Home > Declino del petro-dollaro?
Dal Venezuela per Selvas.org le analisi di Tito
Pulsinelli *
Il duopolio Nymex-Ipe sigilla il potere del capitale finanziario anglo-USA nel
settore strategico del petrolio, dove contano con le 4 multinazionali maggiori,
e mette in luce la vulnerabilità crescente delle economie dei blocchi concorrenti.
Mentre appare evidente che
ancora non è possibile adottare unilateralmente il “petroeuro” c’è chi preme
per la creazione di un terzo polo energetico-finanziario per collocare sul mercato
autonomamente il proprio petrolio.
Il prezzo del barile di petrolio si avvia a superare i 65 dollari entro
fine dicembre, quando i rigori invernali fanno impennare i consumi. In
agosto costava 39, mentre scrivo è a 53 dollari. Al di là dei fattori
congiunturali come gli uragani che bloccano l’estrazione nel golfo del
Messico, lo sciopero dei lavoratori del settore petrolifero nigeriano,
la grave insolvenza fiscale della russa Yukos che la espone ad una
ri-nazionalizzazione, la tendenza al rialzo sostenuto dell’idrocarburo
è il risultato di una scelta deliberata.
I cronisti al servizio della speculazione non si stancano di esercitare
la fantasia alla ricerca di ragioni che giustifichino l’estrema
volatilità: la metereologia, l’opulenza e/o la anoressia della riserva
strategica USA, una inesistente scarsità delle riserve mondiali o il
suo contrario, poi indugiano in acrobazie statistiche sulle riserve
comprovate, potenziali, ipotetiche ecc.
Hanno persino gridato allo scandalo perchè il Venezuela ha aumentato le
tasse sui giacimenti nella foce dell’Orinoco da uno scandaloso 1% al
16%.
La questione è semplice: la capacità produttiva è al suo massimo
storico, per incrementarla rapidamente occorrono investimenti
tecnologici considerevoli. Tanto per farsi un’idea, il Venezuela per
poter accrescere l’estrazione da 3 a 5 milioni di barili al giorno,
investirà 5 miliardi di dollari nei prossimi tre anni.
E’ aumentato il consumo mondiale e manca all’appello il petrolio
iraqeno a causa dei sabotaggi, della guerra civile e di impianti resi
vetusti dallo scellerato embargo.
***
Il banchiere M. Simmons, specialista in investimenti nel ramo dei
combustibili, nonchè intimo di Bush e Cheney, prevede ed auspica un
barile a 182 dollari. Più moderato Bin Laden che, in un manuale
clandestino a lui attribuito che circola a Beirut, profetizza 144
dollari.
Nel mezzo c’è il Presidente venezuelano Chavez: “..un prezzo superiore
ai 40 dollari non è imputabile all’OPEC ma all’invasione illegale
dell’Iraq. Auspichiamo una fascia di oscillazione tra i 30 e i 40
dollari, la stabilità dei prezzi conviene a noi e ai consumatori”.
La sceneggiatura hollywoodiana della “guerra al terrorismo” nasconde
malamente la realtà di una guerra energetica, con un fronte geopolitico
ed uno finanziario.
Il rincaro smisurato del petrolio, alla lunga, assesterà colpi brutali
alla Cina, Giappone, India , Corea del sud e -in minor misura-
all’Unione Europea. In ogni caso, tutti questi paesi ne risentiranno in
misura assai maggiore degli Stati Uniti, non foss’altro perchè
diventeranno vantaggiosi i costi di estrazione dai giacimenti
domestici.
Il petrolio raggiunse la sua massima valutazione quando il colonnello
Muammar Ghedafi disse: “Il popolo libico ha vissuto per millenni senza
petrolio, possiamo benissimo continuare a sopravvivere senza di esso”.
I 50 dollari odierni, non equivalgono al valore reale raggiunto in
quella circostanza, corrispondente a 78 degli attuali dollari.
Il biglietto verde si è svalutato sensibilmente come conseguenza del
debito “visibile” degli Stati Uniti, che rappresenta attualmente il
300% delle sue esportazioni (1).
La quotazione del petrolio in dollari è una realtà penalizzante per i
paesi produttori e per l’OPEC, soprattutto dal 1983, con la creazione
del “mercato a futuro”, i titoli Nymex di New York e l’Ipe di Londra.
Da quel momento in poi, l’OPEC cessa di determinare unilateralmente il
prezzo: declina il suo potere geopolitico a tutto vantaggio del
“petrolio finanziario”.
La parte meno redditizia del business petrolifero è diventata quella
direttamente produttiva, più lucrativa solo della raffinazione
(l’ultima raffineria aperta negli USA risale a 25 anni fa). La parte
del leone, quindi, la fanno i “future”, ossia quei 128 milioni di
barili di “carta” che incombono sul portafoglio dei consumatori, e
devono sempre generare profitti, sia giocando al rialzo o al ribasso.
Tra i produttori di petrolio e il cliente della stazione di benzina c’è
l’attività parassitaria e speculativa del Nymex e dell’Ipe (vale a
dire BP, e le banche Morgan Stanley e Goldman Sachs), e i loro “hedge
funds” (fondi di copertura dei rischi).
***
Tra il costo del barile all’origine e il prezzo pagato dal consumatore
europeo, si frappone la mazzata del 75% di tasse applicate mediamente, e indistintamente, dai governi. Solo 30 centesimi di ogni litro
venduto vanno ai produttori.
Il mondo del petrolio non è impermeabile al dogma neoliberista che
impone un sistema dove accumulano di più quelli che stanno più lontani
dalla produzione. Il duopolio Nymex-Ipe sigilla il potere del capitale
finanziario anglo-USA in questo settore strategico -dove contano con le
4 multinazionali maggiori- e mette in luce la vulnerabilità crescente
delle economie dei blocchi concorrenti.
Il governo iraniano è deciso ad opporsi a questo duopolio finanziario e
sta facendo seri sforzi per collocare sul mercato autonomamente il suo
petrolio. Terry Macalister, nel “The Guardian” del 16 giugno scorso,
dice che “i principali paesi produttori sono determinati ad ottenere un
maggior controllo del commercio dopo essere stati consigliati che i
mercati esistenti -come il Nymex e l’Ipe- non funzionano a loro
vantaggio”.
Mohammad Javad Asempour, consiliere personale del ministro iraniano
dell’energia, ha dichiarato che la nuova borsa petrolifera dovrebbe
cominciare a funzionare all’inizio del prossimo anno. Un consorzio
denominato Wimpole, che riunisce imprese iraniane e straniere -tra cui
un ex direttore del Nymex e PA Consulting- si è aggiudicato il
contratto.
Tra parentesi, si noti come negli ultimi mesi si siano intensificate le
“preoccupazioni” per il pericolo nucleare iraniano e gli attacchi
contro Theran sono più feroci. I più preoccupati, naturalmente, sono
quelli che già posseggono armi nucleari.
Nessuno ha dimenticato che il certificato di defunzione del regime di
Saddam Hussein si firmò il giorno in cui fissò il prezzo del petrolio
iraqeno in euro.
Non sappiamo quante possibilità abbia l’Iran per aprire una propria
borsa petrolifera, caratterizzata da una cesta mista formata da
greggio, gas naturale e prodotti petrochimici.
Non vi è dubbio che questa è la strada per affrancarsi dagli indicatori
“Brent”, e poter vendere le risorse naturali non rinnovabili, senza che
sia favorevole solo alla voracità neoliberista, e a tutto svantaggio
dei consumatori e dei produttori.
Le esportazioni dell’Iran e dell’Arabia saudita -per esempio- sono
vincolate alla miscela Brent del Mare del Nord. Perchè? Questi paesi
del Golfo Persico non dispongono degli “hedge funds”, cioè della
partecipazione delle banche di investimento.
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La rottura del duopolio Nymex-Ipe diventa possibile se al battistrada
iraniano (esporta 3 milioni di barili, seconda potenza mondiale
gasifera) si uniscono Cina, India e Giappone, principali economie
vulnerabili al caro-petrolio.
La chiave di volta risiede nel nuovo corso che decideranno i paesi
produttori dell’OPEC nel prossimo anno, e le misure che adotteranno per
delimitare lo strapotere del settore finanziario sul petrolio.
L’economista del Pentagono Robert Looney segnala che “all’OPEC manca il
controllo diretto della quotazione sui principali mercati del greggio”.
Visto i precedenti, appare evidente che non è in grado di adottare
unilateralmente il “petroeuro”, pertanto la strada che rimane aperta è
quella di unirsi all’iniziativa iraniana, e creare un altro titolo che
includa una gamma più vasta di prodotti, soprattutto offrendo un
pacchetto di gas naturale al petrolio.
Gli Stati Uniti consumano 20 milioni di barili al giorno, ne importa
più della metà: sono i maggiori consumatori ed inquinatori del pianeta.
Finora hanno pagato la fattura petrolifera grazie al privilegio
imperiale del ”petrodollaro”: gli altri mettono la materia prima, loro
mettono una svalutata cartamoneta.
Rubano, letteralmente, l’80% dei risparmi dell’umanità e con questi
finanziano i loro colossali deficit, la corsa armamentista e uno
scriteriato consumismo (3), grazie all’abolizione nixoniana
dell’equivalenza monetaria con l’oro del 1971.
La collisione contro il duopolio Nymex-Ipe è un ulteriore episodio
della lotta contro un sistema finanziario internazionale ormai
sessantenne che, all’iniquità, ha aggiunto una manifesta instabilità.
Nell’imminenza del 2005, quando il prezzo del petrolio potrebbe
cristallizzarsi in un numero composto da tre cifre, sarà a tutti
evidente la crisi del dollaro-centrismo. Uscirà dai conciliabili
segreti dei potenti, come Davos e i vertici G7, ed irromperà nel
dibattito pubblico .
Quando il dollaro era espressione di un’altra economia, non comparabile
con quella odierna fondata organicamente sul debito, quando producevano
il 55% delle merci circolanti nel mondo, il barile di petrolio era
quotato al di sotto dei 10 dollari.
Oggi, le banche centrali asiatiche controllano l’80% dei dollari in
circolazione, e finanziano il 65% del bilancio statunitense (4).
Quanto costerebbe il petrolio se fosse quotato in euro, o in oro?
Quanto se fosse scambiato con altri beni? Quanto costerebbe se le
eccedenze monetarie europee non fossero sacrificate sull’altare del
petro-dollaro?
La volatilità estrema del valore del barile indica che il manovratore
sta perdendo il controllo del treno: si riuscirà a fermarlo prima della
collisione con una “bolla energetica”? Il capotreno della Riserva
Federale -veterano delle “bolle”- manovra deliberatamente in quella
direzione?
L’estremismo unipolare di Bush si compiace con il cinismo del “Muoia
Sansone con tutti i Filistei”, ritenendo di paralizzare il
mercato-mondo in una tetra paranoia. Però, in spiccioli, significa
“soli contro tutti”.
Tutti gli altri sono nemici, sia a pure a diverso titolo. Nemici,
concorrenti strategici, vassalli, in ogni caso mai pari: si può
discutere su tutto, meno sul livello di vita del centro imperiale.
Ne deriva che i “tutti” hanno a disposizione una gamma di variabili, di
mobiltà e di mosse maggiori. Risulta stimolato l’avvicinamento,
coperazioni e collaborazioni finora impensabili contro l’avversario
unipolare.
Il blocco europeo, senza la destra, può avvicinarsi agli arabi e alla
Russia, guadagnando un mercato e la sicurezza energetica.Comincerebbe a
prender forma quell’Eurasia tanto detestata e temuta dal Pentagono. Si
tratta di decidere se aspira ad essere qualcosa di più di una variante
subordinata che gioca a modellarsi come il concorrente maggiore.
***
L’Europa dall’Atlantico agli Urali era la visione geopolitica di De
Gaulle, l’unica capace di collegare per via terrestre l’Europa alla
Cina e prescindere -in questo modo- dagli anglosassoni e derivati, e
dal loro dominio marittimo di ieri, aereo di oggi.
Messi alle strette, gli asiatici potrebbero stancarsi di collezionare
dollari inflazionati e garantirsi direttamente linee di rifornimento
energetico, senza passare dalla Borsa di New York e Londra. Potrebbero
esserci dei movimenti a fisarmonica sia con la Russia che con il mondo
petro-arabo, dove sarà la Cina ad effettuare le mosse decisive, con
conseguenze telluriche sull’attuale assetto unipolare.
Nell’area sudamericana, l’iniziativa venezuelana di promuovere Petrosur
significa riunire in un consorzio pubblico il 15% delle riserve
mondiali comprovate. Inoltre, già ora, è il polmone energetico del
Mercosur, blocco regionale antitetico all’ALCA, freno alla sua
espansione.
La questione petrolifera è intimamente collegata alla salute del
dollaro e dell’economia di cui è espressione. La ricetta dei falchi
neoliberisti per preservare ed espandere la loro egemonia è semplice e
brutale: con la superiorità bellica garantirsi l’accaparramento delle
risorse energetiche. E mettere in riga la concorrenza, senza sfumature.
Ciò implica una dipendenza vigorosa dai flussi monetari esterni, come
un malato che dipende da ininterrompibili trasfusioni, e preservare ad
oltranza il dollaro come sostituto dell’oro.
La volatilità e il disordine crescente del mercato energetico dipende
dal fatto che venga quotato con una denominazione stabile, in cui tutti
abbiano fiducia, che permetta un maggiore equilibrio, dove consumatori
e produttori cessino di essere la portata preferita del banchetto
neoliberista e della sua spericolata “ingegneria” finanziaria.
L’oggetto del contendere si situa sul versante finanziario della
“guerra al terrorismo”, dove si cerca di rompere l’asimmetria
borsistica con l’apparizione di un terzo protagonista.
Note.
(1) Nouriel Roubini, Universtà di New York; Brad Setser, Università di
Oxford.
(2) R. Looney, “De los petrodolares a los petroeuros: Se acercan los
dias finales del dólar en el Sistema de Reservas de Divisas
Internacional?”, 3/11/2003, pubblicato dal Centro Conflitti
Contemporanei.
(3)Stephen Roach, “Curso de colisiòn”, Morgan Stanley, Foro Economico
Global, 27/9/2003
(4) Alfredo Jalife-Rahme, “El barril de petroleo podrìa aumentare a 100
dollares en 2005”, La Jornada, 4/10/ 2004 .
(* Tito Pulsinelli, collaboratore di Radio Onda d’URTO di Brescia, ha scritto
diverse importanti analisi di geopolitica per Selvas.org)
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