preparativi per il “passaggio di poteri” a un governo iracheno evidenziano le strategie dispiegate di fronte al pantano in cui si è cacciata la potenza imperialista americana.
L’ONU, emarginato un anno fa, dovrebbe svolgere un ruolo “chiave” per il futuro; il trasferimento di sovranità dovrebbe essere “effettivo”. L’episodio della designazione del nuovo “primo ministro” iracheno, Ayad Allawi, dimostra come stiano e cose. Si pensava che le competenze spettassero all’inviato speciale dell’ONU, Lakhdar Brahimi. Ma Allawi, strettamente legato alla CIA da oltre due decenni, è stato imposto dall’amministrazione Bush. Brahimi, al pari dell’ONU, accetta di stare al gioco; è stato messo “di fronte al fatto compiuto”, constata il New York Times (3 maggio 2004). Quanto alla “sovranità”, The Economist, fervido sostenitore dell’occupazione dell’Iraq, ricorda “che sarà evidentemente un bidone” (29 maggio 2004). Per non parlare di chi avrà l’autorità sui 150.000 soldati occupanti. Inoltre, per disporre di un adeguato strumento propagandistico, l’autorità occupante americana ha conferito a un braccio destro di Rupert Murdoch, il magnate ultraconservatore dei media, lo studio della privatizzazione della rete televisiva Al-Irakiya (Le Monde, 26 maggio 2004).
L’amministrazione Bush, e l’alleato Blair, sono dunque ben lungi dal mollare la presa: sarebbe sottovalutare le poste in gioco, strategiche ed economiche (il petrolio innanzitutto) che sono all’origine del loro ridispiegamento imperialistico. Né Chirac né Putin, né Zapatero premono realmente perché mollino: hanno tutti troppo paura di una destabilizzazione dell’area (e delle nefaste conseguenze per i loro interessi) per puntare sul fallimento americano. Quanto al candidato democratico alla presidenza americana, John Kerry, è favorevole al rafforzamento delle truppe americane in Iraq.
La direzione borghese americana incarnata da Bush ha più volte reagito alle difficoltà con la fuga in avanti. In questo, al di là della convergenza di interessi connessi alla dominazione della regione, si ritrova insieme al governo israeliano di Ariel Sharon, che ha compiuto un ulteriore passo con la sua devastante operazione a Rafah.
La mobilitazione antimperialista internazionale contro l’occupazione in Iraq e la sopraffazione del popolo palestinese assumono in questo quadro sempre maggiore importanza.
Intervista a Gilbert Achcar (5 maggio 2004)
Domanda All’inizio di maggio del 2003 il presidente Bush annunciava ufficialmente la fine dei combattimenti in Iraq. A un anno di distanza, come definire la situazione esistente in questo paese?
Risposta Ciò che accade conferma quanto dicevamo appena iniziata l’invasione dell’Iraq: “Per Washington e Londra le difficoltà non fanno che cominciare”.
Era scontato in partenza che rovesciare Saddam Hussein e occupare militarmente il paese non avrebbe posto problemi all’esercito americano, data l’enorme sproporzione delle forze in campo. Altra cosa, però, è controllare un paese come l’Iraq. Qui, la schiacciante superiorità tecnologica dell’esercito americano non è più così decisiva.
In primo luogo, occorre un numero di soldati molto superiore a quello necessario per la vittoria militare. Ma l’amministrazione Bush ha creduto di potere occupare l’Iraq con un numero di soldati molto limitato. E questo è uno dei talloni d’Achille della potenza statunitense: il fattore umano, considerato troppo in fretta come ormai superato, dopo la rivoluzione tecnologica che ha trasformato da cima a fondo “l’arte della guerra”.
Inoltre, bisognerebbe avere di fronte una popolazione controllabile, che manifesti cioè un certo grado di rassegnazione, se non di acquiescenza all’occupazione. Ma questo non è assolutamente il caso; la maggioranza della popolazione irachena ha accolto l’esercito americano con un sentimento che potremmo sintetizzare così: “Avete rovesciato Saddam Hussein, grazie. Ora, andatevene, non vi vogliamo come potenza occupante”.
Questo sentimento sta alla base del movimento di opposizione all’occupazione, che cresce a valanga e si esprime pressoché quotidianamente in azioni armate. A mio avviso, però, non è questa la cosa decisiva. L’elemento più importante è il carattere di massa del rifiuto dell’occupazione, sono ad esempio le gigantesche manifestazioni che si sono svolte durante il braccio di ferro tra il proconsole Bremer e il “grande ayatollah“ Sistani sul problema delle elezioni.
Questo è quel che determina il fallimento dell’amministrazione Bush e il fatto che l’Iraq sia ormai diventata un “pantano”: l’esercito americano vi è invischiato e la situazione non fa che peggiorare, senza la prospettiva di un’onorevole via d’uscita. In questo senso, vi sono alcune analogie con il Viatnam. Non al livello militare (non vi è comune confronto tra la guerriglia irachena e la guerra del Vietnam), ma a quello politico: come il Vietnam, l’Iraq è diventato un’enorme palla la piede per la classe dirigente degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno ormai speso 130 miliardi di dollari per la loro presenza in Iraq, con l’obiettivo di controllare le notevoli risorse petrolifere di questo paese. Al momento, però, non sono più sicuri di potervi restare…
D. Come definire le principali misure di politica economica imposte, in un anno, dagli Stati Uniti in Iraq?
R. Anche a questo livello si può constatare una prima sconfitta americana: per Washington non è ancora stato possibile modificare la distribuzione dello sfruttamento del petrolio iracheno che, pure, era l’obiettivo principale.
Gli Stati Uniti non si sono buttati in questa guerra per le poche industrie di trasformazione o dei servizi che ci sono in Iraq. In questo ambito, l’amministrazione Bremer ha applicato il programma alla lettera, a colpi di privatizzazioni e di assegnazioni di mercati a precise imprese americane, senza gare d’appalto, anche a danno di altre imprese americane, cosa che ha suscitato parecchi scandali.
Invece, gli Stati Uniti hanno continuamente rinviato le decisioni in fatto di petrolio, esattamente per aver dovuto ben presto constatare l’ostilità nei loro confronti esistente nel paese. Ora, più il tempo passa, più si intensifica l’ostilità popolare che li ha costretti a rinviare le decisioni.
Il progetto dell’amministrazione Bush non era, come si è detto a volte, quella della pura e semplice privatizzazione delle risorse petrolifere irachene. Sarebbe stato troppo difficile da fare accettare. L’obiettivo era quello di privatizzare senza dichiararlo, in forma di accordi che concedessero alle compagnie petrolifere USA di “co-sfruttare” il petrolio iracheno insieme alla compagnia di Stato del paese. Oggi, però, la preoccupazione principale degli Stati Uniti è sapere se potranno rimanere in Iraq e a quali condizioni.
D. L’amministrazione Bush ha fissato al 30 giugno la data del “trasferimento” della sovranità agli iracheni. Che cosa succede?
R. Lo scorso autunno Bremer ha annunciato ufficialmente il suo progetto del cosiddetto governo iracheno, riunendo personalità designate dall’occupante o scelte da assemblee a loro volta designate dall’occupante. Ne è risultato un braccio di ferro che ha avuto come avversario principale Sistani, la massima autorità sciita in Iraq.
Il “grande ayatollah” Sistani è un reazionario di prim’ordine sul piano sociale, un tradizionalista medioevale. Tuttavia, in questo scontro, è apparso come colui che sfidava il proconsole Bremer. Un personaggio eminentemente reazionario è così diventato il portavoce della sua comunità e della maggioranza della popolazione irachena, nell’opposizione ai progetti delle forze d’occupazione. Malgrado le notevoli differenze tra Sistani e Khomeini, soprattutto nella loro concezione dei rapporti tra potere politico e autorità religiose, questa situazione ricorda in qualche modo il ruolo svolto da Khomeini in Iran, nella lotta contro lo Scià. Altrettanto reazionario in materia sociale e per quanto riguarda i diritti delle donne, Khomeini era diventato la principale figura d’opposizione allo Scià di Persia, alla fine degli anni Settanta, rivendicando in un primo momento il tema della democrazia.
Quando, nel novembre del 2003, Bremer ha voluto forzare la mano agli iracheni. Sistani ha raccolto la sfida, facendo appello a manifestazioni che hanno assunto considerevole ampiezza e hanno costretto Bremer ad arretrare.
Allora, l’amministrazione Bush si è di nuovo rivolta all’ONU per ottenere una mediazione e salvare la faccia. La mediazione è sfociata nella presunta promessa di organizzare elezioni nel gennaio del 2005. Dico “presunta” perché non credo che gli Stati Uniti (in ogni caso l’amministrazione Bush) siano realmente disposti a organizzare libere elezioni in Iraq.
In questo quadro, nessuno si illude sulla scadenza del 30 giugno. Il governo iracheno instaurato resterà di fatto designato dalle potenze occupanti: anche se la formazione del governo avviene tramite l’ONU, sono gli Stati Uniti a insediarlo, in ultima istanza. Per giunta, il governo non sarà sovrano: non avrà alcun controllo sulle forze d’occupazione, e neanche, del resto, piene competenze in materia di bilancio.
In realtà, il 30 giugno il vero passaggio di poteri non avverrà tra Bremer e il nuovo “governo” iracheno, ma tra Bremer e il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti a Bagdad, John Negroponte. Negroponte ha mosso i suoi primi passi in Vietnam ed è stato implicato negli episodi più sporchi dell’intervento in Centroamerca, negli anni Ottanta. Attualmente è ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU, in attesa di dirigere a Bagdad la più grande ambasciata statunitense del mondo, con oltre 3.000 funzionari.
D. Quali sono le le linee di fondoi dei riallineamenti politico-sociali in corso in Iraq?
R. La principale frattura non passa tra sciiti e sunniti, ma tra arabi e kurdi.
Attualmente, i kurdi sono l’unica frangia della popolazione irachena che approvi l’occupazione e pensi che perpetuarla sia nel proprio interesse. È vero che il Kurdistan iracheno ha beneficiato, dalla fine della prima Guerra del Golfo (1991), di una reale autonomia e di uno statuto particolarmente privilegiato in confronto al resto dell’Iraq, sfuggendo alla dittatura di Saddam Hussein. Ha anche potuto conoscere una prosperità economica fungendo da polmone per il resto del paese sottoposto all’embargo dell’ONU, il che ha favorito lo sviluppo di ogni sorta di traffici. Il tutto è avvenuto sotto la protezione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.
Per il resto, le prospettive per una qualche forma di democrazia in Iraq sono reali, secondo me, purché naturalmente sia posto un termine all’occupazione. Lo dico nel senso in cui, ad esempio, si può sostenere che oggi un paese come l’Iran è molto più “democratico” del regno saudita. In Iran ci sono confronti elettorali che non sono una mera parvenza. C’è una pluralità di forze politiche, anche se entro i ben noti limiti. C’è una vita politica iraniana veramente conflittuale, che non ha niente a che vedere con l’integralismo islamico totalitario del regno saudita, né con la dittatura semifascista di Saddam Hussein.
In Iraq, le potenzialità di un certo funzionamento democratico sono ancora maggiori che in Iran, dal momento che non esiste una forza politico-clericale irachena egemone. Inoltre, in seno alla popolazione, la maggioranza sciita coabita con la minoranza sunnita, per non parlare delle altre minoranze, e nessuna comunità, del resto, è omogenea. Tutto questo contribuisce all’esistenza di condizioni oggettive per un funzionamento pluralista, pur se entro certi limiti.
Gli Stati Uniti, involontariamente, hanno creato le condizioni di questa possibile trasformazione democratica. Hanno infatti creduto che avrebbero potuto controllare facilmente il paese distruggendone l’apparato di Stato, quello di Saddam Hussein. Oggi, negli USA, quasi tutti concordano nel dire che lo scioglimento dell’esercito e dei servizi di ogni tipo, nonché la “de-baasificazione” (che ha escluso decine di migliaia di funzionari, la maggior parte membri del partito per puro opportunismo, ma che non sono facilmente sostituibili), abbia costituito un errore madornale. Gli Stati Uniti, in questo modo, si sono privati dell’unica forza che sarebbe stata in grado di perpetuare il controllo della popolazione: un apparato di Stato repressivo e ben rodato.
Questo ha determinato una situazione difficilmente reversibile. Non si ricostruisce facilmente un apparato statale che si è distrutto da un anno. Si è visto a Falluja come il tentativo di ricorrere a un generale dell’ex Guardia repubblicana per ristabilire la situazione abbia provocato una tale levata di scudi che ha costretto l’esercito americano a un parziale arretramento.
Così stando le cose, l’unica possibilità di ricomporre uno Stato iracheno è farlo in un quadro pluralista, almeno in una prima fase.
D. Che ruolo hanno i movimenti con una dimensione democratica e sociale e quali sono indipendenti dalle principali formazioni religiose o politiche?
R. Al riguardo c’è un’enorme delusione. Prima dell’invasione si poteva essere ottimisti: l’Iraq ha conosciuto nella sua storia una sinistra comunista di massa, in particolar negli anni Cinquanta e Sessanta. Benché schiacciata da Saddam Hussein, essa continuava a rappresentare, nell’esilio (in cui vivevano milioni di iracheni prima dell’inizio della guerra), un forza reale.
Ci si sarebbe potuti aspettare che questa tradizione, che conservava radici nel paese, rinascesse dalle sue ceneri. Invece, il Partito comunista iracheno, dopo avere avuto un atteggiamento relativamente corretto prima della guerra (si opponeva a Saddam Hussein, ovviamente, ma anche alla guerra che si preparava e al progetto di dominazione statunitense), ha accettato di partecipare al governo provvisorio designato dall’occupante; è riuscito a vincere la scommessa di passare dalla partecipazione al governo del Baas, all’inizio degli anni Settanta, a quella a un consiglio di collaborazionisti dell’occupazione americana. Questo ha ampiamente screditato il partito e la tradizione comunista.
Esistono altre forze più a sinistra, ma non incidono sulle sorti del paese. Come in Palestina e in tutta la regione, sono i fondamentalisti islamici dal discorso più radicale contro la dominazione occidentale ad avere assunto il ruolo principale e catturato il risentimento popolare. Da questo punto di vista, le conseguenze dell’atteggiamento del Partito comunista iracheno sono molto pesanti.
D. L’amministrazione Bush sta incontrando grandi difficoltà. Che tipo di risposte cerca di dare e quale dibattito questo apre in seno all’establishment americano, tra Repubblicani e Democratici?
R. La principale differenza sulla questione, tra Kerry e Bush, sta nella maggiore disponibilità di Kerry a ridistribuire la torta, soprattutto con Francia e Russia, per consentire una maggiore internazionalizzazione della gestione dell’Iraq, tramite l’ONU. Pensa che questo permetterebbe di smorzare la violenta opposizione all’occupazione del paese. Questo vuole dire Kerry quando sostiene che sarebbe in grado, diversamente da Bush, di riallacciare i legami con gli alleati.
L’amministrazione Bush persiste, da parte sua, nel voler regolare la presenza americana senza cedere terreno per quanto riguarda il controllo dell’Iraq. Dati gli sviluppi della situazione, mi sembra pressoché impossibile.
Questo però non vuol dire neppure che una soluzione alla Kerry abbia maggiore probabilità di risolvere la quadratura del cerchio: mantenere il controllo statunitense sull’Iraq (compresa la presenza militare nel paese) pacificandolo al tempo stesso.
Se si ritorna infatti a un processo direttamente controllato dall’ONU, la pressione per libere elezioni diventerà troppo forte per potervi resistere. E io non vedo bene come le elezioni in Iraq potrebbero portare al potere un qualunque governo che accettasse la presenza delle truppe americane.
Ciò detto, gli imprevisti sono parecchi. La regione è molto instabile e possono intervenirvi bruschi cambiamenti. Nessuno, ad esempio, può puntare sulla perennità dei regimi siriano o iraniano. La situazione sta inoltre diventando critica nel regno saudita, pur relativamente protetto finora da una cappa di piombo.
In realtà, le politiche finora messe in atto dagli Stati Uniti in Medio Oriente, per quel che hanno in comune fra un’amministrazione e l’altra, non possono che alimentare il disordine e una precipitare verso la barbarie (avevo parlato, dopo l’1 settembre, di “scontri di barbarie”).
Da un lato, lo scandalo delle sevizie e delle torture praticate da soldati americani in Iraq e in Afghanistan, le centinaia di prigionieri privi di qualsiasi diritto a Guantanamo, in violazione delle convenzioni internazionali, illustrano l’avanzamento compiuto in questa spirale regressiva dal lato americano. Dall’altro lato, in Medio Oriente, tutti gli eroi popolari sono ormai integralisti musulmani: Bin Laden, i leader di Hamas, dell’Hezbollah libanese, Moqtada Al-Sadr, ecc. Si può così misurare la dinamica regressiva che grava pesantemente sulla regione e che rende la situazione particolarmente cupa.
D. Ma non vi sono anche tendenze di altro segno?
R. In questo quadro molto preoccupante, per fortuna c’è qualche barlume di speranza. Il movimento mondiale contro la globalizzazione neoliberista e contro la guerra comincia ad avere un impatto, per ora molto modesto, in paesi quali il Marocco, l’Egitto o la Siria, suscitando iniziative che si ispirano a quanto avviene in Europa. Il primo Forum sociale marocchino ha ad esempio raccolto alcune centinaia di persone nel 2003 e terrà una seconda seduta questa estate. Un piccolo movimento no-global tenta di svilupparsi in Siria. Questi barlumi, dunque, si devono essenzialmente a fattori esogeni; quelli endogeni alimentano piuttosto la radicalizzazione sul terreno dell’integralismo islamico.
Il nuovo impatto del movimento “altermondialista” rimanda a importanti cambiamenti: l’informazione circola enormemente più che in passato in Medio Oriente e nel mondo arabo. Le televisioni satellitari in arabo hanno infranto la cappa di piombo imposta dai regimi autoritari della regione, che ormai non possono più neanche controllare completamente l’accesso a Internet.
Questo nuovo contesto può anche favorire l’emergere di nuove tendenze di sinistra. Per svilupparsi, queste dovrebbero privilegiare i terreni in cui gli integralisti sono, per loro stessa natura, incapaci di fare loro concorrenza: quello sociale, il terreno dei diritti delle donne, della denuncia del capitalismo selvaggio su scala planetaria. Naturalmente, ogni sinistra degna di questo nome deve anche opporsi all’occupazione; ma, su questo terreno, non riuscirebbe a battere gli integralisti, che occupano molto largamente la scena.
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Appendice dell’intervista a Gilbert Achcar sulla Palestina
“LA SITUAZIONE DEI PALESTINESI E’ PEGGIORE CHE MAI…”
Domanda Dall’inizio della seconda Intifada, nel settembre del 2000, la repressione israeliana contro i palestinesi non ha cessato di aumentare. La costruzione del muro avanza inesorabilmente. L’amministrazione Bush ha dato via libera al piano Sharon, che sbarra la porta per i rofughi palestinesi e implica l’annessione di una parte importante della Cisgiordania. Il quartetto (USA, ONU, UE e Russia) si adegua. Stiamo assistendo a un’altra Nakba per i palestinesi?
[NOTA: “Nakba”: “la catastrofe”, nella memoria collettiva palestinese e araba sta ad indicare la massiccia espulsione degli arabi palestinesi nel 1948, al momento della creazione dello Stato di Israele. Dal maggio al dicembre del 1948, oltre la metà della popolazione araba residente in Palestina sarebbe stata costretta ad abbandonare le proprie terre e a fuggire].
Risposta Purtroppo, la seconda Intifada è stata parte integrante di questa dinamica regressiva. E’ stata molto meno efficace della prima nella lotta contro l’occupazione israeliana. Questo dipende dal fatto che i palestinesi sono in qualche modo caduti nella trappola della militarizzazione dell’Intifada. Credo che, in modo piuttosto deliberato, da parte israeliana si sia facilitata la militarizzazione dello scontro. Esso avrebbe consentito di ricorrere a mezzi pesanti, con la scusa che non si trattava più di picchiare manifestanti ma di condurre una guerra (termine usato fino alla nausea da parte israeliana).
Dalla parte palestinese, questa dinamica è sfociata in un forte restringimento della partecipazione popolare. E’ clamorosa la differenza fra il carattere di massa della prima e della seconda Intifada. Ne è un indicatore la partecipazione diretta delle donne: era considerevole nella prima; è completamente assente nella seconda.
La cosa corrisponde perfettamente a quanto auspicava uno come Ariel Sharon, che ha avuto un ruolo decisivo nella provocazione iniziale del settembre del 2000, e che poi è riuscito a giostrare con questa situazione per ottenere la vittoria elettorale del febbraio 2001. Dopodiché, non smette di gettare olio sul fuoco, perché da questo incendio ricava la propria forza.
Oggi la situazione palestinese è peggiore di quanto non sia mai stata in tutta la stria del conflitto israeliano-palestinese.
[NOTA: L’intervista è avvenuta prima dell’offensiva dell’esercito israeliano a Rafah, dal 17 al 24 maggio, che ha provocato più di 40 morti. Secondo l’ONU, sono state distrutte 180 case, lasciando senza tetto 1.000 palestinesi. Secondo Amnisty International, sono state abbattute oltre 3.000 case palestinesi negli ultimi tre anni, nel quadro di punizioni collettive o perché erano di ostacolo all’espandersi delle colonie israeliane].
Non c’è mai stata tanta disperazione. Quel popolo sta per essere strangolato completamente; in realtà, è in atto una politica di espulsione rampante. La politica del governo israeliano crea una situazione talmente invivibile da costringere all’esodo un numero crescente di palestinesi. Chi resta imprigionato nella morsa verrà poi concentrato in qualche enclave posta sotto sorveglianza speciale.
Questa dinamica favorisce gli estremismi, dalle due parti. Sharon ne approfitta, da quella israeliana; da quella palestinese, Hamas prende il sopravvento, perché è il movimento più violento di tutti nel suo opporsi all’occupazione e al sionismo. Questo aggrava l’impasse storica in cui si trova questa parte del mondo.