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Abbattere il muro, per salvare la società israeliana dall’asfissia

Publie le venerdì 23 luglio 2004 par Open-Publishing

de MICHEL WARSCHAWSKI*

Il 3 luglio Azmi Bishara, deputato palestinese al parlamento israeliano,
decideva di iniziare uno sciopero della fame contro la costruzione del muro
dell’apartheid voluto dal governo israeliano nei territori occupati
palestinesi. Il giorno successivo, è stato raggiunto da 10 dirigenti
palestinesi di Gerusalemme Est che rappresentano tutte le tendenze politiche
e i movimenti della regione di Gerusalemme, nonché la direzione della
«coalizione palestinese contro il muro dell’apartheid». Questo sciopero
della fame aveva un duplice obiettivo: in primo luogo attirare, in vista
della decisione della Corte internazionale di giustizia dell’Aja,
l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla gravità della
situazione causata dalla costruzione del muro. Infatti si tratta di un vero
e proprio salto qualitativo: rinchiudendo i palestinesi in diverse decine di
sacche separate le une dalle altre, questo muro mira a distruggere la
società palestinese in quanto tale; ad atomizzarla, provocando un
arretramento di quattro decenni nella storia del movimento nazionale
palestinese.

Il secondo obiettivo dello sciopero della fame era dare una sferzata alle
mobilitazioni palestinesi contro il muro. Queste sono rimaste, fin ora,
sporadiche ed atomizzate, senza centralizzazione e senza che diventassero
una vera e propria mobilitazione nazionale. C’era la speranza che
un’iniziativa centrale, forte e largamente mediatizzata potesse consentire
un salto di qualità della mobilitazione popolare contro il muro, in un
momento in cui l’Autorità palestinese è in piena crisi ed incapace di
dirigere una reale mobilitazione popolare.

Dopo l’inizio dello sciopero della fame, quando mi sono recato a visitare
gli scioperanti, essi mi hanno suggerito di unirmi al loro sciopero.
Nonostante la cosa non avesse alcunché di scontato, la mia risposta fu
spontaneamente positiva. La cosa non era scontata perché questo sciopero era
chiaramente un’iniziativa palestinese e perché i suoi promotori volevano
mantenerla tale. Sapevo che avevo molte possibilità di restare il solo
israeliano in uno sciopero palestinese. Se ho risposto spontaneamente «sì»
all’invito di unirmi allo sciopero, è stato per due ragioni - una personale
e una politica. La ragione personale era legata al fatto che tutti i
promotori dello sciopero, in maggioranza ultra quarantacinquenni, sono stati
miei compagni di lotta nel corso degli ultimi tre decenni, con i quali ho
portato avanti diverse lotte, alcune di dimensione storica: Hani Issawi,
dirigente del Fdlp (Fronte democratico per la liberazione della Palestina,
ndt), è stato uno dei primi contatti politici che abbiamo avuto come Matzpen
negli anni ’70, e ci siamo battuti fianco a fianco durante la
«mini-Intifada» di Gerusalemme nel 1976; ho conosciuto Sirhan Saleimeh nel
carcere della Moskobiyeh, il 30 marzo 1976, e dopo la sua liberazione nel
1985, abbiamo portato avanti numerose campagne contro la colonizzazione di
Gerusalemme; con Ahmad Ghneim, dirigente molto rispettato di Fatah a
Gerusalemme, abbiamo lottato contro la costruzione della colonia di Har
Homa; Abdelatif Gheith dell’organizzazione di difesa dei prigionieri
A-Dameer e il Dr. Ahmad Muslemani del Health Work Committees fanno parte del
consiglio d’amministrazione dell’Alternative Information Center che coordino
da 18 anni. Decine di volte ho manifestato al fianco di Hathem Abdel-Kader,
membro del Consiglio Legislativo palestinese, e con Jude Jamal del Parc ho
partecipato a numerose delegazioni di sensibilizzazione in Europa. Quanto ad
Azmi Bishara, è un amico, e, nei limiti delle mie possibilità, ho
contribuito alla diffusione della conoscenza tra la popolazione ebraica
d’Israele del suo partito, il Raggruppamento nazionale democratico.

Abbiamo condiviso tante di quelle lotte negli ultimi 30 anni, e non tutte
erano lotte israelo-palestinesi. Perché non essere insieme una volta di più?
La lotta comune, che è stata la mia bussola per trentacinque anni, doveva
proseguire...

Ma c’era una evidente ragione politica che mi ha spinto a decidere di
partecipare a questo sciopero, legata alla stessa essenza di questo muro di
separazione e di segregazione. Quando il mio governo, purtroppo con il
consenso della maggioranza del mio popolo, decide di rinchiudere in veri e
propri ghetti un intero popolo, bisogna domandarsi se non è arrivato il
momento di fare una scelta radicale, e di attraversare il muro per essere al
fianco delle vittime del nostro stato. Non ci sono stati, durante l’ultima
guerra mondiale, dei tedeschi e dei polacchi che hanno scelto di unirsi agli
ebrei nei ghetti o di unirsi ad essi nei convogli diretti ai campi della
morte, pensando che fosse l’unico modo di differenziarsi dagli orrori
commessi in loro nome? Non siamo evidentemente a questo, ma è giusto porsi
la domanda e la mia decisione di unirmi allo sciopero dei miei compagni
palestinesi è, da un punto di vista simbolico, un inizio di risposta.

I sette giorni di sciopero della fame sono stati un successo inatteso in
termini di mobilitazione popolare: centinaia di delegazioni sono venute ad
esprimere la propria solidarietà e la propria determinazione ad estendere
l’iniziativa, dal Golan siriano a Hebron, dai campi di Nablus a Nazareth in
Galilea. Sono state organizzate iniziative simili in diverse città e
villaggi. Una dinamica era avviata. Parallelamente, i movimenti di
solidarietà in Europa si sono sentiti motivati dalla nostra iniziativa e,
nonostante le vacanze estive, hanno rafforzato le loro campagne contro il
muro. Il sesto giorno di sciopero eravamo già venticinque, e altri
israeliani annunciavano che si sarebbero uniti a noi dopo il week-end.

La decisione della Corte dell’Aja, che era stata dichiarata dall’inizio la
data cerniera, è stata vissuta sotto la Tenda come una grande vittoria.

Più di cento persone erano presenti nella Tenda quando al Jazeera ha
annunciato il verdetto dei giudici dell’Aja, e le urla di gioia, gli
abbracci e i canti patriottici, riflettevano bene l’immensa soddisfazione
dell’intera popolazione palestinese di vedere riconosciuto il proprio
diritto. «Ora tocca alla comunità politica internazionale giocare il proprio
ruolo», dichiarava il deputato Hathem Abdel-Kader alle numerose Tv presenti
nel nostro accampamento al momento dell’annuncio del verdetto.

Dopo, la discussione è stata burrascosa. Alcuni partiti palestinesi
pensavano che dopo il verdetto dell’Aja bisognasse pensare altre forme di
mobilitazione e quindi mettere fine allo sciopero della fame. Per molti di
noi questa decisione era prematura, ma nella speranza di mantenere l’unità
del movimento si è deciso di interrompere lo sciopero. Ora tocca al
movimento di solidarietà internazionale dare il cambio, e facendo leva sulle
raccomandazioni molto chiare della Corte, pretendere dai governi, europei in
particolare, che prendano le necessarie misure per obbligare Israele a
smantellare questo muro dell’apartheid. Per i palestinesi è una questione di
diritto, per gli israeliani, a più lungo termine, è una questione di
esistenza, perché questo muro condanna la nostra società ad una lenta
degenerazione e alla morte per asfissia.

*condirettore dell’Alternative Information Center

Il Manifesto