Home > La paura mangia l’anima

La paura mangia l’anima

Publie le martedì 25 aprile 2006 par Open-Publishing

Dazibao Libri-Letteratura

di Fabrizio Violante

Le strade della città sono percorsi senza fine. Nella felice condizione del flâneur è come se tutte le probabilità potessero avverarsi.

Alla fermata mi lascio inghiottire dal metrò: la città di sopra scivola lentamente in quella di sotto, e nell’amplesso delle due città si moltiplicano ancora i percorsi, le probabilità. Riemergo, ma arrivato al Beaubourg il percorso si interrompe: l’edificio, pensato come una macchina della cultura permeabile e percorribile in ogni direzione, con la sua facciata aperta alla città segnata solo dalla diagonale ascensionale delle scale mobili, ha oggi gli accessi chiusi e il percorso di entrata e uscita costretto e direzionato. Questioni di sicurezza obbligano ad una lunga fila verso l’unico varco presidiato e controllato come il check-in di un aeroporto. La città ha paura, e solo all’interno, nella grande esposizione Dada - organizzata in un vasto spazio suddiviso in cellule tematiche quadrate e dagli angoli aperti, senza un senso di visita obbligato -, il percorso si riappropria della sua libertà.

La paura è il tratto caratterizzante della nostra epoca del terrorismo globale e della guerra permanente, e la città è il suo teatro principale. Come avverte Paul Virilio, «la città diventa la cassa di risonanza di tutte le paure», essa è «il bersaglio di tutti i terrori». L’ossessione urbana della sicurezza, la paura dei crimini - che comunque è indipendente dal loro reale andamento -, ha come diretta conseguenza la bunkerizzazione degli spazi della città, la crescente sorveglianza dei luoghi pubblici - e quindi la loro continua riduzione -, e lo sviluppo sempre maggiore delle cosiddette gated communities, che segnano il ritorno alla città chiusa, l’affermazione di un nuovo modello di vera e propria apartheid urbana. Chi può permetterselo si isola in aree residenziali chiuse, enclaves protette da barriere invalicabili, telecamere e squadre di sorveglianza private, e da rigidi regolamenti interni. Queste città private fondate sulla vigilanza e la distanza - dove, come sottolinea Zygmunt Bauman, «la recinzione separa il ghetto volontario degli arroganti dai molti condannati a non avere niente» -, solo negli Stati Uniti sono oltre ventimila con una popolazione che supera gli otto milioni di abitanti, sedotti da campagne pubblicitarie che promettono «un mondo più perfetto».

Il senso diffuso di insicurezza è non solo un fenomeno urbano, ma anche essenzialmente mediale, poiché sono gli organi di comunicazione che alimentano e diffondono la paura. Così quello della sicurezza è diventato dagli anni novanta il tema principale di molte campagne politiche improntate al controllo e alla repressione. L’idea stessa della guerra preventiva è stata giustificata di fronte all’opinione pubblica con la paura di un possibile attacco chimico, e il fatto poi che questo pericolo si sia dimostrato solo una triste montatura, è ancora una dimostrazione di quanto la paura sia un’eccellente sistema di condizionamento.

Infatti il capitale della paura si traduce in profitto non solo politico, ma anche e soprattutto commerciale: la pubblicità sfrutta massicciamente il bisogno indotto di sicurezza per incrementare le vendite. Un esempio è la diffusione dei SUV, propagandati dal mercato, soprattutto nordamericano, come indispensabili per affrontare i pericoli della vita urbana.

Insomma, l’informazione amministra e stimola costantemente la paura, e «la città contemporanea porta ormai chiari i segni di questa paura diffusa nell’organizzazione e nelle modalità di uso degli spazi, nelle forme architettoniche, nella cultura e nei comportamenti quotidiani» (Giandomenico Amendola). Ma i sistemi di controllo e le barriere difensive che tengono fuori gli estranei e con essi i possibili pericoli - nel nome del comfort estremo, la sicurezza interna -, creano comunità blindate socialmente omogenee, che segnano la disintegrazione della democrazia degli spazi pubblici, lasciando che l’uniformità alimenti il conformismo, quindi l’intolleranza.

La paura allora erode l’anima vera e il carattere più stupefacente della città, convivenza - non indolore, certo - di routine e sorpresa. Con Bauman: «la tendenza a ritrarsi dagli spazi pubblici per rifugiarsi in isole di uniformità finisce col diventare il maggior ostacolo al vivere con la differenza, facendo così avvizzire dialoghi e trattative. Con il passare del tempo, l’esposizione alla differenza diventa il fattore decisivo per una felice convivenza, quello che fa seccare le radici urbane della paura».