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Nablus, tra orgoglio e macerie

Publie le domenica 30 maggio 2004 par Open-Publishing

Guerre-Conflitti medio-oriente Michele Giorgio

Viaggio nella città della Cisgiordania che più di ogni altra ha subìto le conseguenze di tre anni e mezzo di incursioni dell’esercito israeliano. Madri degli shahid e medici palestinesi hanno un unico obiettivo: resistere all’occupazione

MICHELE GIORGIO

INVIATO A NABLUS

Èun venerdì di primavera a Nablus. Dopo settimane di tempo incerto finalmente il sole riscalda la città che dalla valle nel cuore della Cisgiordania si arrampica sui monti Jerizim e Ebal. Un giorno di quiete, ma soltanto in apparenza. Certo non per Muhtaz Arafat, residente in via Til, che poco prima delle 6, ha visto soldati israeliani armati fino ai denti sfondargli la porta, puntare i mitra contro moglie e figli, spaccargli i mobili e andarsene via dicendogli «ci dispiace, cercavamo un terrorista». Il ricercato Imad Al-Qube, 23 anni, delle Brigate dei martiri di al-Aqsa (Al-Fatah), nascosto nell’abitazione sottostante, nel frattempo si era già arreso senza opporre resistenza. Ma questo non ha impedito al reparto speciale israeliano di svolgere «perquisizioni» in altri sei appartamenti con gli stessi effetti devastanti. «Hanno arrestato sei dei miei vicini di casa che non erano ricercati e non svolgono alcuna attività politica, ma loro (gli israeliani) li hanno ugualmente ammanettati e portati via», ci racconta Muhtaz che scoppia in lacrime quando un amico lo abbraccia portandogli la solidarietà di tutto il quartiere.

La sorella, Alia, è intenta a recuperare ciò che resta del servizio da tè di porcellana, uno dei pochi averi di valore in una abitazione modesta dove la povertà viene vissuta con dignità. «È la vita di Nablus, da tre anni e mezzo», ci spiega Majdi Shella, un sindacalista «rosso» che tiene i rapporti con i gruppi di pacifisti stranieri. Piccolo di statura, occhi azzurri, capelli impomatati e baffi ben curati, è il personaggio perfetto per una commedia di Eduardo. Il suo perenne sorriso e le battute simpatiche che sforna di tanto in tanto mascherano una profonda amarezza. Shella svolge con dedizione la sua attività di «guida» per gli attivisti internazionali.

Oggi accompagna Ettore, Giuditta e Giorgio, tre volontari di Assopace, organizzazione che da circa un anno mantiene una presenza costante a Nablus per garantire protezione ai civili palestinesi. «Quella che vedete lì è una casa che hanno danneggiato per la terza volta in due anni - indica Shella sporgendosi dal finestrino del taxi - appartiene a Naief Abu Sharekh, un giovane ricercato. La famiglia la ricostruisce ogni volta ma adesso è stanca di lottare». Entriamo nella abitazione, nel cuore della casbah, la città vecchia. Due stanze sono ridotte in macerie e detriti. «Non abbiamo più risparmi, siamo alla fame - racconta la madre di Naief, chiusa in un ampio mantil bianco, il velo islamico - gli israeliani continuano ad entrarci in casa ad ogni ora della notte, i miei nipotini urlano in preda al panico, mia nuora trema e piange. Perché vengono sempre qui? Mio figlio è scappato, non sappiamo più nulla di lui. Perché ci fanno questo?». Proseguiamo superando un cumulo di terra e mattoni e ci inoltriamo nella casbah suggestiva e misteriosa come sempre, seguendo Majdi Shella.Qui non si entra senza un accompagnatore, qualcuno di cui gli shebab al-balad, i ragazzi della città, possano fidarsi. Sono loro che garantiscono l’ordine nelle viuzze strette preda delle incursioni israeliane. Qualche mese fa uno di loro, Khaled Hundaji, di Hizb a-shab (ex comunista) ci spiegò che «nessuno governa Nablus, solo loro, i ragazzi di strada, che godono della fiducia della popolazione, sono autorizzati a dare disposizioni.

Qui l’Autorità nazionale palestinese (Anp) non esiste, comanda la gente che vuole la libertà e l’indipendenza e vedere sparire gli occupanti israeliani dalla nostra città».Di Hundaji non si sa più nulla, da qualche settimana è sparito. È diventato latitante per sfuggire all’arresto da parte dell’esercito israeliano che di notte compie incursioni nel quartiere di Kariuon dove vive la sua famiglia. Le botteghe della casbah sono in parte chiuse. Sono aperti invece tutti i barbieri che nelle vetrine espongono colonie in bottiglie copiate da marche famose. «Ogni palestinese è un ricercato per Israele», ci dice il dottor Ghassan Hamdan, responsabile dell’ufficio di Nablus del Medical Relief, una Ong palestinese che garantisce servizi sanitari.«Non passa giorno senza nuove distruzioni e nuovi lutti. Questa città ha tutte le potenzialità per garantire un lavoro e un futuro ai suoi giovani ma l’occupazione israeliana l’ha ridotta in condizioni disperate. La gente sopravvive, senza fare programmi. Tutti però hanno un obiettivo: resistere», afferma Hamdan. Stimato per la sua onestà politica, il medico palestinese descrive senza reticenze la situazione a Nablus e nel resto dei Territori occupati. «La nostra gente - ci spiega - vuole liberarsi dell’occupazione ma desidera anche dei leader che siano in grado di guidarla con un chiaro progetto politico che non faccia gli interessi della Cia, di Israele, di pochi palestinesi.

Vogliano elezioni politiche oltre che amministrative in modo da eleggere dirigenti politici che siano espressione della volontà di tutti i palestinesi».Secondo Hamdan la faida che nei mesi scorsi ha fatto alcuni morti a Nablus, tra cui il fratello dell’ex sindaco Ghassan Shakaa, «è frutto di rivalità personali, di contrasti fra le fazioni politiche mentre la popolazione della città rimane unita». Sono passati due mesi dalla morte di suo figlio Khaled e Lina Walwin continua a chiedere: perché? Chiusa nella piccola casa nel campo profughi di Balata, sostenuta dall’affetto del marito Maher e degli altri figli - Ahmad, Lana e Dana - ripensa a quella mattina del 27 marzo quando a Khaled, 6 anni, fu fatale affacciarsi alla finestra per osservare le truppe israeliane che avevano rioccupato Balata.

«I testimoni ci hanno detto che a far fuoco in direzione di Khaled è stato un soldato, Israele invece ha chiuso l’inchiesta negando che i suoi uomini abbiamo sparato. Ma io non mi arrendo, voglio che quel soldato, l’assassino di mio figlio, venga punito», dice con tono perentorio. Sulla parete una foto incorniciata mostra Khaled, con il suo pigiama di colore rosso, che siede sorridente accanto ai fratellini. Accanto, in un poster, Khaled invece è uno shahid, un martire, senza più la gioia che colora e illumina i volti dei bambini.