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Parlez vous français? L’ombra d’una lingua coloniale: Il Festival Francofffolies en France

Publie le venerdì 24 marzo 2006 par Open-Publishing
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Dazibao Libri-Letteratura Chiara Ristori

di Chiara Ristori

Quest’anno il Salon du Livre di Parigi, che si è tenuto dal 17 al 22 marzo, non ha ospitato come nelle edizioni passate la letteraura di un solo paese invitato, ma ben sessantatrè. Il Salone ha infatti inaugurato il Festival Francofffollies en France -no, non è un errore, le effe sono proprio tre- che celebrerà fino al mese di ottobre la diversità di 63 Stati e Governi membri o soci dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia.

Non si è trattato dunque di identificare le grandi tendenze di una letteratura ospite (negli anni scorsi l’Italia, ospite d’onore per due volte, la Cina e la Russia), ma di ridisegnare i contorni della mappa della Francofonia, questa comunità forse poco conosciuta che parla (e scrive) in lingua francese.

Strano termine questo, francophonie, inventato nel 1880 dal geografo Onésine Reclus, in pieno periodo di espansione coloniale. Oggi riproposto al plurale, ad indicare le diverse voci, i diversi accenti che può assumere una lingua usata infatti non solo dai 60 milioni di Francesi « metropolitani », ma anche da 175 milioni di francofoni nel mondo, ai quali bisogna aggiungere gli 83 milioni di persone che imparano il francese come lingua straniera.

Il parere comune vorebbe che, al di fuori dei paesi francofoni, alcuni principi russi o italiani avrebbero ancora la padronanza del francese, ma è generalmente ammesso che i tempi non sono più quelli di Tolstoi, col suo incipit di Guerra e Pace in francese salottiero e « orale », o del Manzoni, che pur fabbricandoci l’italiano a tavolino, teneva la sua corrispondenza in francese (ma che con i figli ed i servi parlava in dialetto milanese).

Oggi in Europa in questi ultimi dieci anni l’utilizzazione del francese è in netto ribasso rispetto all’inglese : il numero di testi europei scritti in francese è diminuito del 30%, mentre la percentuale di quelli redatti in inglese è aumenata del doppio. Un aneddotto la dice lunga sulla situazione attuale della lingua di Molière nel mondo : il nuovo segretario di stato canadese alla francofonia, Ted Menzies, non parla una parola proprio di francese !

Allora ecco imporsi la necessità al Salon du Livre di queste Francofffonies, le cui tre « effe » ispirano ad organizzatori e addetti ai lavori allitterazioni di dubbio gusto : festivo, favoloso, o fantastico che sia, questo Festival ci sembra voler celebrare soprattuto la fierezza della condivisione di una lingua, sia essa ereditata, imposta, o scelta.

E soprattutto la fatica di difenderla come luogo della pluralità, e non dell’espressione di un’egemonia. La francofonia è senz’altro un progetto tanto politico quanto letterario, e il programma ambizioso : « Il francese è un patrimonio nazionale offerto a tutti coloro desiderino accoglierlo, eredità di un’identità collettiva oltre che strumento per interrogare il futuro ».

Nei lodevoli intenti generali, non ci sarebbe più una Francia dominatrice che deterrebbe la padronanza del francese ( e della pronuncia, e del pensiero « corretti ») da un lato, e dall’altro lato delle culture dominate che lo praticano (con buffi accenti e curiosità linguistiche che mandano in visibilio i parigini, ma di cui è meglio sbarazzarsi per essere credibili). Il francese apparterrebbe a « tutti coloro che lo parlano, che l’hanno scelto un po’ ovunque nel mondo, a coloro che l’hanno conquistato nonostante le proibizioni e le alienazioni, come strumento di espressione e liberazione.... » , come suggeriscono i curatori di questa manifestazione. Ma è evidente che evocare la legittimità della pluralità non fa che indicarne come problematica la realizzazione.

Francofonie al plurale, dunque : quella di scrittori nati nel Quebec , per cui il francese è la lingua materna , la lingua dei primi coloni ; quella di svizzeri e belgi, minacciati alle frontiere da un altro francese, dominante, forse dispotico, talmente più chic ; e che dire poi del francese delle ex colonie e dei protettorati, dell’Africa Nera, del Magreb, del Vietnam ?

È la lingua dell’invasore, una lingua imposta con la forza. Eppure numerosissimi sono gli scrittori che lo rivendicano come come uno strumento, acquisito nella sofferenza, ma dal quale ritengono di poter estrarre nuove sonorità, una nuova musica. Infine, una francofonia ancora differente, sulla quale i media qui in Francia sembrano focalizzare l’attenzione : quella degli scrittori che hanno scelto il francese come lingua d’adozione, come terra d’esilio, in seguito ad una fuga, un’espulsione, un incontro, un amore o semplicemente per amore di questa lingua, della sua letteratura, della sua filosofia.

È questa, sì, la grande fierezza nazionale della Francia terra d’asilo, pays des Lumières et des Droits de l’Homme. Al Salon sono state dunque « celebrate » le Letterature francofone non solo con l’invito ad una quarantina di autori venuti dal mondo intero, ma anche segnalando coloro che hanno scelto, vicini o lontani, di scrivere in un francese che non è la lingua materna: da Samuel Bekkett, Hector Bianciotti, Milan Kundera a Jorge Semprun, Amin Malouf, Nancy Huston... « Non si abita un paese, si abita una lingua », diceva Cioran, francese di origine rumena.

Su questo agomento un dibattito dal tema « La Francia come scrittura ? Scrivere in Francese quando non è la lingua materna » ha avuto luogo il 21 marzo fra tre « nuove arrivate » nel plotone dei « convertiti al francese » . L’iraniana Chahdortt Djavann si è dichiara « liberata » dal francese, che ha adottato per farne la lingua del rifiuto degli arcaismi del proprio paese, nel nome della cultura alla quale ha deciso di aderire (anche se il francese, diventato un destino, come per altri autori è forse il frutto di un caso, che avrebbe potuto portarla negli Stai Uniti);

la slovena Brina Svit ha agomentato la sua scelta deplorando la mancanza di « erotismo » della propria lingua materna, la cui letteratura non conta nè un Sade né un Bataille, ed ha spigato di aver deciso di scrivere in francese (nel quale era già tradotta) per sentirsi di nuovamente « esposta » ed abbassare il registro linguistico di traduzioni « troppo ben fatte », nelle quali si sentiva « troppo ben vestita »; la simpaticissima cinese Shan Sa, che ha pubblicato il suo primo romanzo otto anni dopo il suo arrivo a Parigi, dichiara va onestamente di scrivere in francese « per essere letta » !

Musicista e pittrice, ha paragonato questa lingua « fine, logica, filosofica, sufficientemente sofisticata per esprimere tutte le sfumature del pensiero » al violino, mentre nel cinese sente risuonare la gravità e la potenza evocativa emozionale di un violoncello, più profonda, più densa... Eppure, come per Wei-Wei (che abita in Inghilterra ma continua a scrivere in francese, il cui studio le era stato imposto dal Partito « per sviluppare l’amicizia fra il popolo cinese e il popolo francese »), come per la libanese Venus Khoury Ghata, come per l’ungherese Agota Kristof, a fondamento di questa scelta comune sembra esserci sempre la necessità di riinventarsi, di mettere della distanza fra il proprio passato, i propri terrori, e l’atto di creazione letteraria.

È quanto affermava Beckett, è quanto la linguista e psicanalista di origine bulgara Julia Kristeva declina da anni nei propri libri-lei che ha fatto del proprio bilinguismo quasi un fondo di commercio- è quanto sembra aver capito persino Pivot. Ma una riflessione resta inespressa, in questo Salon e altrove, e ce ne rammarichiamo : non diceva forse Gilles Deleuze, a proposito di Proust e Céline, che « scrivere, è sempre scrivere in una lingua straniera ? ».

Lancio del blog sul sito internet del salon

FRANCOFONIA : FRANCOFFFONNIES : IL FESTIVAL DELLA FRANCOFONIA IN FRANCIA 16 MARZO AL 9 OTTOBRE WWW.FRANCOFFFONIES.FR APERTURA AI MEDIA : INTERNET TELEVISIONE

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