Home > Quell’America che vota per George W. Bush
Discorso populista e difesa dei privilegi
Nelle prossime settimane, gli americani sapranno il
nome dello sfidante democratico di George W. Bush.
L’avversione che suscita il presidente degli Stati
uniti, nel suo paese come all’estero, fa a volte
dimenticare che ha diversi sostenitori. I quali sanno
usare al meglio il disprezzo nei loro confronti per
ergersi a portavoce dell’America profonda, né
intellettuale né europea, ma sicura della propria
superiorità e dei propri valori.
Nel momento in cui i candidati democratici alle
elezioni presidenziali del novembre 2004 si
affrontavano nello Iowa, una pubblicità televisiva
scagliava i suoi strali contro il favorito dei
sondaggi. Howard Dean.
Questi veniva presentato come la scelta della «élite
culturale» che è sempre felice di «aumentare le tasse,
estendere il potere dello stato, bere il cappuccino,
mangiare sushi, guidare la Volvo, leggere il New York
Times, farsi il piercing, osannare Hollywood,
assistere a spettacoli di sinistra». In poche parole,
quelli che non avevano nulla a che spartire con la
brava gente del Midwest.
La pubblicità era pagata dal Club for growth,
un’organizzazione costituita a Washington allo scopo
di procedere agli sponsali tra i ricchi che venerano
il mondo del business e gli uomini politici che,
condividendo la stessa inclinazione, sono in grado di
concretizzarla in leggi sonanti e traballanti. I
membri del Club sono economisti neoliberisti,
celebrità ricche sfondate, ma anche alcuni dei grandi
pensatori dell’ex new economy che hanno dedicato un
intero decennio a descrivere la deregulation e la
riduzione delle tasse come il ritorno del Messia su
questa terra. Quelli cioè che hanno visto Gesù
nell’aumento degli indici del Nasdaq, e la volontà
divina nella politica di mercato che attualmente
trasmette gli spot televisivi per fustigare quella
maledetta «élite».
Questo paradosso racchiude una parte del mistero
americano del 2004.
Per effetto dello spostamento a destra dell’ultimo
trentennio, la ricchezza oggi come oggi negli Stati
uniti è più concentrata di quanto non sia mai stata
dopo gli anni ’20 del Novecento, i lavoratori
dipendenti godono di minori diritti sulle loro
condizioni di lavoro, l’impresa è divenuta il motore
più potente del mondo. Eppure, questa ondata
conservatrice - che continua ancora adesso - riesce
perfino a vendersi dichiarando guerra alle «élites»,
in una rivolta virtuosa del «piccolo Davide» contro il
Golia di una odiosa classe dirigente.
Il capo di questa combriccola di ribelli poco
credibili è il presidente degli Stati uniti in
persona, George W. Bush, ex industriale del petrolio,
laureato a Yale, figlio di un ex presidente degli
Stati uniti, nipote di un senatore, un uomo che a ogni
tappa della sua esistenza ha potuto beneficiare di
tutti i privilegi di cui l’America dei ricchi sa
colmare i suoi rampolli. Bush è anche l’uomo che
invoca la sua «tempra populista» per il solo motivo
che i colletti alti dell’East Coast manifesterebbero
«disprezzo» nei confronti suoi e dei suoi compari
texani.
Il populismo del presidente non è completamente
artefatto. Il suo risentimento nei confronti degli
snob dell’East Coast è grottesco, ma sincero. George
W. Bush ha un buon feeling con l’America profonda,
parla con semplicità alla gente comune, che lo
contraccambia col suo amore. Il prossimo novembre
potrebbe aggiudicarsi per la seconda volta un’elevata
percentuale dei voti dei lavoratori dipendenti
bianchi.
Quattro anni fa, ha avuto dalla sua parte la
maggioranza di tali elettori, mentre il 90% dei neri
nel 2000 hanno votato per i democratici.
In passato il populismo era la lingua madre della
sinistra americana (1). I lavoratori cercavano di
consolidare la forza dei sindacati, di regolamentare
l’economia, di allargare al massimo la sicurezza
sociale. Li fronteggiava il partito dei padroni e il
portavoce delle élites sociali; in una parola, i
repubblicani. E i repubblicani non hanno cambiato
posizione, ma hanno dedicato lunghi anni di lavoro per
dar lustro a una forma di populismo che si identifichi
con loro.
È una commistione di anti-intellettualismo, di
evocazioni onnipresenti, di Dio, di omelie nostalgiche
dell’America profonda e del suo umile uomo comune.
Richard Nixon era stato il primo a ricorrere a questa
strana combinazione (anche se la spiritualità non era
il suo forte...).
Dopo di lui, ogni presidente repubblicano si è
presentato sotto una luce populista. George W. Bush è
l’ultimo epigono della casata, ma anche uno degli
interpreti più efficaci nel ruolo dell’uomo politico
contemporaneamente asservito alle priorità del mondo
del business e in grado di esprimersi con la voce dei
dannati della terra.
La formula funziona. Anzi, trionfa. È ripresa dagli
eletti, editorialisti, agenti di relazioni pubbliche,
società di intermediazione, pubblicitari, giornalisti
economici. La riprende anche Hollywood, immagine di
tutto quello che la destra sostiene di aborrire.
Durante gli anni ’90 ha dominato un «populismo di
mercato» ispirato alle strategie di comunicazione di
Wall Street. L’idea di fondo era semplice: il mercato
è l’essenza della democrazia, la quale non potrebbe
concepirsi senza di esso.
Poiché partecipiamo tutti al mercato - acquistando
azioni, operando una scelta tra due marche di crema da
barba, andando a vedere un film anziché un altro - i
mercati esprimono la scelta del popolo.
Ci portano quello che chiediamo, smontano l’ancien
regime, danno il potere al consumatore. A questo
punto, tentare di regolamentare i mercati o di
contrastarne gli effetti non può essere altro se non
arroganza e tentazione tirannica da parte delle élites
colte, che vogliono continuare a scavalcare bellamente
tutti gli altri (2).
In tempi di prosperità, come è avvenuto alcuni anni
addietro, il populismo di mercato abbina
sistematicamente il destino dell’americano medio alla
prosperità degli azionisti della sua azienda. Proprio
per questo i telespettatori degli anni ’90 si sono
visti propinare in continuazione miniserie
pubblicitarie in cui la borsa era l’alfiere di una
«rivoluzione», le vecchiette si scambiavano consigli
di investimenti, i bambini si emancipavano grazie al
loro abbigliamento griffato.
Durante il boom, una rete televisiva seguiva tutti i
pomeriggi l’evoluzione dei patrimoni degli americani
più ricchi. Dopo di che, ognuno venerava i nuovi
miliardari, eletti dagli investimenti del popolo.
Anche la repubblicanissima Enron aveva legato la sua
attività di lobby a favore della deregulation
dell’elettricità al movimento per i diritti civili
degli anni ’60... (3). La deregulation e la
privatizzazione erano identificate con il potere
popolare. Al termine di ogni sciopero schiacciato
sotto i piedi insieme al sindacato che l’aveva
lanciato, gli editorialisti immaginavano la gioia dei
lavoratori, da allora in poi liberi da qualsiasi
schiavitù.
Nei tempi difficili, la commercializzazione del
populismo di mercato è un’opera più delicata. Allora
cede il posto, come avviene in questo momento, al
vecchio «populismo» del ritorno del bastone,
un’accozzaglia di recriminazioni contro «quelli di
sinistra», non per la loro mancanza di fede nel
mercato - e quindi nella democrazia - ma piuttosto
perché avrebbero imposto ogni sorta di mostruosità
culturali alla gente tranquilla della America
profonda. Dopo aver legalizzato l’aborto, vietato le
preghiere nelle scuole pubbliche, attualmente questi
seminatori di discordia minacciano di legalizzare il
matrimonio tra omosessuali.
Ancora una volta, il nemico del popolo è questa «élite
progressista» assatanata, identificata con gli
intellettuali marchiati a fuoco dalla loro eterna
arroganza. Ancora una volta, il partito repubblicano
incarnerebbe i piccoli, gli umili, gli anonimi, che si
sollevano contro una classe dirigente che disprezza i
loro «valori».
Onnipresente alla radio e su Fox News (4), questo
«populismo» rancido, reazionario, è ossessionato dai
simboli della cultura dei consumi.
Invece di attaccare direttamente i potenti - spesso
repubblicani...
– colma di improperi e gli oggetti raffinati e snob di
cui quei potenti avrebbero l’uso: i bar esclusivi, i
ristoranti raffinati, gli studi nelle grandi
università, le vacanze in Europa e, soprattutto, le
auto d’importazione.
Irritato da tali gusti «effeminati», il populismo
rancido esibisce le preferenze presunte del paese
profondo (nel novembre 2000, i democratici sono stati
sonoramente sconfitti in quasi tutti gli stati
dell’interno, mentre trionfavano in California, a New
York, nel Massachusetts, simboli del vergognoso
cosmopolitismo). Quali preferenze? I veri americani
amano le bisteccone alla texana, il mondo rurale
(Bush, come già Ronald Reagan, va a ritemprarsi nel
suo ranch), bere la birra comune (non importata),
lavorare con le proprie mani, guidare una macchina
fabbricata nel loro paese. L’idea che gli industriali
del petrolio, miliardari di Houston o di Wichita,
trascorrano anche loro le vacanze in Europa,
apprezzino l’aroma dei caffè più delicati e guidino la
Jaguar, evidentemente è considerato inverosimile.
Questo insistere sulla guerra dei consumi ha il
vantaggio di spingere a destra la dinamica del
risentimento di classe. Gli oggetti identificati con
l’élite sono infatti utilizzati più frequentemente dai
laureati che si dicono progressisti. A loro è
affibbiata l’etichetta di «snob»; ai repubblicani è
attribuita l’unica maestà dei milioni di persone
comuni che riconoscono. Perché, in realtà, i buoni
americani detestano le élites e i loro gusti, e questo
spiega perché hanno votato per uomini dalla parola
semplice, come l’attuale presidente, suo padre, Ronald
Reagan e Richard Nixon, il quale sfruttò appieno
l’odio per gli intellettuali della East Coast (la più
«europea» delle due) e il clan dei Kennedy. Una volta
messo piede alla Casa bianca, ognuna di queste
«persone comuni» si è impegnata a fondo per sommergere
di favori i più privilegiati...
Il settarismo dei progressisti I travestimenti di
questa rappresentazione repubblicana dell’élite
dovrebbero far spalancare gli occhi a un cieco.
Innanzitutto, c’è quel postulato assurdo che vorrebbe
che l’«establishment» sia composto da gente di
sinistra. In secondo luogo, i sostenitori di Bush
rimproverano ai «progressisti» di mangiare sushi e
farsi il piercing, ma poi non esitano a osannare i
consumatori di sushi e gli amanti del piercing quando
identificano in loro «imprenditori» intrepidi e
consumatori sufficientemente liberati da essere se
stessi. A volte disprezzano Hollywood, accusando di
corrompere la cultura nazionale con i suoi valori
sofisticati, a volte invece l’esaltano per la sua
creatività, i suoi profitti, il suo fiuto nello
stabilire quello che la gente ha voglia di vedere.
Senza dimenticare, naturalmente Ronald Reagan e il
governatore Schwarzenegger, che da lì vengono. Non
importa: gli strateghi repubblicani navigano con
indifferenza tra questi due poli, manipolando e
assecondando di volta in volta gli impulsi dell’uno o
dell’altro.
La destra americana riesce a superare le
contraddizioni del suo discorso almeno in parte grazie
alla sinistra. Incapaci di comprendere il «populismo»
culturale, molti americani progressisti (vezzeggiati
dai media europei) vi scorgono soltanto un razzismo
sotto mentite spoglie, che ai loro occhi è il simbolo
di un’epidemia nazionale.
La minima manifestazione di questo populismo li fa
pensare immediatamente a Timothy Mc Veigh e alle
milizie di estrema destra. Ho vissuto l’esperienza
diretta di questa patologia ben pensante, in occasione
di un recente incontro di militanti di sinistra a
Chicago.
Dopo aver ascoltato una critica giusta e sferzante
dell’universo mediatico, delle sue manipolazioni e
delle sue menzogne, sono intervenuto nel dibattito per
sottolineare che milioni di americani «comuni», spesso
religiosi praticanti, condividevano quella critica dei
media, ma commettevano l’errore di assimilare al
«progressismo» i poteri economici e finanziari che
dominano il paese e il suo sistema d’informazione.
A quel punto ho invitato l’oratore a fare uno sforzo
per stabilire un contatto con quell’ America, per
tentare di volgere a vantaggio della sinistra
quell’evidente risentimento di classe. Immediatamente,
sono stato messo a tacere da un’esponente del
pubblico, «offesa» che, a ragionare così, ben presto
sarebbe stato necessario «cercare di convincere i
sostenitori del Ku Klux Klan». In realtà, i
«populisti» di destra hanno in parte ragione. Taluni
«progressisti» amano trascorrere le vacanze in Europa,
bere il cappuccino, guidare una Volvo. Ma soprattutto
detestano il popolo americano quando non gli
assomiglia. Basta andare a una riunione dei difensori
dei diritti degli animali, passeggiare per un campus
universitario, per scoprire rapidamente che alcune
forme di azione politica sono divenute appannaggio
delle classi colte medio-alte, della «minoranza
civilizzata» stigmatizzata dallo storico Christopher
Lasch.
In altri termini, gente per cui la politica
significa un esercizio di terapia individuale, di
realizzazione personale, più che un impegno destinato
a costruire un movimento (5). Per loro, la sinistra è
una spiritualità tranquillizzante, un sentimento di
empatia per l’«autenticità» dei poveri e degli
immigrati, un mezzo per dimostrare loro che, di quando
in quando, si pensa a loro. I distintivi all’occhiello
e gli adesivi sui paraurti gridano al mondo la bontà
dei progressisti, più o meno come le scelte di consumo
«etiche» e l’attenzione a riciclare le bottiglie di
vetro.
Per certi periodici di sinistra, la contestazione
stessa è diventata un’attività appetibile con le sue
star. Non c’è forse un’eau de toilette che si chiama
«Activist»? A volte si è di sinistra perché si nasce
di sinistra. Una nobiltà ereditata autorizza a esibire
con orgoglio il proprio pedigree. Il declino
disastroso della sinistra americana intesa come
movimento sociale, il suo inaridimento, in un caso del
genere incidono di meno. Troppo spesso, la sinistra
incarna la solidarietà dall’alto nei confronti dei
meno privilegiati, e non il loro movimento per la
trasformazione della società. Quando il fronte diventa
meno compatto, quel che dovrebbe significare che sarà
più difficile ottenere una copertura medica
universale, un diritto di rappresentanza sindacale,
attesta invece per una parte della sinistra americana
l’eccesso di non conformismo a cui essa è legata e la
«creatività» delle idee «ribelli» che essa difende.
Sollevarsi contro gli «zoticoni» che sventolano la
bandiera a stelle e strisce, a questo punto diventa
più importante che non convincerli a partecipare a uno
scontro politico a vocazione maggioritaria. Perché
troppo spesso essere di sinistra non vuol dire fare
causa comune con il popolo americano, bensì fargli la
predica, correggerlo, sottolineare con insistenza
tutti i suoi punti deboli.
In occasione del dibattito alle Nazioni unite che ha
preceduto la guerra in Iraq, Dominique de Villepin
riteneva certamente di poter convincere i sostenitori
di Bush ogni volta che smontava le affermazioni false
presentate da parte americana. Ben vestito, raffinato,
poliglotta, applaudito dagli ambasciatori del mondo
intero, redarguiva con l’accondiscendenza di un
aristocratico sicuro del fatto suo un segretario di
stato stoico e rannicchiato sulla sua sedia. Quello
che de Villepin non ha saputo valutare, è che milioni
di americani non si curano minimamente dei fatti, ma
si nutrono di simboli. Orbene, su questo piano, Bush
non poteva sperare in una drammaturgia più consona al
suo populismo, dello scontro fra un povero americano
maldestro e un francese che domina la scena con le sue
citazioni poetiche.
Più o meno una volta ogni quattro
anni, maremoti elettorali coinvolgono i luoghi più
improbabili, elettori di destra che spuntano là dove
ci si sarebbe aspettati una maggioranza di sinistra,
uno scoppio di collera là dove dovrebbe regnare la
soddisfazione. Fin tanto che non impareranno a
preoccuparsi maggiormente degli aspetti culturali di
questa dinamica, i progressisti americani condannano
se stessi - e, insieme a loro, il resto del mondo -
alle politiche e alle guerre decise da un’America che
non fanno più il minimo sforzo di comprendere.
* Direttore della rivista The Baffer (Chicago), autore
di Marché de droit divin: capitalisme sauvage et
populisme de marché (Agone, Marsiglia, 2003).
Il Manifesto