Home > Ingrao racconta il PCI di Berlinguer
«Sottovalutò i tre nemici: Usa, Urss e borghesia reazionaria»
di Piero Sansonetti
da l’Unità
L’intervista è tratta dal libro di Piero Sansonetti che sarà in
vendita con l’Unità il’11 giugno
Pietro Ingrao è stato per circa una quarantina d’anni fra i maggiori
dirigenti del partito comunista italiano. Partecipò alla
cospirazione clandestina comunista dalla seconda metà degli anni
trenta; militò nelle file della Resistenza, e a guerra finita andò a
fare il capocronista all’Unità: nel ’48 divenne direttore del
giornale, e poi visse le battaglie della sinistra nella seconda metà
del secolo. Ingrao era uno dei ragazzi scelti da Togliatti, dopo la
Liberazione, per costruire il nuovo gruppo dirigente comunista. E
lavorò a stretto contatto con Togliatti fino alla morte del
segretario del Pci.
Poi si aprì un dissenso sempre più marcato tra lui e l’ala del
partito raccolta attorno a Longo e a Giorgio Amendola. Iniziò, nel
Pci, una battaglia politica che portò Ingrao a una posizione di
minoranza in cui, poi, è rimasto per tutta la vita. Lo scontro
avvenne soprattutto con la corrente raccolta attorno ad Amendola, a
Paietta e Alicata: e si infiammò in un drammatico congresso, nel ’66
(l’undicesimo congresso del Pci), in cui Ingrao e gli "ingraiani"
furono sconfitti, e poi praticamente emarginati dai ruoli guida nel
partito, e inviati a lavorare quasi tutti lontano da Roma
(Reichlin in Puglia, Pintor nella natia Sardegna, la Rossanda presto
allontanata dalla direzione della Sezione culturale).
In quell’XI congresso Enrico Berlinguer assunse una posizione
intermedia, abbastanza defilata, e anche lui a congresso finito -
pagò un prezzo: fu allontanato dall’ufficio di segreteria del
Partito e andò a dirigere il comitato regionale del Lazio. Alla fine
degli anni Sessanta tornò alla ribalta al vertice del Partito,
vincendo la "corsa" con Giorgio Napolitano (molto vicino alle
posizioni di Amendola) per la vicesegreteria del Pci. Cioè diventò
l’erede designato di Luigi Longo.
Ingrao non ebbe mai un rapporto molto intenso con Berlinguer, in
quegli anni. Anche perché, dopo aver fatto per un lungo periodo il
presidente del gruppo parlamentare, si era ritirato in una posizione
di secondo piano: passò a dirigere la sezione che si occupava degli
Enti locali. Nel 1976 invece, Ingrao improvvisamente fu chiamato ad
un alto incarico: fu designato dal partito come candidato alla
presidenza della Camera (dai tempi di Umberto Terracini - nel ’48
nessun comunista aveva più avuto una così alta funzione pubblica), e
venne eletto a quella che era considerata la terza carica dello
Stato.
Quando sei stato presidente della Camera avevi rapporti intensi con
Berlinguer, che era il segretario del partito?
Pochi. Botteghe Oscure non si occupò molto del mio impegno alla
guida della Camera.
Come fu decisa la tua candidatura a presidente della Camera? In quel
periodo tu nel partito eri all’opposizione. Ti eri opposto alla
linea del compromesso storico, ti eri dimesso dall’incarico di
presidente del gruppo parlamentare…
Sì, la proposta mi colse del tutto di sorpresa. Tra me e la
direzione di Botteghe Oscure non c’era proprio un feeling. Io ero
andato da Berlinguer a dirgli tutte le mie riserve nei riguardi
della linea cosiddetta del compromesso storico, anche se i rapporti
personali tra me e lui furono sempre buoni, schietti, e c’era una
grande stima reciproca. Ma quanto alle opinioni politiche, il mio
dissenso dalla linea berlingueriana era forte.
Naturalmente la proposta di fare il presidente della camera per me
fu una grande sorpresa. Non ci pensavo minimamente. Invece andò
così. C’erano appena state le elezioni politiche del 1976, il Pci
aveva avuto un balzo nei voti, e già comunisti erano sindaci a
Torino, Bologna, Roma, Napoli. Ma la Dc restava pur sempre il primo
partito. Nel quadro della ricerca di una intesa tra Dc e Pci si
decise di assegnare ai comunisti la Presidenza della Camera. E il
Pci fu chiamato a indicare il suo candidato.
Quella mattina io mi trovavo in casa, era l’ora di pranzo. Stavo
mangiando con Laura, mia moglie, in cucina. Eravamo soli. Mio figlio
Guido era a scuola, le figlie grandi ormai vivevano tutte fuori di
casa. D’un tratto squillò il telefono. Andai a rispondere. Era
Berlinguer. Mi dice molto brevemente come stavano le cose: "Guarda,
noi qui stiamo discutendo la questione della presidenza della
Camera. Abbiamo pensato tutti a Giorgio Amendola, ma lui non ne
vuole sapere. Allora è venuta la proposta che faccia tu il
Presidente". Non mi disse altro, era uomo di poche parole. Io gli
chiesi un po’ di tempo per riflettere. Tornai in cucina e raccontai
la cosa a mia moglie: non mi parve affatto entusiasta. Mi disse: "Ma
in che lavoro ti vai a cacciare?". Non fui della stessa opinione. Ci
pensai qualche minuto, mangiai un frutto, non mi consultai con
nessun altro: ripresi il telefono, chiamai Berlinguer e dissi di sì,
che accettavo.
Come mai?
Il lavoro nel Parlamento mi è sempre piaciuto molto. Alla fine degli
anni Cinquanta fui io a chiedere di uscire dalla Segreteria e di
lasciare la direzione della sezione "Stampa e propaganda" per andare
a lavorare alla Camera. Lo feci tra la sorpresa generale, perché
allora stare in segreteria nella segreteria con Togliatti era un
compito di grande prestigio: tra i più elevati a cui si potesse
aspirare.
Perché lo facesti?
Per due ragioni. La prima riguardava me stesso. Per come mi
conoscevo ritenevo che tra le mie doti non ci fosse quella
cosiddetta dell’"agit-prop". Sapevo che c’erano compagni molto più
bravi di me in quel lavoro. Per esempio Pajetta, per il quale,
peraltro, non avevo grande simpatia personale (né lui l’aveva per
me). Pajetta sapeva inventare slogan, costruire una campagna di
comizi, mettere in burla gli avversari. insomma aveva un talento per
tutte quelle cose che deve fare un agit-prop. Io no. E infatti
Pajetta fece la propaganda molto meglio di me. La seconda ragione
per la quale chiesi di lasciare la segreteria è che quel palazzo
Botteghe Oscure a me non era mai piaciuto molto. Sembrerà strano,
ma non mi garbava il clima, il gergo, il tipo di relazioni che era
in uso fra quegli apparati. Ero abituato ai rapporti che avevamo al
giornale, all’Unità: forse per il compito stesso a cui bisognava
assolvere, erano molto più concreti, più intensi, più aperti. E poi
la situazione nella Segreteria del partito per me era diventata
difficile, perché su temi di fondo non la pensavamo nello stesso
modo: da parte mia c’erano dissensi forti, specie con l’analisi e
l’ipotesi politica a cui guardava Amendola, che già allora pesava
molto nel gruppo dirigente.
Il lavoro alla Camera ti piaceva?
Si. Lo trovavo molto appassionante: prima di tutto per il continuo
confronto che si realizzava con l’avversario politico e anche
all’interno dei vari rami della sinistra di opposizione. Inoltre
nella segreteria del gruppo parlamentare lavorava un compagno di
grande intelligenza, Renzo Làconi. Aveva il senso dell’aula, la
prontezza nel confronto delle opinioni, e anche la battuta pungente
che faceva scattare gli ascoltatori. Era sardo, e un grandissimo
oratore. Ricordo che a Torino,quando si andava a tenere un comizio -
o a parlare un una sala, in un cinema - ti dicevano: occhio
all’orologio, a mezzogiorno il locale deve essere vuoto perché a
mezzogiorno i torinesi si alzano e vanno a pranzo. E tutti avevano
sperimentato la dura legge del mezzogiorno torinese. Accadde
qualcosa del genere anche Togliatti e ne restò stupito. Teneva il
comizio di chiusura della Festa dell’Unità in una grande arena. Di
solito quando parlava Togliatti non volava una mosca, nessuno
nemmeno si alzava dalla sedia. Quella volta però Togliatti fu troppo
lungo, e ad un certo punto gli ascoltatori cominciarono ad andar
via: ci parve incredibile e inaccettabile. Làconi forse fu l’unico a
violare il vincolo del mezzogiorno torinese: una volta parlò fino
alle 12 e 25 senza che nessuno si levasse dalla sedia…
Perché il lavoro alla Camera ti piaceva?
A tanti di noi piaceva: forse la durezza della cospirazione
clandestina ci aveva messo in testa quel tipo di democrazia
parlamentare-assembleare. E qui forse esagero per una ragione di
fondo: avevamo bisogno del confronto pubblico delle idee, la messa a
prova delle ideologie in campo aperto. Speravamo così di costruire
un rapporto permanente con il Paese: sulle decisioni da prendere. A
volte, nell’urto delle opinioni, in quell’assemblea si arrivava
anche alle zuffe violente. Ma esisteva anche un rispetto reciproco.
Sovente in quelle aule scattava un uso che a me piaceva molto: ed
era quando la sera, a fine seduta, uno di noi si levava in piedi dal
suo banco e interrogava il governo su un evento di rilievo che era
accaduto in quel giorno, se mai in qualche sperduto paesino, e che a
noi sembrava grave. Chiedevamo appunto- che il ministro venisse a
riferire all’assemblea: e il ministro anche un avversario
antipatico come Scelba di solito veniva, e riferiva, e si
discuteva. E si ottenevano anche della cose. Oggi mi pare che questo
collegamento attivo, quotidiano del Parlamento con le vicende del
Paese si sia sbiadito, per non dire addirittura scomparso.
Io invece avevo fitta in testa l’idea di estendere questa
relazione "assembleare" anche alla vita dei comuni, alle province.
Avevo in mente una sorta di figura di sindaco-capopopolo, che
chiamava a discutere i problemi della città coralmente: a volte
anche coinvolgendo i cittadini in assemblee di piazza
Per tutte queste ragioni, diversi anni dopo, accettasti la proposta
di fare il Presidente della Camera…
Beh, avevo in mente questa forma della politica. In verità allora
compagni miei molto cari mi rimbrottarono: la considerarono una
decisione sbagliata. Ricordo che dissentì da quella mia scelta anche
un amico carissimo, come Trentin. Io invece non ebbi rimpianti. Poi
vedi- il partito comunista era una cosa strana. Con quale logica
politica "correntizia" si potrebbe mai spiegare la decisione che in
un posto rifiutato da Amendola ci andasse lasciami dire queste
parole un po’ presuntuose - il principale antagonista di Amendola?
Forse in nessun altro partito poteva accadere una cosa del genere.
Così eravamo.
Tu mi hai detto che qualche anno prima di diventare presidente della
Camera andasti da Berlinguer e criticasti il compromesso storico.
Giusto?
Sì.
E come andò quell’ incontro?
Bene e male. Bene perché lui fu molto civile, molto corretto.
Ascoltò con garbo. Male, perché credo che non capì le ragioni del
mio dissenso. Anche perché forse io non seppi spiegare la mia
obiezione fondamentale. Che poi era questa: avvertivo ormai una
crisi della nostra politica, dopo le grandi novità e gli eventi
mondiali del 68. Sentivo che bisognava cambiare strada. E il
compromesso storico, così come Berlinguer lo aveva proposto, proprio
non mi sembrava una svolta, a guardare quel compromesso prudente che
cercava l'elefante democristiano.
Eri contrario a una intesa con la Dc?
Non è proprio esatto. Io non pensavo che fosse impossibile avere un
rapporto e forse anche un'intesa politica di fondo con la parte
avanzata e riformatrice del mondo cattolico italiano. Avevo molte
relazioni con tutta una componente di quel mondo cattolico: punti di
incontro forti con persone come La Pira, e con figure del pensiero e
della vita religiosa come padre Balducci. Ebbi anche incontri
singolari: per esempio una relazione lunga e intensa con un gruppo
di monaci camaldolesi che aveva la sua casa principale sulle
bellissime colline di Monte Giove, che si specchiavano sulla costa
di Fano. Se tu mi chiedessi, ora, la figura più alta che io ho
incontrato nella mia vita ti risponderei: padre Benedetto Calati,
che guidava quel convento di monaci. E fu uomo che cercava:
animatore appassionato ed aperto di dibattiti intensi e amichevoli
fra gruppi di cattolici e intellettuali atei che militavano nella
sinistra: da Rossanda a Tronti. O anche con figure alte della Chiesa
Valdese. E in quei confronti così liberi viveva sempre una tensione
di ricerca, una volontà comune di ascolto, una problematicità.
Furono più frammentati i miei rapporti con i gruppi del
cattolicesimo padano e veneto: conobbi tardi "Nigrizia" e una figura
come Alex Zanotelli, ma afferravo la domanda di riscatto e di
liberazione che viveva nel loro rapporto col Terzo Mondo. Ero
convinto che il partito comunista e la Democrazia cristiana fossero
i soggetti politici principali della vita politica italiana in
quegli anni sessanta e settanta. Ma il quadro politico del Paese mi
sembrava già in forte agitazione, e con fratture sostanziali che
apparivano roventi. E il fermento non scuoteva solo i partiti. Agiva
una pluralità di presenze anche nel mondo cattolico ufficiale: e
vedeva accomunate sulla scena le ACLI di Labor, la sinistra della
CISL, e leader sindacali di forte originalità come il segretario dei
metalmeccanici della FIM Pierre Carniti. Agivano anche intrecci
forti. La stessa Chiesa italiana aveva avuto molte facce. Da quella
pesante e chiusa di Pio XII, a quella intensa di tutta un'ala
influenzata dal pensiero francese di Maritain e Mounier . Per non
parlare di Papa Giovanni.
E perché allora respingevi l'idea dell'accordo col mondo cattolico?
Il mondo cattolico era una realtà di livello mondiale: a molte
facce. E io ne avevo conosciuto una di queste, che sentivo duramente
ostile e lontanissima dalle mie speranze.
Però quando Berlinguer propose il compromesso storico c'era già
stato papa Giovanni, c'era Paolo VI, e quella componente reazionaria
della Dc che tu dici era stata sconfitta. Aveva vinto Moro…
Si per un verso quello che dici è vero. Ma la partita nella Dc non
era affatto chiusa. La componente reazionaria era forte, anche se si
mescolava volutamente con altre correnti o fazioni. Direi che il
partito democristiano era una soggettività al tempo stesso coesa
e ultra-differenziata. Avevano preso qualcosa dalla duttilità (e
dalle molte facce)della Chiesa cattolica. E -all'interno- pesava
molto anche il gioco delle personalità, i retroterra culturali
diversi, gli orientamenti "locali". E poi forse i capi democristiani
si illudevano ancora in quei brucianti anni '70 di avere in mano
carte e fili che si erano invece consumati. Ricordo di molti
incontri che ho avuto, quando ero presidente della Camera, con
Galloni, che era un uomo di Zaccagnini, ma anche con Flaminio
Piccoli. Io dicevo: "Se davvero volete giungere a questa intesa con
i comunisti, dovete spicciarvi: l'Italia non può reggere in questa
incertezza, è pericoloso…" Mi rispondevano: "le resistenze sono
enormi, abbiamo bisogno di tempo". Invece il tempo non bastò: e andò
tutto all'aria, e Zaccagnini fu sconfitto. I
l fatto è che non si trattava solo della DC. La prospettiva di una
intesa Berlinguer-Moro scatenò una reazione violenta non solo in
fasce larghe della costellazione cattolica impegnata nella
politica.. Nei modi suoi agì tutto un fondo conservatore (per non
dire reazionario) del Paese. Non so dire quanto in quella resistenza
c'entrarono di mezzo anche figuri come Licio Gelli o capi di una
losca ala massonica. E in fondo si capisce. In caso di un accordo
Moro-Berlinguer veniva spezzata -in un pezzo d'Europa non da nulla-
la dura frontiera che dal '45 spaccava il globo in due parti. La
posta era davvero grande.
Rivedendo quel periodo lì, trent'anni dopo, e rileggendo le riforme
che furono approvate, si ha l'impressione di una avanzata impetuosa.
Ci furono grandi conquiste del movimento dei lavoratori…
Sì, furono conquiste di grande importanza, troppo dimenticate. Ma
furono selvaggiamente combattute: anche come sviluppi e frutti della
cruciale insorgenza del
68. La prima di quelle conquiste fu il
divorzio; e chi guidò e scatenò l’iniziativa contro il divorzio fu
curiosamente Fanfani, che pure non era un reazionario, anzi negli
anni Sessanta aveva spinto ti ricordi? per l’intesa coi
socialisti. Io stesso, quando fui presidente della Camera, ebbi
momenti e occasioni di collaborazione schietta con lui. Il fatto è
che quella transizione, direi quel tumulto sorto col ’68, era un
processo diseguale e contraddittorio. Lasciami avanzare un’ipotesi
di lettura. A mio avviso negli anni ’70 ci fu una parte della
borghesia padronale italiana che effettivamente si chiese se non
fosse possibile arrivare ad un accordo con il partito comunista.
Quindi le cose si spinsero abbastanza avanti. Ricordo episodi,
fatti, cose, dai quali risultava evidente che pezzi della borghesia
erano prudentemente favorevoli a un accordo col Pci, o perlomeno si
interrogavano: e cercavano di leggere cosa fossero e dove portassero
effettivamente quei comunisti strani, che avevano avuto anche litigi
e rotture con Mosca. E Berlinguer, in qualche modo, sembrava a loro
un’altra cosa. Contemporaneamente però ci fu un’altra ala del mondo
borghese che condusse una lotta all’ultimo sangue per impedire
l’incontro. Abbiamo parlato di Licio Gelli. Forse c’è stata qualche
esagerazione sul ruolo della P2. Ma l’opposizione aspra del governo
americano è fuori discussione. E gli americani non stavano con le
mani ferme.
Se capisco bene, l’obiezione fondamentale che tu facevi era
di "realizzabilità". Cioè dicevi: questo incontro è impossibile". E’
così?
No: io pensavo che per fare quella operazione bisognasse sviluppare
molto di più l’aspetto della rivoluzione sociale rispetto
all’aspetto dell’accordo politico: cioè che bisognasse riprendere e
rilanciare il grande moto del ’68, che non era ancora spento. Di
quel moto la dirigenza comunista non afferrò tutta la portata, né
seppe trarne le conseguenze. Per me bisognava costruire un’intesa
innanzitutto sulle grandi questioni sociali che il ’68 aveva appena
cominciato a squadernare. Era là la nostra forza, o più esattamente
(perché non si trattava per nulla solo di noi) la forza del
rivolgimento che era in campo. E in quel moto sociale del ’68-`69
c’erano comunisti, socialisti, ma anche grandi forze cattoliche: non
solo strutture diffuse e articolate come le Acli, la Fim di Carniti,
o anche cenacoli, per esempio quello che si raccoglieva a Firenze
attorno a una figura irrequieta come quella di Ernesto Balducci.
Emergevano e parlavano intensamente a tutta una parte coraggiosa e
combattiva del mondo cattolico come "Nigrizia", "Pax Christi", in
prima linea nel discorso sul Terzo e sul Quarto Mondo. Io pensavo
che dovessimo prendere atto della singolarità o stranezza della
situazione italiana: nelle sue due facce. Una è che in Italia
c’erano dei preti reazionari, feroci, che difendevano il potere
temporale e la conservazione sociale: di cui c’erano esemplari
antichi e nobilissimi come il cardinale Ottaviani, e poi ceffi come
Gedda. Ma a fianco a loro già negli anni Cinquanta erano sorte
figure nuove ed emozionanti (ma che ebbero purtroppo vita breve)
come Don Milani. Se vuoi, poi ti racconto il mio incontro con Don
Milani: non lo potrò mai scordare. A guardare la grande Europa,
questo progressismo religioso (dire "rivoluzionario" è troppo)
metteva in movimento masse e culture. Tentava una rilettura del
mondo profano e un progetto. Ma aveva avversari forti nella Curia. E
nel Paese quei cattolici rivoluzionari spesso erano quasi "isole"
oppure (lasciami dire una parola del mio vocabolario) avanguardie.
Tu vedevi il compromesso storico come qualcosa che ingabbiava questo
processo: che gli dava uno sbocco politicista?
Esattamente. Politicistico. E lo vedevo come una formula che ci
toglieva la possibilità di giocare la carta giusta, che era quella
di una rivoluzione sociale che andasse incontro alle nuove domande,
che sgorgavano da due fonti: la seconda mutazione capitalistica il
post-fordismo se vogliamo chiamarlo così e la nuova
dimensione "globale" che rimescolava i soggetti e i luoghi dei
saperi nuovi. Tutte le mie riserve sul cammino del compromesso
storico si ingigantirono quando diventai presidente della Camera.
Nei suoi modi quello era un posto di potere. Da lì vedevo molte
cose: almeno quelle immediatamente "politiche". E alcune vicende che
mi lasciavano basito. Presto avvertii per esempio - chiaramente
che la relazione tra Dc e Pci era affidata in gran parte ai colloqui
tra Ferdinando Di Giulio (che era il vice-capogruppo e poi il
capogruppo del Pci) e Franco Evangelisti (che era l’uomo di fiducia
di Andreotti). L’incontro tra Di Giulio ed Evangelisti avveniva ogni
mattina e se posso usare questo termine diventò una specie di
istituzione riservata (ma non troppo). Di Giulio era una persona
molto intelligente, Evangelisti era un faccendiere che si occupava
della politica corrente. Si incontravano ogni mattina sui divani del
Transatlantico di Montecitorio. E discutevano punti di mediazione,
intese, intrecci da cancellare. Con questo rapporto di vertice ci si
illudeva di poter aggirare ostacoli ben più corposi, che investivano
nodi sostanziali: prima di tutto quell’intreccio tutto italiano (e
spesso torbido) rappresentato dall’industria di Stato, che aveva
impresso il suo timbro in larga parte alla modernizzazione
dell’Italia, e ormai doveva misurarsi con la dimensione "globale" e
la nuova ondata di tecnica innovativa che sbrigativamente noi
chiamavamo "post-fordismo". E in Italia non c’era in campo solo la
borghesia conservatrice: c’era la parte "bizzoca" per non dire
reazionaria della Chiesa, o anche la Dc moderata ma ben radicata e
coriacea. E soprattutto c’erano gli americani (Moro fu lasciato ad
attendere lungamente in anticamera nell’incontro delle Hawaii),
tutte forze che erano contrarissime all’accordo Dc-Pci. E per quel
che ne so erano contrari anche i sovietici.
Quando eri presidente della Camera come ti comportasti di fronte a
questa crisi?
Feci alcuni tentativi. Per esempio feci il tentativo di attivare un
livello di potere laterale ma importante, e cioè il potere locale:
quello che era chiamato "delle cento città". Noi comunisti eravamo
diventati forti nei Comuni e nelle Regioni. Avevamo da poco
conquistato per la prima volta il posto di sindaco in grandi città
come Roma, Torino, Napoli. Dirigevamo Regioni che incidevano nella
lunga storia d’Italia, come l’Emilia, la Toscana, l’Umbria: luoghi
vitali nello sviluppo del paese e che alle loro spalle avevano la
memoria di grandi tradizioni socialiste. E anche luoghi di potere a
grande autonomia come la Sicilia e la Sardegna, che godevano di
poteri speciali. Mi chiedevo se nella partita che s’era aperta
non dovesse entrare in campo tutta questa rete che indicavamo col
nome di "potere locale", ma che aveva un grande peso in una nazione
delle "cento città" come era l’Italia. In questo dialogo con il
potere locale devo dire che fui aiutato anche da Fanfani, che era
presidente del Senato: si stabilirono, fra noi due, contatti
fecondi, che puntavano ad allargare l’influenza delle assemblee
elettive, che in Italia costituivano una trama ricca e
differenziata. S’erano anche formati punti di incontro importanti:
per esempio l’asse tra il presidente Dc della Regione lombarda,
Piero Bassetti, e il presidente comunista dell’Emilia, Guido Fanti,
e anche rapporti stretti tra i sindaci "rossi" di Roma, Torino,
Napoli, Bologna, Perugia. Insomma un "luogo politico" molto italiano
e a forte presenza "rossa".
Ricordo anche che - con l’aiuto di Fanfani - organizzai a Roma, a
Montecitorio, delle riunioni dei presidenti dei consigli regionali e
dei grandi Comuni. Speravo che così potesse sorgere un’articolazione
inedita del potere politico, che scavalcava le strettoie di partito
e anche dei nuovi potentati dell’industria e della finanza. Insomma,
io avvertivo certamente il bisogno di una riforma democratica dei
poteri, che immettesse le masse nei luoghi di comando. Perciò la
strada degli incontri tra Di Giulio ed Evangelisti mi sembrava
proprio un sentiero angusto, che non poteva reggere alla vastità e
difficoltà della posta in gioco. Vedi: non era l’idea dell’intesa
tra comunisti e cattolici che io avversavo. Avversavo il modo
ristretto e debole con cui questo tema così aspro veniva affrontato.
All’inizio degli anni ’80 Berlinguer lascia la strategia del
compromesso storico e lancia l’idea dell’alternativa di sinistra. E’
una svolta?
Si, ma restano i limiti di cui discutevamo prima, secondo me. Resta
il limite fondamentale: la valutazione inadeguata del livello
sociale della battaglia. Berlinguer aveva un rapporto debole con
tutta una componente sociale che tra il Sessanta e il Settanta aveva
aperto un nuovo discorso sociale sul lavoro, come luogo centrale
dell’emancipazione umana, e avviata una lettura nuova, seppure
ancora insicura, dei mutamenti sconvolgenti del capitalismo post-
fordista. Certo: ricordo bene che proprio quando cominciarono il
tramonto del "sessantotto" e la controffensiva guidata dalla FIAT,
Berlinguer scese in campo personalmente: andò a parlare davanti ai
cancelli della Mirafiori occupata dagli operai: e fu un incontro
emozionante. Eppure, a mio avviso, egli non afferrò ancora la
centralità del nuovo livello di scontro che s’era aperto, ad
esempio, tra gli operai della FIAT e l’innovazione reazionaria di
Romiti. E cercò, sì, l’incontro con Moro, e dialogò con monsignor
Bettazzi. Ma non provò a misurarsi col mondo a cui venivano
rispondendo avanguardie come Balducci. Enrico è una figura che vede
la crisi del conservatorismo cattolico. E tenta addirittura
un’intesa di governo tra cattolici e comunisti: in una nazione
d’Europa, sede del papato e paese di frontiera tra Est e Ovest, e
tra Nord e Sud: quindi luogo ultrasorvegliato dagli americani e dai
sovietici. In un tal luogo pensare di poter vincere senza giocare la
carta di nuove alleanze sociali e lasciami dire questa parola
presuntuosa senza inventare possibili nuovi luoghi di potere, era
illusione.
Sono due critiche opposte: avere mancato sul piano sociale e non
essersi posto il problema del potere…
No, non sono opposte. Io le considero due critiche coordinate.
Certo: questo rimanda a un discorso che vado facendo nuovamente
ancora oggi: per esempio quando mi capita di partecipare alle
riunioni con i giovani, e con i gruppi di no-global. Insisto sempre
e testardamente su una domanda: dobbiamo capire come si incide sui
punti dove si prendono le decisioni: quelle vere: formali e di
sostanza. Noi viviamo in società complesse in cui la politica ha una
fortissima articolazione e i luoghi del potere sono come dire?
sparsi sul mondo. Bisogna dire che il comunismo italiano non è
stato "provinciale", e ha teso sempre a incidere sui luoghi
sostanziali di potere anche quando e dove era stato confinato
duramente all’opposizione. Ma in quegli anni Settanta di cui stiamo
parlando eravamo nel pieno di un contrattacco reazionario, che vedrà
poi figure come Reagan e la Thatcher e innovazioni radicali rispetto
al vecchio fordismo. E l’offensiva anti-operaia è proclamata con
squilli di tromba: anche sul terreno teorico. Ti ricordi la riunione
della "Trilateral" nel cuore degli anni Settanta? Come chiama
ruvidamente al contrattacco…
La critica a Berlinguer, dunque è una sola. Sia il Berlinguer del
compromesso storico sia quello dell’alternativa manca nel legame
sociale, nella capacità di fronteggiare il nuovo mondo produttivo...
Si, manca nel cogliere le novità che si producono nel conflitto
sociale, e quindi in quello che una volta si chiamava il "legame con
le masse popolari". Può sembrare una affermazione ingiusta e persino
paradossale, perché la popolarità di Berlinguer è stata enorme. I
suoi funerali videro davvero un corteo immenso, una nazione in
lagrime. Eppure io, in più occasioni decisive, ho avvertito in lui
l’illusione di poter scavalcare i problemi reali con una
intuizione "tattica". Così come era illusione pensare che si
potessero eludere i tre grandi nemici: la borghesia reazionaria
italiana, l’amministrazione americana e l’Unione sovietica.
L’ostilità delle due grandi potenze fu decisiva. Quelle due metà del
mondo avevano una formidabile rete di penetrazione e di controllo
nella e sulla politica italiana. E c’è una strana somiglianza tra le
carenze del tentativo che fa Berlinguer, e quello che nello stesso
periodo mettono in campo Moro e Zaccagnini (e forse persino uno come
Piccoli) di portare a quelle nozze la Dc senza aprire una lotta
interna, senza attaccare i luoghi di potere che dentro la Dc si
battevano per una strategia diversa e opposta. Per questo essi
pèrdono: perché non danno vera battaglia agli avversari. Non vanno a
fondo delle questioni. Non portano alle naturali conseguenze
l’impresa di mettere in campo un’intesa con i "rossi" cresciuti
nella speranza della rivoluzione sociale, e che si proclamavano
allievi nientemeno che di Gramsci.
Ricordo i colloqui che ho avuto in quegli anni con un funzionario
della Camera che si chiamava Tullio Ancora, ed era un uomo di
fiducia di Moro. Spesso io gli segnalavo problemi politici urgenti e
lui mi recava in risposta l’opinione di Moro. Diceva Moro: "Si, è
vero, ma non si può. Non ce la facciamo. Ci vuole tempo". Sembrava
una linea realista, ma non lo era. In verità Moro è andato parecchio
avanti: ricordo, poco prima di morire, quel famoso discorso di
Benevento, in cui egli mette esplicitamente sul piatto la
possibilità di un incontro tra Dc e sinistra sul tema del
socialismo. Per la prima volta dentro la Dc viene rinominata questa
questione. E a mio avviso egli non alludeva solo a un governo
coi socialisti e coi comunisti, ma al tema grandissimo del rapporto
tra cattolici e socialismo. Era un tema che, a suo modo, aveva già
posto e sul quale era stato sconfitto Giorgio La Pira.
Hai detto che uno degli ostacoli fu l’Urss…
Si. Forse io di questo mi accorsi tardi. Però a un certo punto la
consapevolezza fu chiarissima. In ogni modo la vicenda della
repressione di Praga fu un grande e sciagurato punto di verifica.
Anche Longo lo vide: l’Urss non cambia: e non permette nella sua
area che altri cambi. E questo modificava quasi tutto della nostra
prospettiva politica. Praga fu una tragedia: prima c’era stata
Budapest, poi venne la mazzata di Praga che fu definitiva. E chiuse
ogni ipotesi di restare amici stretti dell’URSS e al tempo stesso
costruire una via nuova al socialismo in Europa. Io, la prima volta,
ai tempi di Budapest, sbagliai clamorosamente: difesi i sovietici
che aggredivano l’Ungheria. La seconda volta non sbagliai. Capii che
si era chiusa una fase.
Poi si arriva al ’79, ci sono le nuove elezioni del Parlamento e tu
non torni a fare il presidente della Camera. Perché?
Io a quel punto mi sono reso perfettamente conto del fatto che su
sulle basi diciamo così del "compromesso storico" non ce
l’abbiamo fatta e non ce la possiamo fare. E allora quando viene il
momento della decisione di nominare il nuovo presidente della
Camera, e quando il partito mi chiede di tornare presidente, io dico
di no. Ricordo una serie di colloqui lunghi e tesi con Berlinguer, a
casa sua. Lui un po’ non capisce, un po’ tenta di persuadermi. Ma io
avevo ormai maturato a lungo il mio no. Si arriva a una riunione di
Direzione per prendere la decisione. E là, a un certo punto, si alza
Ugo Pecchioli e dice: "noi siamo abituati a vivere e operare in un
partito nel quale quando il partito prende una decisione si dice sì
e basta". Insomma, mi accusò di grave, illecita indisciplina. Anni
dopo, lui che era persona molto seria e leale, un giorno mi avvicinò
e mi disse : "ti ricordi quella volta che io ti rivolsi
quell’attacco? Mi sbagliavo io. Non avevo capito…". Devo dire che mi
fece piacere. Comunque io ressi a tutte le pressioni, anche di
Berlinguer. Mantenni la mia decisione di non candidarmi a presidente
della Camera, perché ero certo che la politica del Pci non reggeva,
e la prospettiva cosiddetta del "compromesso storico" ormai era in
crisi. E volevo tornare a pensare, a cercare le cause degli errori,
e le possibili vie di uscita. Per esempio: mi rendevo conto che in
molti paesi d’Europa le cose erano andate diversamente. Specialmente
in Austria, in Germania, nei paesi scandinavi. Là la
socialdemocrazia aveva trovato una sua via. Ce l’aveva fatta. Mentre
noi no. Noi eravamo andati molto avanti nella presenza tra le masse
ma non eravamo riusciti a costruire una prospettiva di governo e di
rinnovamento sociale.
Berlinguer, secondo te, sottovalutò l’importanza delle
socialdemocrazie europee?
Sì. Anch’io sottovalutai quell’ importanza. Penso che non abbiamo
saputo tessere un rapporto costruttivo con le socialdemocrazie
europee e una prospettiva di lotta comune con esse. E non abbiamo
capito abbastanza il tipo di esperienze sociali che avevano preso
corpo in Nord-Europa. Del resto abbiamo lasciato morire senza un
sostegno reale anche il gracile tentativo dell’eurocomunismo: un
errore che conferma ancora la nostra debolezza di fatto nella
relazione con il nostro Continente, e nonostante l’eco mondiale che
aveva suscitato il comunismo italiano..
Neanche Amendola capì il ruolo delle socialdemocrazie?
Secondo me neanche Amendola: lui era convinto che il problema vero
fosse che il capitalismo italiano era arretrato: era uomo che aveva
in mente soprattutto progetti di modernizzazione capitalistica
italiana: almeno così penso. Lui poi era uno che voleva fare un
socialismo suo, senza modelli; però diceva: "non tocchiamo l’Urss".
Mi sembrava che il filo ultimo del suo ragionamento fosse: "è vero,
l’Urss non va bene, c’è stata Budapest, c’è stata Praga, c’è stata
Kabul: però noi non dobbiamo impicciarci". E questo francamente a me
appariva pesantemente contraddittorio: duramente astratto,
nonostante il suo continuo richiamo al realismo.
Il tuo quindi è un giudizio critico, su Berlinguer?
Penso che Berlinguer ebbe il forte merito di intendere fermamente il
nodo, il problema di prospettiva che avevamo davanti. Capì la
drammaticità del momento. Si rese conto che stavamo attraversando un
crinale decisivo. E tentò una via di salvezza. Questo è un suo
merito: e confesso che questo aspetto della sua posizione io non lo
afferrai subito: e nemmeno il coraggio di alcune sue affermazioni.
Per me più che lo scritto sul "compromesso storico", la sua vera
svolta fu quando rispose a una domanda esplicita di Gianpaolo Pansa,
giornalista del "Corriere della Sera", che lui si sentiva più
tranquillo sotto l’ombrello della Nato. Quindi nonostante le
apparenze egli andò molto avanti nel giudizio sull’URSS. Però ho
l’impressione che non tentò le alleanze internazionali necessarie.
Restò chiuso in Italia. Anche l’idea dell’eurocomunismo che aveva
una sua novità e segnava un forte attacco all’URSS - non mi pare che
l’abbia vista come decisiva. Non ci puntò molto. Ebbi l’impressione
di una sua adesione piuttosto formale, rituale. Il comunismo
italiano ha faticato tanto a costruire un rapporto reale con la
socialdemocrazia europea. E invece quello era un interlocutore
necessario, o almeno un forte alleato possibile. Forse sono
ingiusto. Ma Berlinguer non afferrò e non enunciò le condizioni per
una possibile alleanza europea.
Perché rifiutasti il secondo incarico a Presidente della Camera?
Perché avvertivo il bisogno di capire tutto un grande pezzo della
sinistra europea che mi parve un interlocutore necessario e un
alleato possibile. E mi misi a girare per le capitali politiche del
Continente. Fu un tentativo consapevole di uscire dalle secche del
leninismo, e tornare a una analisi di classe corretta.
Mi hai detto che poi mi avresti raccontato del tuo incontro con Don
Milani…
Si. L’incontro fu organizzato da un mio amico prete fiorentino: don
Nesi, con cui avevo amicizia dagli inizi degli anni Sessanta. Don
Milani era già noto e c’era già polemica intorno alla sua figura.
Con don Nesi ci recammo lì a Barbiana, mi sembra in un gracile
inizio di primavera, un pomeriggio sul tardi, con un cielo nebbioso.
Siamo saliti sulla collina, prima in auto, e poi, nell’ultimo
tratto, a piedi. Don Milani ci accolse con gentilezza, ma anche con
evidente distacco. Senza alcun accenno di simpatia. Anzi quasi un
po’ stanco: come dinanzi a un rito un po’ noioso. E tagliato corto
con i convenevoli ci propose un programma chiarissimo. Disse: qui
c’è la scuola, entriamo dentro e apriamo un colloquio tra il
politico di Roma e gli scolari. Nessun preambolo e nemmeno troppi
complimenti. Io sono entrato con una certa ansia in quella stanza
piena di ragazzi, e loro non hanno atteso un minuto: hanno iniziato
subito a fare domande. Avevano come tema, potremmo dire oggi, "Roma
ladrona", e i politici corrotti o che non combattevano contro la
corruzione e per i diritti. Eccetera. Si vedeva facilmente che si
erano preparati. Don Milani non disse nulla. Io mi trovai di fronte
a quelle domande impertinenti, e stavo per irritarmi, anche perché
le domande nella loro formulazione erano rivolte chiaramente contro
di me, o per lo meno contro l’immagine che i ragazzi avevano in
testa di quel politicante romano. Ebbi però la saggezza di non
arrabbiarmi di fronte a quel palese pregiudizio (persino con qualche
accento di disprezzo), e di rispondere a tutte le questioni, anche
le più impertinenti: senza sottrarmi. Poi a un certo punto mi decisi
a interromperli. E dissi: "Capiamoci bene, ragazzi. Io non sono quel
politico che voi avete in testa: la penso in un altro modo, la mia
vita è un’altra cosa e probabilmente su tanti argomenti non la
pensiamo in modo diverso". Rimasero sorpresi? Certo ci fu il
disgelo. Loro cambiarono tono e domande, e s’avviò un dialogo. Solo
allora intervenne anche Milani. Diventò come un appassionante
interrogarsi intorno a un piccolo tavolo. Fu molto emozionante. Però
anche quando ci siamo salutati ricordo che ci scambiammo con Don
Milani delle parole gentili, ma non ebbi l’impressione di una
comunicazione effettiva. Sembrava che mi considerasse ancora cosi
pensavo, scendendo - "uno della pianura"